Violenza Giovanile

VIOLENZA GIOVANILE E CRUDELTA’ ANCESTRALE
Un male oscuro sembra gravare sul nucleo domestico: la famiglia è dunque un valore a rischio?
In Italia, negli ultimi anni, i reati commessi in famiglia da giovani sono in crescita. Mentre dal 1945 al 1975 si erano registrati una decina di parenticidi commessi da minori o da giovanissimi, nel ventennio 1975-95 la cifra è salita a 53 (di questi, 25 sono avvenuti al Nord Italia, 18 al Centro e 10 al Sud). Dal 1995 al 2001 si sono avuti oltre venti casi di omicidi di minori in famiglia. I giovani che hanno commesso delitti familiari sono in una età compresa tra i sedici e i venticinque anni e sono più maschi che femmine. Ma quando le donne commettono questo genere di crimini lo fanno anch’esse in maniera efferata.
Ecco alcuni orribili episodi di violenza giovanile avvenuti all’interno della famiglia: nel 1974 il ventiduenne Giuseppe Meli, che a quel tempo era in servizio militare, rientrando a casa per una licenza, dopo aver litigato col fratello Antonio, di 19 anni, lo ha ucciso e ne ha fatto scomparire il cadavere in un canale. La polizia scoprirà casualmente, dopo ventisei anni, attraverso il diario dello stesso Giuseppe, che è diventato nel frattempo un barbone, ciò che è successo tra i due fratelli; nel 1981 Roberto Succo ha soppresso il padre e la madre senza apparenti motivi; nel 1985 Massimo Bosso a Biella ha massacrato il padre con colpo di spranga; Giuseppe Carretta, dopo avere sterminato nel 1989 padre, madre e fratello, per ben nove anni è riuscito a far perdere le tracce di sé; nel 1986 Stefano Diamante, ventiseienne, assassinato la madre, la preside Silvana Petrucci, a seguito dei rimproveri per non avere sostenuto gli esami all’università; nel 1998 Riccardo Colombo a Giavera del Montello, ha soppresso madre e fratello «colpevoli – così affermò l’omicida – di avere sbagliato la dichiarazione dei redditi»; Nadia Frigorio, a San Michele Extra, ha strangolato la madre; Pietro Maso, a Montecchia di Crosato, il 16 aprile del 1991 ha massacrato con l’aiuto di tre amici i propri genitori; nel 1992, Giovanni Rozzi, a Cerveteri, complice un amico, ha soffocato i suoi genitori mentre dormivano; Carlo Nicolini, a Giavera del Montello, nel 1995 ha sterminato i suoi genitori a fucilate; Paolo Gagliano, nel 1997 ha soppresso i genitori e il cane che stava con loro. Nel 1975, la diciottenne Doretta Graneris, aiutata dal fidanzato, ha assassinato padre, madre, fratello e nonni, senza avere mai spiegato il perché di quell’insano gesto. Nell’agosto del 2000, il trentatreenne Potito Conte, giovane violento ed ubriaco fu accoltellato dal fratello Nicola di 29 anni. Nel 2001, Paolo Pasimeni, colto da un raptus di paura, ha accoppato il padre, docente universitario, per nascondergli di non avere sostenuto alcuni esami all’università; a Ghemme, nello stesso periodo, nel novarese, la ventunenne Barbara Barbero e il suo fidanzato, Angelo Martinetti di 19 anni, hanno tentato di uccidere la madre della ragazza per futili motivi: la vittima si è difesa ed è riuscita a salvarsi. Nel marzo 2001, a Pompei, la signora Marina Allocca, madre di tre ragazzi, è stata strangolata dal figlio maggiore, Alessandro, di sedici anni, che da tempo le rimproverava di essere la causa del divorzio col padre per cui tra i due da tempo non correvano buoni rapporti.
E una terribile storia di degrado ha fatto scoppiare un dramma domestico ancora nel marzo 2001: al centro della vicenda i continui litigi tra il trentottenne Paolo Magazzù, aiuto cuoco, e la vecchia madre settantenne con la quale conviveva in un tugurio. L’uomo, spesso alcolizzato, da tempo bastonava la madre, la quale però non l’aveva mai voluto denunziare. I vicini avevano più volte convinto Paolo, che non voleva più vivere con sua madre, a tenerla ancora con lui. E ciò fino a quando, dopo un’ultima lite, l’uomo l’ha massacrata barbaramente a pugni e pedate.
Un altro crimine giovanile agghiacciante, accaduto però al di fuori dell’ambito familiare, ma che ha trasformato due giovani vite in un deserto, è stato commesso da due ragazze, Anna Maria Botticelli e Maria Filomena (Mariena) Sica, le quali, dopo aver preparato freddamente l’omicidio,e senza alcun motivo apparente, hanno soppresso l’amica Nadia Rocca.
Casi simili a questi si riscontrano nelle cronache degli ultimi anni anche in altri paesi, quasi che “uccidere” possa essere considerata una scorciatoia per risolvere i problemi che sorgono in famiglia. Gli Usa vantano un terribile primato al riguardo: ogni anno, dicono le statistiche, sono circa trecento gli episodi del genere. Nel 1989, una vicenda sembrò riassumere quanto di più atroce può accadere in una famiglia: i fratelli Menendez massacrarono entrambi i genitori, e, durante il processo, “giustificarono” la loro efferatezza affermando che la madre aveva impartito loro una educazione spietata e il padre aveva abusato di loro sessualmente e psicologicamente per anni.
Un altro “giovane perbene”, Ronald De Feo, qualche anno dopo, massacrò padre, madre e fratelli, e non si è mai potuto appurare perché lo abbia fatto.
Si tratta di atroci episodi, commessi da adolescenti e giovani senza alcuna risonanza emotiva, con straordinaria freddezza, come se fossero indifferenti e incapaci di capire cosa abbiano fatto e senza alcuna presa di coscienza e pentimento; lo stesso isolamento affettivo e distacco dai sentimenti che, a Novi Ligure, nel febbraio 2001 ha spinto la sedicenne Erika Di Nardo, aiutata dal fidanzato, il diciassettenne Omar, ad uccidere la madre e il fratellino. Una “freddezza” che ha fatto dire ad Erika, ad un parlamentare che era andato a trovarla in carcere: «Speriamo che con quel che è successo non perda l’anno scolastico».
È possibile che, dietro tanta glaciale ferocia vi sia invece un eccesso incontrollabile di emozioni e di frustrazioni, con una conseguente incapacità a governarle, sino a far scatenare reazioni così forti e poi a nasconderle anche a se stessi con una impassibilità fittizia.

Necessità di salvare le apparenze
Sebbene non si possa ignorare che tra parenti e consanguinei non mancano tensioni e rancori, si cerca di mascherare lo sconquasso emotivo familiare con una maldestra finzione di perbenismo e di tranquillità. Si tratta di strategie di “copertura” che hanno radici culturali profonde e che tendono ad occultare le conflittualità familiari, che, di certo, sono più estese di quanto le statistiche non sottolineino. Infatti, proprio nella quotidianità domestica si possono sviluppare e moltiplicare tensioni, astii, perturbamenti, dovuti a incomprensioni, a “piccole” ma continue situazioni di gelosia, a persistenti mancanze di rispetto della privacy e della personalità, a punizioni umilianti, e ad altre significative prevaricazioni. Infatti, in nessun luogo come nel nucleo domestico sono permesse tante violazioni del rispetto della persona, ed è tollerata una gradualità di violenza che sarebbe ritenuta inaccettabile in qualsiasi altra struttura sociale.
La giornalista Brunella Giovara, a proposito della violenza tra le mura domestiche, riferisce lo sfogo di Andrea, un perito chimico di trent’anni, che lavora in un’azienda alla periferia di Milano. Andrea racconta alla giornalista che le aggressioni, le provocazioni, il sadismo di suo padre sono stati, per oltre dieci anni, l’inferno per lui e per suo fratello. Se la moglie cercava di farlo ragionare, l’uomo diventava più furioso. Mentre in pubblico questo padre era una persona piacevole, ben inserita, e mostrava di avere molti interessi, in casa era violento con le parole e con i fatti, e teneva tutta la famiglia sotto una morsa psicologica gelida e terrificante. «Ricordo punizioni terribili, completamente sproporzionate. Mio padre era ossessionato dalla sua infanzia trascorsa in un collegio molto severo. A me ha detto che meritavo il collegio o il riformatorio». Il padre legava i figli a letto e li prendeva a cinghiate. Quando aveva diciassette anni, Andrea, fattosi più risoluto, disse a suo padre: «Un giorno o l’altro ti ammazzo». E l’intervistato confessa alla giornalista: «Nessuno al di fuori di noi sapeva cosa stava succedendo a casa».
Si tratta di una delle tante storie, di quelle che comportano la perdita del senso di sicurezza, la perdita del senso di sé. Come questa, coperte dalla privacy e dal segreto domestico, ce ne sono molte, in cui padri padroni maltrattano i familiari, in cui madri lamentose ed ossessive fanno dei figli individui nevrotici e ansiosi. Quella narrata da Giovara è emblematica, e serve da esempio per capire cosa può anche accadere in una famiglia.
In alcuni casi le conseguenze di queste trasgressioni alla civiltà del rispetto non tardano a farsi sentire nei giovani, i quali manifestano la loro ribellione con l’indisciplina e il disinteresse allo studio, il mutismo e l’accidia nei confronti dei genitori, le reazioni psico-corporali, come l’obesità, l’anoressia, e le manifestazioni psichiche più evidenti come un’accentuata timidezza o un’eccessiva aggressività sportiva.
Liebowitz sostiene che in alcuni casi vi può essere un’incapacità neurologica a gestire la frustrazione e la rabbia, e definisce questo disturbo disforia isteroide, che, decifrando il senso dalle parole greche, significa difficoltà a sopportare umiliazioni e avvilimenti, e che si traduce in un turbamento del tono umorale ed affettivo. Si tratterebbe, in pratica, della sindrome che manifestano le persone che non resistono agli stress emozionali, le quali, quando si sviluppa questa sindrome, provano uno stato di disagio che produce una tensione che può far evolvere il rapporto in una situazione infernale.
E tuttavia, nell’ambito del nucleo domestico non è insolito che si venga a costituire una specie di omertà, che occulta il palcoscenico quotidiano di tensioni e drammi e crea una barriera di silenzio nei confronti di tutti gli estranei, impedendo così che appaiono all’esterno fenomeno disgregativi.
Inoltre, poiché è difficile ammettere che il seme della violenza, insito nella natura umana, possa essere coltivato anche nelle famiglie e possa evolvere in maniera devastante, quando si evidenziano crimini domestici che no n possono essere occultati, si cerca di accollarne l’origine ad eventi esteriori alla dinamica familiare.
Non potendo negare che fenomeni tanto efferati accadono anche nelle comunità familiari “perbene”, e non volendo smascherare la causa recondita di questi incidenti, si fa ricorso a spiegazioni di comodo, attribuendone la responsabilità alla eccessiva permissività concessa dalla società agli adolescenti, oppure al consumo di droga, o alla violenza in Tv, o colpevolizzando la Scuola (che non fornirebbe modelli adeguati), o all’influenza delle amicizie “devianti”, o, se si tratta di giovani in età da lavoro, attribuendone la colpa alla mancanza di esso. Ciò contribuisce a mantenere un’immagine della famiglia rassicurante e accattivante, in cui papà, mamma e figli appaiono felici esibendo sorrisi e affettazioni di circostanza.
La gente non ha voglia di approfondire e conoscere come stanno davvero le cose al riguardo, tant’è che mostra stupore e sbalordimento, quando accadono avvenimenti estremi come quelli testé ricordati. Alla presenza di fatti del genere, si può avere trepidazione e amarezza, ma non meraviglia. E tuttavia, c’è chi tende a rimanere con gli occhi chiusi alla realtà. Probabilmente anche la famiglia Di Nardo, distrutta nel febbraio del 2001 dall’insano gesto di una figlia, in passato aveva rigettato, come assurda, l’idea di essere scalfita da un dramma domestico.
«La mia più grande amica è mia sorella», scriveva proprio qualche giorno prima d’essere ucciso dalla sorella Gianluca De Nardo.
L’agghiacciante vicenda di Novi Ligure, in cui la sedicenne Erika e il suo fidanzato, il diciassettenne Omar, hanno massacrato proditoriamente la madre e il fratello della ragazza, porta ad analizzare ulteriormente il problema della ferocia umana, cioè a capire come può accadere che il nostro cervello operi anche con modalità delittuose.

La violenza familiare non è solo quella minorile
Se è difficile stabilire a priori cosa funziona e cosa non funziona in una famiglia, ciò che è più drammatico ed insensato è non rendersi conto che le tragedie familiari possono esplodere in qualsiasi contesto. Per inciso, se non si vuole mancare di obbiettività, bisogna sottolineare che, oltre alla violenza dei figli nei confronti di adulti e parenti, esiste anche l’efferatezza degli adulti sui minori: neonati abbandonati nei cassonetti della spazzatura, sgozzati “perché facevano troppo chiasso”, massacrati per non affidarli al partner, uccisi “per fare uno sgarbo” al coniuge. E ancora: bambini precipitati nel vuoto tra le braccia di un genitore suicida, che li trascina con sé nell’abisso; bambini legati al letto perché non girino per casa quando i genitori sono assenti.
C’è poi la feroce violenza che si consuma tra coniugi, con omicidi per gelosia, pestaggi e stupri all’interno della coppia, fino ad efferatezze imprevedibili, come ciò che avvenne nel 1984, a Chester. In questa ridente cittadina inglese, John Frederich Perry, per non acconsentire al divorzio chiesto dalla moglie Annabel, che, secondo la sentenza del tribunale, gli sarebbe costato la somma di 15.000 sterline da versare alla donna, la uccise, e, dopo aver sezionato il cadavere, lo disperse giorno dopo giorno in una discarica. Ma, non avendo fatto in tempo ad occultare tutti i “pezzi”, Perry non poté impedire che gli agenti di polizia, che cercavano la donna scomparsa, trovassero alcuni resti di Annabel nel suo frigorifero.
Nell’epoca dei progressi della medicina, delle scienze e della tecnologia, l’umanità, per certi versi, affonda ancora nell’età della pietra. Si avverte un forte senso d’insicurezza leggendo le quotidiane cronache criminali: una studentessa che passeggia all’università viene freddata da un colpo di pistola sparato da chi sa chi; una suora è assassinata da alcune ragazze senza una spiegazione; una ragazza viene uccisa dall’amica più intima, la quale, “curandole” il raffreddore, le somministra un potente veleno nella minestra; a Cologno Monzese una donna è stuprata da un giovane ventiquattrenne per strada tra due cassonetti della spazzatura, e nessuno le corre in aiuto, anzi, due giovani di passaggio, la deridono e la insultano; a Sesto San Giovanni, Roberto, studente di diciassette anni, ha sgozzato la propria ragazza, Monica, anch’essa studentessa, di sedici anni, con un colpo di temperino, e in tasca aveva un biglietto d’amore per lei.
Lo sfascio dell’umanità appare più paradossale se si pensa all’enorme progresso in cui viviamo.
La violenza si verifica nella giungla metropolitana come nelle campagne, nel mondo industriale e in quello contadino, e non si tratta di delitti commessi solamente da gente appartenente a classi sociali emarginate, ma anche da persone di buon livello sociale ed intellettuale. La storia e la cronaca sono lastricate di emblematici, sanguinosi drammi domestici, tragiche prove dell’efferatezza della mente umana, in cui è anche possibile decifrare disturbi emotivi, che sfociano in violenze nella famiglia.
E ciò accade anche quando tutto in superficie sembra tranquillo. In realtà, gelosie nascoste, risentimenti celati, ostilità che covano nell’inconscio se tirati troppo alla lunga fanno esplodere sconsiderate crudeltà. Per capire l’origine di tutto ciò bisogna risalire alla storia dell’umanità, e metterne a nudo pregi e difetti, luci ed ombre, virtù e deficienze.

Il cervello primitivo
Quando accadono eventi così violenti e improvvisi, esplode l’indignazione e si leva la condanna. Aldus Huxley ritiene che vi sono persone che utilizzano l’odio come una reazione compensatoria, se non addirittura appagante, sicché, quando tipi del genere accumulano una forte energia aggressiva, si lasciano trascinare a comportamenti feroci. E anche Fromm è del parere che spesso «l’uomo agisce con crudeltà e distruttività traendone una immensa soddisfazione». E pur tuttavia, per una sorta di autodifesa collettiva, si tenta di “rimuovere” l’esistenza di tanta spietatezza nell’essere umano, e non si vuole riconoscere che l’umanità possa cadere così in basso. Si preferisce invece parlare di malattia mentale e di fatalità.
Ma se si vuole veramente tentare di capire i motivi di tanto sconquasso, bisogna convenire che esiste una aggressività, una crudeltà, una brutalità psicofisiologica. Essendo il cervello dell’uomo, come si presenta attualmente, il risultato dell’evoluzione di un aggregato di strutture, molte delle quali ebbero origine all’alba della vita sulla terra, esso è condizionato dagli elementi arcaici primitivi, elementi che di conseguenza sono modellati a strutture comportamentali alquanto selvagge. Analizzando la psicologia dell’aggressività dell’individuo, si può presumere che questo malcostume affondi le radici in un passato ancestrale, del quale l’umanità non si è ancora liberata. In quel “contenitore” che è la mente, si può trovare di tutto, anche la scheggia assassina.
Secondo P.D. McLean il cervello umano sarebbe formato da tre cervelli soprapposti, dei quali i primi due sono retaggio dei rettili e dei mammiferi. Ha affermato a tal proposito Rita Levi Montalcini: «Studi sull’architettura e sulla configurazione dei centri nervosi dei tre cervelli hanno posto in rilievo, nel cervello dell’uomo, l’esistenza di costellazioni nucleari interconnesse da circuiti nervosi non dissimili da quelle del cervello dei rettili».
La Montalcini si è chiesta se non vi siano nel comportamento dell’uomo componenti comuni non soltanto ai mammiferi, ma anche ai vertebrati inferiori. La parte più recente del cervello dell’uomo, la corteccia, è quella che ingloba le parti più primitive – sostiene la scienziata – ed è come un manto ripiegato in mille circonvoluzioni, ma sotto questo mantello corticale dell’uomo, permane in qualche modo anche il cervello del rettile.
In pratica, solo la corteccia, sede della ragione, è la sezione più squisitamente umana del nostro cervello; ma quando la mente perde il controllo critico, essa regredisce a livelli primitivi, ed emerge la zona più ancestrale del cervello, quella di cui si servivano i nostri bis-bis-antenati. A quel punto la natura selvaggia ha il predominio e l’individuo commette crimini efferati.
Secondo Vittorino Andreoli vi è una relazione tra aggressività e alcune parti dell’encefalo come il bulbo olfattivo, l’ippocampo, i nuclei del setto, e quelli del rafe nel pavimento del quarto ventricolo e l’amigdala. Ciò denunzierebbe un retaggio di comportamenti primitivi fissati nel nostro patrimonio fisiologico, che si riflettono anche in quello psicologico.
Già in passato, Konrad Lorenz e A. Storr erano del parere che l’aggressività è deterministicamente un comportamento spontaneo non solo negli animali ma anche nell’uomo. K. Lorenz riferisce che agli inizi del ‘900, il fisiologo W. B. Cannon, cercò di spiegare il complesso meccanismo fisiologico dell’aggressività, assegnandogli come sede principale l’ipotalamo. In condizioni non estreme la corteccia, affermò Cannon, inibirebbe questa attività ipotalamica; ma allorquando si scatena una pulsione iraconda incontrollabile, l’inibizione si attenua e l’ipotalamo ha via libera nel provocare il meccanismo fisiologico di base della aggressività. Si tratta di affermazioni fatte in un periodo in cui l’indagine scientifica cerebrale non utilizzava ancora i mezzi diagnostici più evoluti dell’ultima generazione. Oggi, che la ricerca è più evoluta, si hanno anche delle conferme. Grazie a nuove tecniche di ricerca, N. C. Andreasen afferma che l’ipotalamo contiene i centri che regolano l’aggressività e che pazienti che hanno disturbi affettivi possono soffrire di uno squilibrio nell’asse ipotalamico-surrenale-ipofisario: ciò creerebbe una scarsa adattabilità allo stress.
Sono molti i tentativi di localizzare nell’encefalo le funzioni psicologiche (Paul Broca, Franz Gall, Karl Wericke), ma a tal proposito, sia Oliver Sacks che A. R. Luria sono propensi a ritenere che singole aree cerebrali possano essere incluse in diversi tipi di sistemi funzionali, arrivando così al concetto di polivalenza funzionale delle strutture corticali.
Luria, in particolare, afferma che per analizzare l’attività aggressività dell’individuo, si deve indagare su un complesso polifunzionale che si basa su elementi, tra loro correlati ma anche altamente differenziati, non solo fisiologici ma anche psicologici e storico-sociali. Afferma infatti lo scienziato russo: «Conquista fondamentale della psicologia contemporanea può esser considerato il rifiuto delle posizioni idealistiche che nelle funzioni psichiche vedevano l’espressione di un principio spirituale, diverso da ogni altro fenomeno naturale, e il rifiuto all’approccio naturalistico che nei processi psichici non vedeva se non proprietà naturali del cervello umano».
Un’altra via interpretativa della interconnessione encefalo-violenza, è riferita da Vittorino Andreoli, il quale afferma che secondo alcuni studiosi, «l’encefalo è un sistema organizzativo che sarebbe in grado di integrare un sapere genetico e uno acquisito, storico». In altri termini, l’esperienza è in grado di modificare l’encefalo, il quale, a quel punto, organizzerebbe una struttura biologica così come impone l’ambiente.
In ogni caso però, e indipendentemente dalle localizzazioni delle funzioni mentali, non si può ignorare che nel “contenitore” del cervello esistono, latenti, quei comportamenti ancestrali o acquisiti, che sviluppano aggressività, brutalità, odio, ferocia e violenza, e che sono tutte reazioni di cui si è servito l’essere primitivo. Queste modalità di reazione possono restare inattive per tutta una vita, ma, per una serie di fattori concomitanti e scatenanti, possono essere rimessi in funzione.
Il bambino che si comporta in modo crudele con gli animali, l’adulto che uccide per un sorpasso, il soggetto che replica in maniera aggressiva e sproporzionata ad una minaccia (vera o supposta), non sono che “risposte” ancestrali, non inibite da una efficiente educazione e da un valido controllo di sé.
Partendo da queste considerazioni, è forse possibile formulare l’ipotesi che il cervello umano, la cui base originaria affonda le radici in una struttura atavica, a volte può agire aderendo del tutto alla propria natura originaria, a volte, invece, se ne distacca. E questo accade secondo le esperienze e le sollecitazioni occorse nella esperienza del singolo e in conformità alla sua resistenza personale alle pulsioni.
Scrive infatti la Montalcini: «Nel percorso della specie umana si alternano periodi di progresso e di oscurantismo. Nelle fasi migliori il rettile nascosto nei meandri della massa grigia cerebrale rimane silenzioso(…). Nei periodi di oscurantismo il rettile esce dalla tana (…)».
L’Io, per un istinto di sopravvivenza innato, tende a “difendersi dalle aggressioni” (vere o presunte, fisiche o psicologiche) e, di conseguenza, a reagire per allontanare i pericoli (reali o immaginari) che ritiene incombano su di lui. Ma poiché l’essere umano, a causa delle parti più ancestrali del suo encefalo, ha a “disposizione” metodi anche feroci “di difesa”, quanto più teme che il pericolo abbia poteri distruttivi, tanto più utilizza meccanismi primordiali di difesa. Soprattutto se la personalità è debole, vacillante, e se i suoi “controlli civili” sono corrosi, può accadere che essa faccia ricorso a reazioni primordiali, distruttive e brutali. In quanto ai giovani, dal momento che la corteccia prefrontale raggiunge la sua maturazione tra i 18 e i 20 anni, prima di quelle date essi non solo hanno minore capacità di controllare le emozioni, ma anche la valutazione delle loro azioni non è in una fase di piena maturità. Ne consegue una maggiore irruenza e una inadeguata possibilità di controllo dell’impulsività, assieme a un accentuato amore per il rischio.
Allora si può dire che, sebbene il cervello umano sia passato dai 400 grammi iniziali alla dotazione attuale di circa 1450 grammi, l’umanità non adopera ancora questo meraviglioso strumento nel migliore dei modi. Infatti all’evoluzione della materia cerebrale non è seguito un buon uso della ragione, il cui baricentro a volte si sposta, per motivi ignoti, verso comportamenti primitivi, e così l’uomo, trascinato dall’impulsività, si comporta da stolto e in maniera crudele, non essendo stati ancora del tutto bloccati i meccanismi del cervello primitivo.
Per questo motivo non è possibile ignorare o minimizzare l’esistenza della ferocia e dell’aggressività nell’essere umano: non riconoscendola, o peggio ancora, soffocandola con prepotenza, non si raggiunge lo scopo di eliminarla.
Come afferma Levy-Bruhl, di fatto la nostra attività mentale è insieme razionale e irrazionale, e la prelogica del primitivo coesiste con la logica dell’essere evoluto. Si deve allora tentare di far funzionare al meglio la ragione e di ridimensionare l’aggressività, facendola defluire in comportamenti più utili, sublimandola, insomma, mediante un’educazione appropriata.

Nella mitologia, nelle letteratura, nella storia, l’umanità presenta una sequenza di ferocie
Secondo i racconti delle religioni e della mitologia, la storia dell’umanità è cominciata davvero male: Caino, primogenito della prima coppia, Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele essendo geloso di lui; Absalon uccise il fratello Amnon per vendicare il torto che questi aveva fatto a Tamar (Samuele. Libro II, 13); Jefte fece voto che se avesse sconfitto gli Ammoniti, avrebbe sacrificata la prima persona che sarebbe venuta incontro a salutarlo, uscendo da casa sua. Poiché, rientrando a casa dopo la vittoria, fu proprio la sua unica figlia che gli andò incontro, il voto fatto alla divinità venne adempiuto da Jefte, addirittura con il coraggioso consenso della ragazza (Giudici 11: 29-40); i Cananei, per ingraziarsi la divinità, sacrificavano i figli e le figlie bruciandoli senza esitazione (Deut.12:30-31).
Euripide ha suscitato l’orrore per l’infanticidio perpetrato da Medea sui propri figli, Shakespeare ha reso famosi i drammi familiari di Amleto e di Macbeth. Emblematica è la vicenda dei fratelli Tieste e Atreo, i quali, secondo la tradizione orale, narrata poi dalle tragedie di Sofocle e di Euripide, uccisero il fratellastro Crispippo. Poiché Tieste gli sedusse la moglie, Atreo, divenuto re, invitò il fratello a pranzo e per vendicarsi del torto subito, gli servì come pasto le carni dei figli di Tieste. Questi, avendo saputo di cos’era composto il cibo che gli aveva approntato il fratello, fuggì via maledicendolo. Dall’unica figlia che gli rimase in vita, Pelopia, Tieste ebbe un figlio, Egisto, che, quando fu grande, uccise Atreo e vendicò il padre.
Altra coppia fratricida, quella di Etéocle e Polinice, figli di Edipo, che si uccisero reciprocamente in duello durante l’assedio di Tebe.
In quanto all’eroe della epopea omerica, Ulisse, dopo essere tornato ad Itaca e avere ripreso il suo posto di re, venne ucciso da Telegono, il figlio che l’eroe greco aveva avuto dalla maga Circe. Il giovane era andato a Itaca a trovare il padre, ma, poiché non conosceva chi fosse, essendo entrato per caso in diverbio con lui, lo uccise. Un episodio al quale di certo si ispirarono altri autori greci, e in particolare Sofocle, per la leggenda di Edipo, il quale, come si sa, uccise il padre, mettendo in atto la maledizione di Pelope.
Vicende, queste, alle quali certamente si riferì Sigmund Freud, che probabilmente le prese come prototipi classici di quel parricidio pre-storico, inteso come atto violento della conquista del potere da parte dei figli. «L’eroe che si ribella al padre e in qualche modo lo uccide». Nell’orda primitiva, afferma Freud, il progenitore era il modello invidiato e temuto dai figli. Uccidendolo e divorandolo essi non solo ritennero di aver realizzata l’identificazione col genitore, ma anche di averne acquisito la forza.
Teresa Raquin, di Zola è una delle opera più emblematiche sulla ferocia familiare. Ad essa si è ispirato cento anni dopo il regista Bob Rafelson, che, ne Il postino bussa sempre due volte, ha descritto con quanto indifferenza si possa arrivare ad uccidere il coniuge.
Gianluigi Ponti e Ugo Fornari sottolineano che persino i racconti più innocenti, contengono a volte storie truculente. Si ricordi per esempio Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, storia scritta nel XVII secolo, in cui l’Orco, personaggio ricorrente di tante favole, uccide per il piacere di uccidere. Nelle favole dei fratelli Grimm, viene ripresa l’idea cannibalica di mangiare i bambini, come nel racconto di Hänsel e Gretel.
Non è escluso che mito e favole siano la reminiscenza e la narrazione di fatti umani avvenuti in epoche primordiali e ricordati dalla tradizione orale, o quanto meno, che siano la oggettivazione di vicende suggerite dall’immaginazione, dai desideri, dalle paure dell’umanità. Mito e leggende narrano “i segreti dell’anima”, e quelli della vita sociale dimenticata e rappresentano dunque un lato “della storia psichica dell’umanità”.
Ma anche le cronache di vita reale testimoniano, da sempre, l’esistenza di una inusitata ferocia contro l’infanzia: negli scavi di Cartagine si sono ritrovati scheletri di bambini sacrificati dai genitori alla dea Tanit e così pure sono stati rinvenuti copiosi resti di sacrifici infantili presso gli Egizi, gli Aztechi, gli Incas e gli Ewe, antica popolazione dell’Africa.
La crudeltà ha avuto anche come oggetto le donne, le minoranze etniche, i “diversi” e gli estranei al gruppo. Violenza e ferocia sono mezzi di sopraffazione di chi è al potere, di chi non accetta le idee altrui.
Guerre sanguinarie tra Stati, massacri in nome delle religioni, brutalità criminali nei confronti di popolazioni inermi, sono all’ordine del giorno da che mondo è mondo.
Alcuni episodi emblematici evidenziano che persino popoli civili hanno commesso efferatezze inimmaginabili. Basti ripensare ai Latini che distrussero la città di Veio e ne sterminarono gli abitanti perché facevano “concorrenza”. In quanto alla “grande Roma”, essa ripeté il medesimo livello di violenza contro i Volsci, i Sanniti e contro Cartagine. Gerusalemme fu messa a ferro e fuoco dai Crociati che praticarono una vera e propria “pulizia etnica”.
Due secoli prima di Cristo, la dinastia Qin sterminò le popolazioni degli staterelli cinesi che le si opponevano e divenne un “Grande” impero. Gli spagnoli del civilissimo re Filippo trucidarono i “moriscos” di Spagna, perdendo così, tra l’altro, una stirpe civile e molto utile per le sorti della nazione. Orribile fu anche il massacro degli Ugonotti,e quello delle popolazioni indigene americane da parte degli Europei conquistatori. E come non vedere nella castrazione dei bambini utilizzati perché cantassero nelle chiese e nei teatri, anche un atto di inaudita violenza? E come ignorare l’odio esternato nelle persecuzioni tribali, religiose, politiche e razziali, sin dall’origine dell’umanità?
Per secoli, prima e dopo il Medio Evo, anche nei Paesi considerati più “civili”, la criminalità spicciola, soprattutto giovanile, ha imperversato, con feroce teppismo, nei borghi, nelle campagne e nelle città, senza che nessuno potesse difendere la popolazione da quei manigoldi. Erich Fromm sostiene che «la sete di sangue può impadronirsi delle masse umane». A causa della loro struttura caratteriale, dice Fromm, certi gruppi aspettano o creano situazioni tali da consentire l’espressione della distruttività.
Infatti, non si può dimenticare che, per centinaia d’anni, un pubblico in delirio e pieno di entusiasmo, si è infervorato e si è divertito a vedere l’orribile spettacolo delle sanguinarie lotte dei gladiatori. L’origine di questa truculenta manifestazione non è datata nella Roma imperiale, ma si colloca più indietro nel tempo, e cioè, nel V° secolo prima di Cristo, presso gli Etruschi. Secondo le credenze popolari, lo spettacolo di morte dei gladiatori era stato richiesto dai defunti che avevano bisogno che scorresse del sangue per placare le loro anime. Dal tempo degli Etruschi, e fino alla fine dell’Impero romano, milioni e milioni di persone, in tutti quei secoli, “godettero” quello spettacolo di morte, di ferocia e di crudeltà che veniva rappresentato nell’arena. E non si pensi che lo spettacolo non appassionasse anche le donne, alcune di esse era anche gladiatrici. Ma il fatto più saliente è che i gladiatori erano oggetto del desiderio della signore romane, che, si racconta, in molti casi, erano anche le più sanguinarie tra gli spettatori. Durante gli scavi di Pompei, a riprova della passione femminile per la violenza dei gladiatori, si è trovato, nel luogo dove era la caserma di quei combattenti, lo scheletro ingioiellato di una donna: probabilmente una matrona romana colta improvvisamente dall’eruzione del 79 d. C., mentre era in intimità col suo amante.
Si potrebbe allora dire che, in quanto a crudeltà, l’essere umano non si è fermato a quella dei rettili e degli animali primitivi, i quali, uccidono solo per sopravvivenza. L’uomo, invece, – afferma Fromm – ha una più vasta gamma di interessi vitali, perché non deve sopravvivere solo fisicamente, ma anche psichicamente. Ogni elemento che perturba il suo equilibrio psichico è considerato una minaccia altrettanto vitale, per cui l’uomo tende a conservare anche il proprio schema di orientamento. L’aggressività difensiva ed offensiva umana ha dunque uno spettro più ampio di quello animale. Non solo, ma, come si è ricordato a proposito degli spettacoli truculenti del circo, l’essere umano arriva persino a dilettarsi con la visione della morte.
Secondo Fromm, l’uomo, è «forse il più feroce fra tutti gli animali», e , per una condizione paranoidea, allorquando percepisce un oggetto come una minaccia alla propria sopravvivenza – anche se in sé e per sé illusoria, ma “psicologicamente reale” – è portato a combatterlo e a distruggerlo.
Meccanismo, dice Fromm, che si rileva nelle tribù primitive, quando, morto un membro del gruppo, si immagina che la morte sia dovuta ad influenze magiche nefaste della tribù concorrente. Ciò scatena l’odio e la necessità di annientare la tribù straniera.
Anche questo è un punto di riferimento per capire la sopravvivenza ancestrale della ferocia nei confronti ”degli altri”.
Se crudeltà e violenza fanno parte dell’orizzonte mentale dell’uomo, ciò ovviamente non significa che tutti gli uomini siano nella stessa misura crudeli e violenti; solo che non si può negare che quelli che si dimostrano più sanguinari fanno, purtroppo, anch’essi parte del genere umano.

Come educare: autoritarismo o autorevolezza?
Se è vero che non ci sono rimedi sicuri contro l’esplosione della violenza, una cosa è certa: bisogna acquistare una concreta sensibilità nell’intuire quali tensioni possono comportare conseguenze deleterie e capire che dissapori e animosità possono creare un danno irreversibile. In famiglia, infatti, si deve essere attenti ai retroscena dell’affettività ed è necessario interpretare i silenzi e le fantasticherie, rispettare l’umanità e la sensibilità anche dei più piccoli, oltre che mantenere una continua disponibilità ad allontanare malintesi e ostilità, risentimenti e rancori.
Quando invece, nel contesto domestico si rigira il coltello nella piaga, prima o poi si arriva all’esplosione che meraviglia e stupisce.
Se la sede originaria dell’aggressività e della violenza è nella struttura più profonda del cervello, ciò non significa che non è possibile trovare meccanismi inibitori idonei a trasformare l’essere primitivo in un persona sociale. Infatti, l’educazione converte l’individuo primigenio in protagonista civile.
Vi sono tanti modi di “educare”: la maniera più positiva ed opportuna è quella di impartire una formazione che susciti valori e programmi di vita dagli alti contenuti, una cultura intellettiva insomma che, trasformando profondamente la personalità, sviluppi il senso critico, la ragionevolezza, induca alla presa di coscienza, e apra la strada alla maturità psichica.
Spesso, invece, viene dispensato un tipo di insegnamento che trasla solo “informazioni”, istruzioni, indottrinamenti che insegnano in modo meno impegnativo, e che fanno memorizzare le buone maniere ma non attivano la coscienza si sé e il senso profondo e filosofico dell’esistenza. Si tratta di “istruzioni” che riguardano soprattutto i comportamenti più che le idee, il sapere più che l’essere.
Vi è una forma ancora più superficiale di educare, la quale addestra senza sviluppare capacità autonome di valutazione o affinate prese di coscienza. L’individuo “addestrato” si uniforma agli insegnamenti ricevuti e scarta meccanicamente ciò che gli è stato inibito; egli si adegua all’autorità per pura sottomissione. In questi casi, non viene sviluppata la formazione di un “Io” maturo, e può accadere che il soggetto, in particolari condizioni di stress e di disagio, abbandoni “l’apprendimento ricevuto”, e lasci via libera agli impulsi più ancestrali.
Quando si afferma che un individuo è «bene educato», non sempre è precisata la tipologia pedagogica: c’è educazione ed educazione, e non tutti adottano quella più efficace.
In ogni caso, la peggiore forma d’educazione è quella che si basa sull’emotività degli “educatori”, e che procede ora con permissivismo ora con estrema severità, creando una confusione “schizofrenica” nella mente dei giovani.
È questo il motivo per cui molti di essi non hanno idee chiare sulla vita, sul loro comportamento, su ciò che è possibile fare e su ciò che non può essere fatto.

L’avventura della gioventù nei secoli
Una constatazione di carattere sociologico evidenzia che, a partire dalla seconda metà del Novecento, con la fine dell’autoritarismo si è sviluppata una maggiore permissività nei confronti della gioventù, tolleranza che era mancata durante l’Ottocento. Ciò può indurre a ritenere che la violenza giovanile dipenda dal tramonto del rigorismo, e che basterebbe riattivare l’educazione rigida per ripristinare la «docilità» giovanile. Ma questa è una affermazione che deve essere ponderata con attenzione. Innanzi tutto sperare di ripristinare il rigorismo di stampo ottocentesco sarebbe un’utopia, perché la liberalizzazione che ha inciso profondamente su tutte le strutture civili, non riguarda solo l’educazione, anzi, si può dire che alla pedagogia è arrivata di riflesso.
Infatti, se si osserva la Storia, non si può dimenticare che, nell’era del colonialismo, delle dittature, del nazionalismo esasperato, dell’autoritarismo, del servilismo psicologico dei dipendenti, tutto era improntato all’autoritarismo.
In sintonia con i tempi, i politici avevano un’aria sussiegosa e truce, come se, qualora fossero stati colti in atteggiamento più rilassato o addirittura gioioso, perdessero di credibilità: Mazzini, Cavour, Rattizzi, Ricasoli, Crispi, Bismarck, Metternich, e tanti altri, mostravano di sé un’immagine seriosa e “autoritaria”. Tutto ciò si ripercuoteva anche a scuola, ove il maestro era una figura severa, incapace di un sorriso e nella iconografia familiare borghese, ove le anziane zie, spesso nubili, le vecchie nonne, arcigne tutrici della morale sessuale, i padri di famiglia, alteri e seriosi, erano sempre pronti al rimprovero e a zittire i giovani che volessero dire la propria idea.
Oggi tutto questo è in parte scomparso: anche l’aspetto dell’uomo politico è mutato: egli deve essere allegro, aperto, solare; bisogna che ispiri fiducia col suo sorriso. I politici degli ultimi decenni, da Tony Blear, a Bill Clinton, da Chirac a Gorbaciov, hanno avuto facce distese, spesso in atteggiamento sorridente. Parimenti, anche i maestri sono più affabili con gli alunni, così come pure zie e nonne hanno dimesso i vestiti scuri e il cipiglio di un tempo; ed anche i padri vanno in giro in jeans e sfoderano ampi sorrisi accattivanti. Alla vecchia atmosfera rarefatta si è sovrapposto un clima più disteso ed egualitario come forse non era mai accaduta dall’origine dell’umanità.
Ciò sottolinea l’esistenza di una ampia rivoluzione libertaria e antiautoritaristica a tutti i livelli. Persino la Chiesa, che, nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, era stata molto rigida, ha allentato la morsa, ed è più permissiva ed indulgente con i giovani, tant’è che le iniziative per mettere a proprio agio la gioventù non mancano.
Non si può ignorare che un forte colpo all’autoritarismo è stato impresso dall’ultimo grande conflitto mondiale, al quale parteciparono attivamente, anche con azioni belliche, ragazzini e adolescenti, i quali combatterono, assieme agli adulti, in piazza o alla macchia, e subirono gli sfasci di una guerra atroce e logorante.
Durante la guerra, bambini, ragazzi e adulti furono accomunati nella stessa sorte, subirono bombardamenti e deportazioni. E così, con la fine delle ostilità, anche i giovani, che avevano passato tanti guai assieme agli adulti, divennero protagonisti sociali.
Che un nuovo rilievo abbia preso la gioventù, si deduce dalla tendenza, riscontrata in quasi tutti gli Stati, che ha portato ad abbassare a diciotto anni l’età per esercitare il diritto di voto.
Insomma, a partire dalla seconda metà del Novecento, in Occidente, la gioventù non viene più ritenuta, come era accaduto nell’Ottocento autoritario, uno stadio dello sviluppo in cui l’essere umano è ancora impreparato del tutto alla vita, incapace di gestire la propria esistenza e di comprendere i fatti sociali e politici; ma come un periodo molto attivo dell’essere umano, un’età che consente di essere già integrati nei processi quotidiani di globalizzazione.
Questa trasformazione non poteva non riflettersi anche nei rapporti familiari, che sono stati intesi in modo del tutto diverso dal passato, a favore di un maggior rispetto e di un maggiore interesse per le idee e le attività dei giovani.
Il passo efficace verso una minore oppressione dispotica è avvenuto allorquando coloro che da giovani avevano sofferto i disagi del conflitto mondiale, decisero di non essere a loro volta autoritari, come era stata, nei loro confronti, la generazione precedente. Essi capirono che, dal momento che avrebbero voluto che gli adulti rispettassero la loro emancipazione (cosa che non tutti erano riusciti ad ottenere), ora che loro erano diventati genitori, avrebbero dovuto rispettare la personalità dei propri figli. E così, l’enorme distanza storica, che in passato aveva caratterizzato le generazioni dei genitori da quelle dei figli, si ridusse di parecchio.
La seconda metà del Novecento sdoganò, dunque, la gioventù europea dalle secche in cui era stata relegata per oltre cento anni e la riportò ad una specie di par condicio. Ma, senza la mano pesante dell’autoritarismo ottocentesco, l’irruenza e la violenza giovanile ripresero il sopravvento, così come era accaduto prima dell’Ottocento.
Infatti uno dei problemi sociali del Medio Evo e delle epoche successive ad esso, fino al XIX secolo fu proprio l’irruenza devastante della gagliardia giovanile, che imperversò nelle città e nelle campagne. Fu anche per poterla ingabbiare che ebbero luogo le Crociate, nelle quali confluì la forza dirompente di una gioventù sbandata e senza futuro.
Nel Cinquecento e nel Seicento, le Compagnie di Ventura usufruirono a piene mani del contributo di una gioventù ruspante e senza meta. In quei secoli, il ruolo educativo della famiglia fu limitato, perché buona parte della prima infanzia i figli la passavano presso le balie, e l’adolescenza la trascorrevano nella bottega di un artigiano o al soldo di qualche condottiero che li intruppava nel proprio esercito.
Il Settecento fu un secolo di transizione. In esso si concretizzò quella che è stata chiamata la “pedagogia nera”. La sociologa Katharina Rutschky ha definito pedagogia nera una raccolta di antichi precetti pedagogici, di norme educative a livello quasi delirante che certi perversi “educatori” consigliavano per sottomettere i loro pupilli. La pedagogia nera è l’ingerenza falsamente pedagogica e l’imbonimento di pregiudizi e di norme di pseudogalateo che arrecano danno alla personalità. Su questa scia di farneticazioni, nell’Ottocento si fece strada la convinzione che i bambini si dovessero piegare con le batoste, anche perché, essendo marchiati fin dalla nascita dal peccato originale, era necessario ridurli in soggezione con qualsiasi mezzo per frenare l’istinto peccaminoso congenito.
Nel “Secret Diary of W. Byrd” del secolo XVIII si racconta che quando il piccolo figlio del servo di Byrd cominciò a bagnare il letto, il padre gli fece bere ogni volta una pinta d’urina. Dopo alcune di queste “punizio­ni esemplari”, afferma l’autore del libro, il piccolo smise di urinare la notte.
Un orripilante esempio di pedagogismo nero è il trattato scritto dal dottor Schreber, padre di quel paziente affetto da paranoia analizzato da Sigmund Freud. Libri come quello di Schreber ebbero successo e fecero della crudeltà e dell’insensibi­lità verso l’infanzia il credo pedagogico di molti “educatori” di quel tempo. Leggendo le folli idee pedagogiche del dottor Schreber, è evidente che egli, con il suo pazzesco modo di intendere l’educazione, ha certamente fornito una spinta alla paranoia del figlio.
L’educazione nell’800 si basava dunque sulla convinzione che l’amore dei genitori verso i figli si manifestasse trattandoli non solo in modo rigido, ma addirittura quasi crudele. Ogni violenza psichica verso i bambini era irrilevante e ai genitori era concesso qualsiasi tipo d’intervento, anche il più brutale, se sostenevano di operare per il «bene» dei figli.
J. G. Kruger, altro pedagogista nero in voga tra il Settecento e l’Ottocento, affermava che i genitori sono autorizzati «a scacciare la violenza con la violenza perché così si rafforza la considerazione che i figli hanno dei genitori, senza la quale non sarà possibile educare in alcun modo». Leggendo le farneticanti pagine di questi assurdi “pedagogisti”, sembra di trovarsi in mano un bollettino di guerra. Nella metà del XVIII secolo, Johann Sulzer, altro educatore nero, scrisse che si può far uso della violenza perché, sostenne, con il passare degli anni i bambini dimenticano tutto ciò che è occorso loro durante la prima infanzia.
Il dispotismo era l’humus sociale che imperversava in ogni campo, da quello politico a quello del lavoro, e fu preso a modello anche dai genitori europei, che finirono col riversare sui figli un addestramento che non lasciava spazio allo sviluppo della personalità matura, perché imposto in modo autoritario e senza badare alle esigenze giovanili.
Nei paesi occidentali, agli inizi dell’Ottocento, il ruolo della famiglia e della parentela assunse un peso determinante, ma divenne anche la sede privilegiata di formalismi, di luoghi comuni, di affermazioni da accettare e da non verificare. Gli adulti strutturarono la vita dei figli con una serie di doveri come mai era accaduto prima di allora ed inoltre non diedero alla gioventù alcuna possibilità di contraddittorio.
Questo rigorismo, se da un lato spense gli ardori e le stravaganze giovanili che avevano in precedenza assillato generazioni di adulti, dall’altro si trasformò in un crogiolo, a mala pena mascherato, di tensioni, di malumori e di rancori, che spense l’iniziativa personale, e in molti casi portò alla nevrosi.
Scrive la psicologa Alice Miller che le persecuzioni sul piano fisico, praticate in un lontano passato sui bambini, dall’Ottocento in poi furono sop­piantate da forme di crudeltà psichica, appena mascherate dietro il termine eufemistico di “educazione”. La famiglia ottocentesca, creando un distacco generazionale, perse l’occasione di “educare” in maniera consona i figli.
Nei paesi non europei, questo genere di cultura pedagogica ottocentesca influì poco; cosicché, oggi non possiamo meravigliarci della violenza dei niños delle favelas, dell’asprezza e della durezza dei ragazzi nelle metropoli extraeuropee, dell’aggressività e della brutalità dei giovani mercenari orientali ed africani addestrati militarmente: si tratta di masse giovanili che non hanno mai avuto un’educazione sul genere di quella che, nel diciannovesimo secolo, imperversò in Europa. La violenza che ritroviamo nei niños sbandati che vivono una vita violenta nelle strade e nelle campagne, è rivolta all’esterno della famiglia perché col nucleo familiare il rapporto è estremamente labile; per cui essi non subiscono alcuno stress da una struttura, quella familiare, che in quei Paesi è quasi assente: essi rivolgono la loro aggressività nei confronti della gente che trovano in strada, contro i gruppi concorrenti, che sono gli unici “interlocutori” della loro esistenza giornaliera.
In Occidente il problema è di tutt’altra natura: l’irruenza giovanile si sviluppa nei confronti della famiglia, interlocutrice dei giovani occidentali, come la strada è l’interlocutrice dei ragazzi del Terzo Mondo.
Ma la violenza nella famiglia non è dovuta esclusivamente al sopraggiunto permissivismo. Lo attestano storie domestiche sanguinose, accadute proprio in periodi di maggiore rigidità educativa. Si tratta di orribili misfatti familiari, tutti collocati in periodi non certo di lassismo educativo, anzi, tutt’altro.
Infatti, anche le cronache redatte proprio in periodi di forte autoritarismo, narrano di efferati crimini familiari. Ecco alcuni esempi: nel XVI secolo, a Roma, Beatrice Cenci, fanciulla molto bella e di nobile famiglia, assieme ad un sicario, uccise nel sonno il proprio padre, che certo non era uno stinco di santo. La vicenda fece molto scalpore, anche perché fu lo stesso papa, Clemente VIII, che, riconosciuta la colpevolezza della donna, la mandò a morte. Un caso di parricidio, questo, che gli scrittori Percy B. Shelley e Stendhal hanno raccontato e reso celebre con due loro romanzi; nel XVI secolo, Marie de Brinvilliers-D’Aubray, avvelenò il padre, conte Antoine Dreux d’Aubray.
Nel 1720, la figlia dell’avvocato Francio Blandy, avvelenò il padre che non voleva che si sposasse con l’uomo che lei amava ma che non era piaciuto al genitore; in Francia, verso la fine dell’800, un signora della borghesia, Adelaide Bourcer avvelenò il marito e la figlia; nel 1892, la dodicenne Lizzie Borden, fino a quel momento ritenuta una ragazza modello di una famiglia perbene, massacrò a colpi d’ascia il padre a la madre. Nel 1960, a San Francisco, Ann Duncan, una signora il cui aspetto era quello di una borghese della media società, essendo morbosamente attaccata al figlio, assoldò due sicari perché facessero fuori la giovane nuora, Olga Kupcyzk, “rea” di avergli portato via il “suo” Frank.
Nel 1954, in Nuova Zelanda, la sedicenne Pauline Parker, aiutata dall’amica del cuore, Juliet Hume, uccise a colpi di mattone la madre, che voleva separare le due ragazze, temendo che fossero legate da un’amicizia lesbica.
Nel 1957 il ventenne K. Horst uccise a Francoforte il padre l’odontoiatra Otto Horst, e la matrigna, perché non aveva perdonato al padre d’aveva divorziato. Nell’agosto del 1958, l’industriale tedesco D. Gerdts noto esponente dell’alta società di Amburgo, uccise la moglie, più giovane di lui di ventisei anni, e la suocera. Nel 1960 una anziana signora di Norimberga, di una famiglia agiata, Josephine Fischold, ritenuta fino ad allora correttissima e irreprensibile, recise la gola al figlio Rudolf, per dissapori familiari.
Come si può rilevare, a giudicare da questi e da moltissimi altri casi, quando scatta irrefrenabile il conflitto emotivo e la furia dei sentimenti, i comportamenti violenti ed esasperati si possono manifestare anche in famiglie apparentemente immuni da aberrazioni e da turbamenti morali.

Un sistema educativo adeguato deve sopperire alla transizione dal sistema coercitivo a quello permissivo
Se anche nei periodi di maggiore rigore sono stati registrati efferati delitti, ciò dimostra che non è sufficiente adottare semplicemente un sistema pedagogico rigido per avere la serenità familiare.
Esistono alcune caratteristiche psichiche dell’animo umano, che, se non sono controllate dalla maturità emotiva, possono dare luogo a comportamenti efferati. Se a ciò si aggiunge la difficoltà di sottrarsi, nell’ambito del nucleo familiare, alle inevitabili tensioni e conflittualità, non è difficile desumere quali sono i motivi che fanno esplodere le violenze.
E così, se è pur vero che la maggiore libertà ha dato corso a una flessione della ubbidienza, fino ad arrivare alla ribellione, ciò è potuto accadere anche perché, tolti i blocchi e la repressione, la gioventù non ha ricevuto, in alternativa, un adeguato sistema educativo che potesse frenare l’irruenza propria della giovinezza e la ferocia del “retrobottega” della mente umana: l’autoritarismo dei genitori non è stato sostituito da una adeguata autorevolezza.
I giovani, non più sottoposti ad una istruzione severa e non più inibiti da un addestramento duro e a volte anche arrogante, venuta meno la paura dell’autorità, non hanno incontrato alternative all’indottrinamento di un tempo, e, liberi da vincoli e senza sufficiente maturazione, hanno dato via libera a reazioni violente. Ciò che prima era inibito dal tabù dell’autorità, è diventato, secondo loro, legittimo e realizzabile.
Giovani e giovanissimi credono di essere nel giusto (e in molti casi lo sono) quando contestano la società con le sue contraddizioni. Ma ciò che essi non riescono a valutare è l’impossibilità di riformare, come vorrebbero, la struttura sociale in un batter d’occhio. E così, in una società permissiva, i giovani, perse le inibizioni, sono tornati ad essere agguerriti e aggressivi come prima dell’Ottocento.
La rivoluzione sociale che è in atto, non trova in sintonia adulti e giovani: i tempi adattativi degli adulti sono più lenti di quelli dei giovani, i quali sono più pronti ad assorbire la evoluzione della comunità Questo crea un accentuato divario tra le generazioni; tant’è che i genitori spesso non comprendono i figli, che, invece, si sono subito adeguati alle nuove frontiere del villaggio globale.
I giovani, educati un tempo con rigore dispotico, non azzardavano alcuna ribellione, ma quando è venuta meno la repressione, rimossi i blocchi dittatoriali, hanno perso le inibizioni. La maggiore libertà ha avuto alcuni effetti benefici, tuttavia, poiché non sempre è impartita una educazione razionale, basata sul dialogo e sulla maturità, può accadere che oggi i giovani siano più esposti al pericolo di stravaganze e di violenze.
Ed allora, era meglio l’autoritarismo?
Nemmeno questa sembrerebbe la strada più opportuna, se è vero che l’Ottocento, periodo di maggiore autoritarismo educativo, ha prodotto, più di qualunque altro secolo, individui nevrotici. In molti casi l’autoritarismo, schiacciando la personalità, ha generato individui frustrati o belve inselvatichite dalla rabbia; ma di converso, una gestione troppo assillante dell’amore genitoriale può essere dannosa tanto quanto l’abbandono e la disaffezione. Pur essendo atteggiamenti antitetici, autoritarismo e accondiscendenza sono fonti di disagio esistenziale, di paure e di inquietudini.
È dal carattere degli adulti e dal loro modo di educare che derivano la maturità o la caparbietà, l’irragionevolezza o la serenità, l’immatu­rità affettiva o l’equilibrio interiore, la gracilità psichica o la forza d’animo dei loro figli. Quando le situazioni che affliggono gli adulti vengono “riversate” sui figli, si creano “corti circuiti” emozionali e psicologici che restano impressi nella vita dei minori.
Purtroppo, spesso la transizione dal rigore educativo alla accondiscendenza pedagogica, avviene nell’ambito delle singole famiglie, con una specie di fai da te educativo, incontrollato e privo di riscontri. Spesso la famiglia non è in grado di promuovere l’educazione dei sentimenti, anzi, in qualche caso, sollecita, senza volerlo, una vera e propria confusione dei sentimenti. L’amore possessivo dei genitori, paradossalmente, può soffocare la libertà e affliggere la vita di bambini e adolescenti. L’individuo deve invece essere aiutato a maturare, e solo dopo cesserà di essere un bambino per diventare un membro della comunità. Spesso s’incontrano adulti che non sono affatto cresciuti emotivamente e dunque non sono all’altezza di educare. L’ansia di alcuni genitori pone l’adolescente al centro dell’attenzione e lo stringe in un vero e proprio “accerchiamento” emotivo. Questo atteggiamento soffoca la libertà del minore e stimola problemi psicologici di vario genere. Il minore assillato da adulti nevrotici cresce con una evidente “fragilità” psichica difficilmente sanabile.
I sistemi educativi costruiti sull’onda dell’emotività, non contribuiscono alla maturazione dei giovani. E purtroppo, anche la cronaca dimostra come molte famiglie non siano idonee al compito educativo, e come non tutti i genitori sono maturi e preparati ad impartire un’educazione raziocinante. Anzi, spesso, molti adulti impongono ai figli luoghi comuni e criteri insensati, senza che i minori siano in grado di rigettare quel genere di pedagogia.
E così, allorquando la gioventù ha conquistato il diritto alla libertà, senza che avesse però raggiunta una riflessiva e matura consapevolezza, è stata indotta a sentirsi legittimata a conseguirne i propri obbiettivi con qualsiasi mezzo, violenza compresa. Una deflagrazione rabbiosa, questa, che è stata favorita anche dalla «aggressività ancestrale» di cui è dotato il cervello umano.

L’esplosione è improvvisa e imprevedibile?
La educazione formale, imposta con la paura, stimola la mistificazione, tant’è che parole, gesti, e mimica vengono disciplinati dall’ipocrisia e dal timore di castighi, sicché i reali sentimenti del soggetto non trapelano quasi mai.
È questo il caso in cui non è possibile capire quali emozioni provi davvero la persona che si autocontrolla. I sorrisi stereotipati e un’affettata cordialità, a volte nascondono dinamiche psichiche complesse e pulsioni emotive impossibili da esprimere. Questa apparente tranquillità esteriore rende vaga e ambigua la differenza tra il mondo “dei sani” e quello “dei malati”; infatti, solo quando emerge la furia selvaggia, è svelato il contrasto tra follia e normalità.
Ma come prevedere il “salto” dal mondo dei falsi sani di mente a quello dei malati? Come spiegare l’omicidio di genitori da parte di figli che davano l’impressione di essere educati e rispettosi dei principi loro inculcati?
Spesso i giovani non lasciano trapelare che “dentro” al loro animo, consciamente o meno, ribolle una furia atavica, a volte incontrollabile. In molti casi si tratta di personalità deboli, insicure e infantili, a cui manca un obbiettivo processo di valutazione del reale.
La ragionevolezza di un individuo dipende anche dal buon funzionamento del suo sistema emozionale, e se questo va in tilt, come nel caso delle personalità più fragili, ecco che esplode l’insensatezza umana. Non sapere ascoltare, non sapere intercettare i messaggi più significativi al riguardo è una responsabilità da attribuire agli adulti.
Per dipanare la intricata matassa della violenza e del disagio giovanile, bisogna rassegnarsi all’idea che, agli inizi del terzo Millennio, sebbene l’uomo viva in un mondo tecnologico progredito, egli non ha ancora estirpato dalla propria anima i retaggi della primitiva barbarie. L’unica possibilità che si ha per frenare questa follia è educare meglio i giovani. Infatti, solo un’educazione intelligente e civile potrà renderli consapevoli, non-nevrotici, e ragionevoli.
Purtroppo bisogna riconoscere che gli educatori dovrebbero essere “meglio educati” perché possano educare meglio. Infatti è alquanto tangibile la carenza degli adulti in campo pedagogico.
Spesso i delitti dei giovani si verificano quando sono stati cancellati i confini tra sogno e realtà, e hanno preso il sopravvento gli stereotipi, le chimere e le incongrue convinzioni che sono il bagaglio “culturale” di una società troppo competitiva e arrivista. Se la mente è inquinata da archetipi “para-logici” e da categorie di pensiero inattendibili, allora le capacità di controllo del reale s’indeboliscono e si possono commettere atti inconsulti. In questo caso, la differenza tra normalità e delirio si affievolisce e determinazioni perverse maturano nel crepuscolo della mente, tra conscio e inconscio. A quel punto, il buio scende nel cervello, e, dato che il buon senso viene surrogato dagli atavici meccanismi di difesa-offesa, può accadere che, giovani apparentemente “tranquilli” e “perbene”, si comportino con crudeltà e distruttività.
Se il cervello è integro, se l’intelligenza è sufficientemente sviluppata, allora il controllo della realtà è più chiaro. Tuttavia, la ragionevolezza di un individuo dipende non solo dalle capacità intellettive, ma anche dal buon funzionamento del sistema emozionale. Se questo va in tilt, la necessità di cicatrizzare qualche sopruso (vero o presunto) causa un’esaltazione rabbiosa che porta talvolta persino al delitto. Poiché certe ferite dell’anima sono devastanti più di quelle fisiche, i giovani che non sono più inibiti dal rigore della ubbidienza e che non sono resi ragionevoli da un’educazione formativa, che fornisca loro opportune riflessioni civili, quando sono invasi da un insostenibile accumulo di risentimenti, esplodono in violente e incontrollate manifestazioni di rabbia e di odio.

Conclusioni
L’adolescenza è un’età difficile; tende a contrapporsi all’età adulta, e poiché nessun adolescente è immune da sofferenze psicologiche, bisogna sapere ascoltare e anche parlare con i toni giusti. È probabile che alcuni dei misfatti accaduti all’interno del nucleo familiare, se fossero stati meglio monitorati con una più efficace opera educativa, si sarebbero potuti prevenire. Ma non si deve demonizzare né la famiglia moderna, né i genitori, né la gioventù: il nucleo familiare non è solamente un problema, può essere una risorsa e una certezza e, per fortuna, la maggior parte dei genitori e dei giovani riescono ad intuirlo. E per ciò, è necessario ricordare anche i grandi gesti d’affetto che ancora si usano in famiglia. Uno di questi, forse quello che li riassume e li nobilita, è accaduto a Milano, nel marzo 2001. Un figlio trentaduenne, Daniele Maccarinelli, sposato e padre di due bambini, rischiando la vita e ipotecando un futuro che per la sua salute potrebbe essere denso di incognite, ha voluto donare al padre metà del suo fegato per salvargli la vita. Si tratta di un edificante ed emblematico episodio che, dopo tanto orrore, bilancia quelli delle cronache nere.
Non bisogna dunque lasciarsi trascinare dall’onda dell’emotività, e giudicare troppo severamente la gioventù d’oggi. Tracciando un identikit dei giovani del 2000, senza banali luoghi comuni, si può affermare che non sono né più egoisti, né più fragili di quelli di un tempo. Essi pongono, però, una maggiore attenzione, di quanto non facessero i giovani del passato, alla critica sociale e familiare, e, a differenza dei sessantottini, credono meno all’agone politico, anche perché quello attuale lo trovano arido e desolante.
I giovani del XXI secolo, hanno, in cima ai loro bisogni, l’obbiettivo dell’indipendenza psicologica dagli adulti. Un traguardo che, assieme alla necessità di realizzare al meglio le proprie capacità personali, è al primo posto nei loro desideri.
È un errore grossolano ritenere che vi siano davvero tanti giovani così cinici e prepotenti da formulare piani diabolici per impossessarsi dei beni domestici e sopprimere la loro famiglia quando litigano con essa.
Non si deve pertanto attribuire ai fatti che la cronaca riporta una valenza statistica maggiore di quella reale. Infatti, se da un lato un giusto allarme viene segnalato dai media, soprattutto per quanto riguarda i crimini commessi dai giovani, dall’altro non bisogna ignorare che le statistiche dell’Istat (annuario n°37 del 1991) mostrano attraverso una analisi degli omicidi volontari, preterintenzionali e degli infanticidi commessi in famiglia, che in Italia dal 1930 al 1989, non vi sono stati grossi aumenti percentuali. Anzi, le statistiche indicano che dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’indice di criminalità, per i delitti contro la famiglia è passato, dal 20,8 per 100.000 abitanti nel 1975, al 14, 4 nel 1989.
Insomma, la patologia della famiglia ha un andamento stabile, e se essa è sempre più evidenziata, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore sensibilità con la quale vengono rilevati i crimini in famiglia, una trasparenza e una attenzione che, in passato era mancata, e che può indurre a pensare erroneamente che prima di oggi non vi fosse un numero altrettanto consistente di delitti. Bisogna inoltre riflettere, senza ipocrisie, sul fatto che non esiste il mondo ideale e aprioristicamente perfetto, ma che è possibile, comprendendo certe rabbie, certi distacchi e certi mutismi significativi, intervenire per evitare la loro pericolosità.
Fortunatamente come afferma Frans De Waal, l’essere umano, come tutti i primati, tende anche alla riconciliazione, e far la pace è naturale tanto quanto lo è la guerra. Il comportamento della riconciliazione è un tassello che fa parte della nostra eredità biologica. E meno male.

PERCHÉ I GIOVANI SI DROGANO
La struttura sociale odierna sovraccarica di irrisolti problemi esistenziali, di contrasti generazionali, di condizionamenti economico-storici, si dimostra impotente davanti a un fenomeno di così vasta portata come quello della droga. Il mal di vivere, la solitudine (soprattutto affettiva) e un’infanzia frustrante creano le condizioni più favorevoli per l’approccio alla droga.
L’inganno della droga, il trip (‘viaggio’) ha sostituito l’alcol che provocava l’ubriachezza necessaria per rompere l’accerchiamento della angoscia esistenziale, si è dimostrato fatale. La sensazione euforica, stimolante, la momentanea felicità, sono pagate a caro prezzo perché la dipendenza alla droga crea una spirale senza scampo.
Il problema è serio e coloro che dovrebbero combattere il fenomeno non hanno idea dei metodi da utilizzare.
Il più delle volte i drogati vengono colpevolizzati e trattati con una specie di razzismo morale. Invece di tentare il recupero di coloro che sono i più deboli e che non riescono ad uscire dal tunnel della droga, il più delle volte si cerca semplicemente di escluderli dalla società.
Sebbene oggi la qualità della vita sia migliorata, e ha reso vivibile adolescenza e gioventù, in qualche caso invece la società sembra aver smarrito la carica umanitaria utile ad aiutare e non a punire. Né sempre è la carenza del lavoro che porta alla depressione e all’assunzione della droga. Spesso sono i più giovani, quelli che ancora vanno a scuola, che utilizzano droghe leggere. In qualche caso l’abbandono scolastico, è sintomo e causa dell’inizio dell’assunzione di sostanze tossiche.
Una quota molto alta di drogati proviene da famiglie di genitori separati o divorziati ed hanno assistito sin da bambini ai litigi furiosi tra i genitori. Ma non tutti i figli di genitori separati sono drogati.
I giovani cercano nelle discoteche la conoscenza di se stessi, la prova della propria resistenza fisica e psicologica. La discoteca è il luogo dove è possibile sperimentare un happening tra corpo e mente, una sfida psicofisica per approfondire esperienze diverse da quelle quotidiane. In Italia circa cinque milioni di giovani frequentano abitualmente, a fine settimana, le cinquemila discoteche dislocate nel territorio nazionale.
La discoteca rappresenta un illusorio mondo di libertà. La musica assordante, travolgente, psichedelica ha il temporaneo potere di far dimenticare. La libertà che i giovani cercano nel mondo delle relazioni quotidiane viene realizzata nella danza frenetica che esprime sentimenti primitivi, vitali, corporali, sensuali.
Il fine settimana è vissuto fino all’ultimo respiro, e per trovare le energie necessarie per mantenere quel ritmo dalla notte fino al mattino, i giovani assumono droga.
Secondo ultime stime del Ministero della sanità, in Italia ogni fine settimana vi sono dai 50 agli 80 mila i giovani, d’età tra i 14 e i 22 anni, che assumono droga.
Alla termine del viaggio, che qualche volta si conclude con un incidente automobilistico o più semplicemente con un disastro personale, il drogato vede messe a nudo tutte le carenze della sua personalità. Allora torna impellente la necessità di “farsi” ancora una volta, per allontanare lo spauracchio dell’angoscia esistenziale.
Ma ecco il punto: sebbene il tossicodipendente si rende conto che l’effetto della droga non sia immune da disturbi collaterali, egli ci riprova, nella speranza che sia la volta buona. Ma l’efficacia narcotica dopo ogni assunzione va scemando, mentre ogni dose peggiora lo stato psicologico.
La droga introduce nella personalità caratteristiche psicologiche mai riscontrate prima nel soggetto. I timidi diventano aggressivi, gli introversi si mostrano sotto l’effetto della droga estroversi ecc.
Si pone dunque un problema di identità personale: la droga cambia i comportamenti del soggetto. Più il circuito tormentoso dell’angoscia esistenziale si fa sentire, più il tossicodipendente assume droga per dimenticare la propria condizione che va sempre più allo sbando.
Il consumo di droghe, specie quelle leggere è un fenomeno di massa. Il Ministero della Sanità in occasione della visita di leva di 35.000 giovani, ha rilevato con un questionario che molti di essi usano le cosiddette droghe leggere: lo spinello, la cannabis e i suoi derivati.
Per evitare che i giovani continuino a restare sbandati dopo essere stati esentati dal servizio militare perché tossicodipendenti, il Ministero della difesa ha ultimamente proposto, che quanti sono dichiarati rivedibili a causa dell’assunzione di droga, che tale revedibilità venga subordinata alla disponibilità del soggetto a sottoporsi al trattamento di recupero.(Secondo l’attuale normativa, i giovani tossico dipendenti sono dichiarati rivedibili per tre anni, al termine dei quali, se si accerta che sono ancora tossico, vengono esentati definitivamente).
Forse questo è un tentativo ottimistico: ci si chiede quanto possa essere idonea una comunità terapeutica con le stellette, considerando che fenomeni incresciosi, come il nonnismo e la violenza nelle caserme hanno portato alcuni soldati a volte persino al suicidio. Inoltre, l’eventuale possibilità di recupero alla leva militare varrebbe solo per i maschi tossicodipendenti e non avrebbe un corrispettivo per le donne che si drogano che pure ormai sono un numero altrettanto considerevole.
Dai dati rilevati del Ministero della Sanità un giovane su sei/sette avrebbe assunto almeno una volta qualche tipo di droga, (nella maggior parte dei casi si tratta di cannabinoidi, anoressanti, anfetamine ed ecstasy; Mentre eroina, cocaina e crak, sono assunti da almeno il 3% dei giovani di leva e gli allucinogeni ed inalanti dall’1,5%.
Non ci conoscono le statistiche riguardanti le donne. Ma si sa per certo che esse, come i maschi, tendono ad essere poliassuntori, cioè tendono ad assumere più sostanze insieme per ottimizzare lo sballo.
Poiché tra il 1991 e il 1994 circa il 50% dei detenuti nelle carceri italiane erano in galera per reati relativi alla droga, qualcuno propone la depenalizzazione per assume droghe leggere a titolo personale, non ritenendo utile il carcere come intervento sociale nei confronti dei tossicodipendenti.
In realtà se chi sta lottando per uscire dalla trappola della droga è condannato a consumare le sue giornate in cella, come potrà mai risolvere il dramma che lo ha coinvolto in quelle condizioni di vita?
Infatti, molti tossicodipendenti giacciono nelle carceri, condannati a pene detentive, senza però ricevere alcun serio intervento di recupero. Ecco il punto: in cella, è possibile recuperare un tossico dipendente? Gli operatori carcerari e giudiziari segnalano, con netta lucidità e competenza, la insostenibilità della situazione carceraria attuale soprattutto in rapporto ai tossicodipendenti.
Se si pensa che i drogati nelle carceri costano circa sei miliardi al giorno, cifra che ogni anno è di duemila cinquecento miliardi di lire, è facile intuire che col costo della retta per mantenere per un giorno i tossicodipendenti nelle carceri italiane, potrebbero essere creati cinquantamila posti in comunità di recupero.
Attualmente presso i 560 servizi pubblici (SERT), sono in cura oltre centomila tossicodipendenti, e altri ventiduemila sono ospitati presso le 1370 comunità di recupero, da quella don Chino Pezzoli “Emanuel”, alle comunità di “Mondo Nuovo” a quella di Muccioli a quella di “Alfa Omega” e tantissime altre più o meno efficienti organizzazioni.
Un numero davvero considerevole di giovani si droga, dunque, e il fenomeno non solo non può essere preso alla leggera né può essere solo oggetto di ipocrite discussioni teoriche o di facile retorica “morale”.
C’è chi propone, per evitare ai drogati problemi con la giustizia ai già innumerevoli che li assillano, di liberalizzare le droghe leggere. Ma il problema va risolto alla radice e non soltanto stabilendo se lo spinello deve essere libero o vietato.
Infuria la polemica sulla liberalizzazione o meno, si fanno molti distinguo, si tirano in ballo ragioni etiche e mezze soluzioni. Ma tanto bailamme serve semplicemente a nascondere molte responsabilità: l’inettitudine e l’indifferenza di una società che non sa fronteggiare e prevenire i problemi dei giovani; l’incapacità della famiglia, spesso assente e distratta, per affrontare, con la dovuta competenza, le difficili questioni dell’infanzia e dell’adolescenza; il lassismo di una parte della classe insegnante troppo spesso concentrata più sulle materie d’insegnamento che sulla formazione psicologica dei giovani; la negligenza della classe politica il cui unico obbiettivo è la conquista del potere, ad ogni costo e con ogni mezzo, e il raggiungimento di una piattaforma stabile dalla quale gestire una serie di interessi di vario genere, certo non sempre trasparenti né destinati al bene delle nuove leve.
Insomma, i giovani osservano, valutano, e sono insoddisfatti. Per i più deboli o per i più provati dalla sorte, spesso non resta che la fuga da una realtà che per molti non si presenta né piacevole né edificante.
Decidere se rendere lecito l’uso degli stupefacenti leggeri o proibirne la vendita è solo un soluzione d’emergenza, ma non affronta il problema radicalmente. Decidere sul proibizionismo o sulla liberalizzazione, con la paura di essere oscurantisti o troppo permissivi, comporta non soluzioni innovative, ma fragili espedienti.
Malgrado tutto, bisogna avere il coraggio di ammettere che non è la droga che occupa una posizione centrale nella vita della società: è il problema pedagogico. Solo portando avanti una serie di iniziative, di soluzioni, di promozioni in favore della gioventù, la questione droga ha probabilità di essere risolta. Solo quando la società sarà in grado operare in questo senso, i suoi figli non potranno più essere attaccabili da lusinghe di esperienze allucinanti e illusorie.
Bisogna mettere in luce i danni causati dall’educazione sbagliata e sottolineare i disturbi della personalità che ne conseguono. Gli adulti dovrebbero guidare i giovani ad intendere il significato della vita, aiutandoli a fronteggiare i turbamenti dell’animo. Non si può negare: non tutti gli adulti sono capaci di assolvere a questo compito. Spesso, anzi, l’infanzia è oppressa da adulti nevrotici che spingono i giovani fatalmente alla psicopatologia.
L’inconscio del fanciullo è condizionato dai problemi personali dei genitori. Se gli adulti non hanno risolto le loro angosce, le trasmettono inevitabilmente al bambino.
Una buona azione pedagogica, invece, è fatta di buon senso e di rispetto per la personalità dei minori. La pedagogia dovrebbe essere un insieme di cognizioni, di modelli, di indirizzi mentali che servono ad aiutare a crescere e a maturare. Invece, spesso, al posto di una educazione dell’intelletto vengono impartiti inopportuni modelli di vita, che, prima o poi, causano disarmonie emotive. La violenza fisica, la violenza sessuale e persino la crudeltà verbale sono aggressioni che sconvolgono la mente. Il minore che subisce tali soprusi resta annichilito e, angosciato, ricorrerà alla droga, oppure sfogherà la sua rabbia con l’aggressività e la asocialità.
La comunità ha la cultura necessaria per portare avanti un discorso pedagogico che non sia intriso di falsi valori, di ipocrisie, di luoghi comuni, di scelte inopportune e che eviti gli sfasci psicologici dei minori?
Il metodo più efficace per fronteggiare la tossicodipendenza sarebbero le psicoterapie e la psicoanalisi in particolare. Ma si tratta di interventi personali molto costosi e c’è chi è del parere che questo tipo di terapia, la quale per sua natura è senza limite di tempo aggraverebbe le spese della cura. L’influenza della psichiatria organicistica si fa sentire pesantemente nella sfera sociale della sanità. Nutrendo seri dubbi sull’efficacia delle psicoterapie, alcuni psichiatri hanno proposto il metadone come cura d’urto.
In realtà, bisognerebbe affrontare il problema all’origine, analizzandolo dalla parte di chi soffre ed affrontandolo con umiltà, pazienza e senza preconcetti, per trovare le cause che conducono alla droga.
Un atteggiamento pregiudiziale, ideologico può essere solamente sterile.
Spesso non si capisce in pieno quanto possa essere stata nefasta in certi casi l’educazione sbagliata di madri frustrate e frustranti, di padri-padroni, di adulti poco comprensivi. Chi è rimasto immaturo ed incapace, per dimenticare l’autoritarismo e l’educazione rigida e irragionevole, cerca stimoli forti.
Lo psichiatra Israel Orbach, nel suo libro Bambini che non vogliono vivere afferma che soprattutto nei paesi occidentali un numero imponente di giovanissimi tenta ogni anno il suicidio. Si tratta di minori alla prese con problemi esistenziali e relazionali che li portano alla disperazione e al bisogno di farla finita.
Nella maggior parte dei casi coloro che tentano il suicidio provengono da famiglie i cui membri adulti non sono né sereni né equilibrati.
Il suicidio è un atto denso di significato, un atto estremo. In uno studio condotto a largo raggio si è appurato che sono frequenti i suicidi di minori al di sopra dei nove anni. Prima di quell’età, il bambino non è in grado di prendere in considerazione un provvedimento drastico per evitare una vita invivibile.
A parte il suicidio-ricatto, o il suicidio-appello, ci sono forme improprie di suicidio: almeno un terzo delle overdosi sono veri e propri suicidi.
Che vi sia una correlazione tra tossicodipendenza e problemi socio-familiari è impossibile ignorarlo. In molti casi si è potuto constatare che i genitori dei drogati hanno idee confuse e contraddittorie sull’educazione.
L’inclinazione al pessimismo, le improvvise e brutali violenze, l’umore umbratile di molti educatori possono creare un torbido periodo negli anni dell’infanzia. Spesso una famiglia gretta e tradizionalista spinge il giovane alla ribellione e alla droga. La voglia di trasgressione, la necessità di libertà e magari di una vita disordinata si manifestarono nell’adolescenza. Può accadere che l’oppressione paterna, le amorevoli e instancabili cure di un invasivo amore materno, le brutali minacce e le percosse possono creare una reazione violenta che va dal semplice bisogno di avventura alla ribellione e all’autodistruzione.
La droga è una forma di suicidio che affonda le sue radici nell’infanzia. I giovani che ostentano disprezzo verso tutto ciò che sa di famiglia e di normalità sono pronti per la droga o per il crimine.
La constatazione spinge i più deboli, trascinati dal demone della trasgressione al bisogno di protagonismo, ma anche a un inconscio desiderio di autopunizione. Tutto questo produce una carica di tensione che porta a una struggente altalena di sentimenti di dipendenza e di odio verso la società.
Molti giovani, quando la loro vita è condotta nel peggiore dei modi, attribuiscono i loro insuccessi esistenziali alla fatalità avversa e sono convinti che l’assunzione di droga possa trasformare l’infelicità in benessere psicologico, le insicurezze in coraggio.
Ai giovani viene difficile accettare che spesso sono anch’essi responsabili della cattiva riuscita della loro condizione e che occorre cambiare abitudini mentali e stile di vita per dare una svolta positiva alla propria esistenza. Solo chi ha il coraggio di farlo e muta i suoi atteggiamenti infantili in comportamenti consapevoli e maturi può raggiungere la serenità e l’equilibrio desiderati.
E allora che fare?
L’inconscio del fanciullo è condizionato non solo dall’educazione ma anche dai problemi personali dei genitori. Quando gli adulti non sanno risolvere le loro angosce e le loro preoccupazioni trasmettono inevitabilmente la loro ansietà al bambino. “Abbiamo l’obbligo – sostiene la psicologa F.G. Wickes18 – di indagare la vita privata dei genitori prima di accingerci a curare i disturbi nevrotici del bambino”.
Il fanciullo partecipa non solo dell’atmosfera psichica dei genitori ma anche intuisce le loro difficoltà. A causa della fragilità psicologica dell’infanzia, ciò può pregiudicare la serenità del bambino il quale sente i problemi dei genitori e ne soffre come se fossero i propri. Questa influenza dei genitori risale al periodo della prima infanzia. Essa viene repressa, si sistema nell’inconscio ma non viene eliminata.
Ma c’è anche la società che cera devianze, con l’intimidazione e con insegnamenti e messaggi irrazionali e deliranti. Ogni essere, ogni è formato e determinato dai suoi primi dieci anni di vita, i più decisivi. Sono sempre vissuto, la realtà sociale, la miseria e a la violenza che i minori vedono attorno a sé che possono condizionare la fuga dalla realtà.
Bisognerebbe allora che vi sia un’educazione della ragione. La ragione deve essere educata perché l’intelligenza si atrofizza quando è preda della pigrizia mentale. L’esercizio dello spirito è occasione di una migliore sanità del corpo. L’efficienza mentale mantiene giovani, prolunga la capacità di amare, aiuta a sopportare le avversità della vita e migliora i rapporti col prossimo.
Purtroppo, la famiglia, la società, i mass media trascurano l’educazione intellettuale e talvolta anche alcuni insegnanti si disinteressano dell’educazione intellettuale. Gli adulti, spesso, insomma tirano a campare senza curarsi di sollecitare nei giovani né interessi né curiosità di sapere. Chi non è stato opportunamente educato, non cerca di affinare il proprio intuito psicologico né tenta di migliorare la conoscenza che hanno di sé. Molti rinunziano ad utilizzare la propria vivacità intellettiva trovando comodo adagiarsi su idee banali e grevi Ma la gente superficiale è facile preda di credenze sciocche e insensate.
Bisogna allora scuotere dal giogo dell’ignoranza e far vedere come la saggezza, e non il benessere materiale sia la vera ricchezza. Bisognerebbe dare buoni esempi e una efficace guida intellettuale. Senza di ciò la personalità dei minori s’incupisce e la loro vita diventa un’inferno.
Quando è così, sono già pronti per la droga.

Due donne uccise dai figli negli ultimi giorni
I TRAGICI RAPPORTI CON LA MADRE
L’oleografia sentimental borghese ha istituzionalizzato il rapporto madre figlio come il legame più intensamente e più buonisticamente affettivo. In moltissimi casi, infatti, è così. Ma purtroppo le cose non vanno sempre per questo verso, anche perché, in altre circostanze, quando si scoperchia la pentola dei sentimenti viene fuori la ruggine a lungo tenuta a freno, assieme a tutta una serie di tensioni, di insoddisfazioni, di disagi, di subdole oppressioni e di prevaricazioni, che volontariamente o meno, i due protagonisti del “più grande amore del mondo” si sono scambiati in tanti anni di convivenza, spesso forzosa.
Ed allora sono spiegabili e magari prevedibili alcuni gesti inconsulti, dovuti ad esplosioni di rancore e di odio covati a lungo all’interno della coppia madre figlio. Se a questo stato di cose si aggiunge tutta una serie di pressioni sociali, di “obblighi di onore”, di complessi nevrotici, che condiscono la miscela esplosiva di certi rapporti familiari, a volte diventa inevitabile la tragedia.
Ed allora si può spiegare come, travolto da un mal interpretato senso di “cavalleria rusticana”, un figlio si sostituisca al padre nel ruolo sessuale nei confronti della madre e la uccida per gelosia morbosa, pressato dalle ipocrisie sociali, ma in effetti sentendosi edipicamente intransigente al punto da non permettere che una donna legalmente separata dal marito, una donna che però è sua madre, possa intrattenere una relazione con un altro uomo.
E può succedere, come in un’altra vicenda che è accaduta pochi giorni dopo la prima, che un figlio, tossicodipendente, soggetto per decenni alla pressione nevroticizzante di una madre continuamente depressa, alla fine sia stato destabilizzato al punto da intravedere come unica soluzione l’eliminazione materiale dell’oggetto conturbante, e pertanto, in un ulteriore eccesso d’ira e di disperazione, si sia lasciato trascinare dalla furia omicida. Quando è stato arrestato, il trentaquattrenne matricida ha detto che non sapeva perché l’avesse fatto; ma ha precisato che si era sentito, come altre volte gli era capitato, sotto “l’influsso negativo” della madre.
Del resto, era stato lo stesso matricida a chiamare la polizia, verso le quattro del mattino, quando dopo un’ennesima lite con la donna, l’aveva strangolata. Probabilmente si era trattato di uno strascico di battibecco dovuto al fatto che il pomeriggio precedente il figlio aveva chiesto al servizio sanitario che la madre, che pare fosse andata in escandescenze, fosse internata, ma la donna si era rifiutata. Tra i due c’erano state queste diatribe; anche perché la madre, a sua volte, in passato, aveva fatto internare il figlio.
I vicini di casa, in una intervista rilasciata ad una Tv locale, hanno raccontato di continue liti tra i due, riferendo anche che la donna era spesso nervosa e che per questo, allo scoppio della crisi, era solita gettare tutto ciò che le capitava dal balcone. Insomma, una vita d’inferno, nella quale i due si dibattevano da anni.
Ed allora sorgono tanti interrogativi, non ultimi quelli che riguardano l’efficacia o meno della assistenza psichiatrica tramite la legge 180. Ma ci sono interrogativi ancor più conturbanti e che riguardano i rapporti interfamiliari, per i quali, spesso, si da per certo che vadano bene e che non siano subdolamente nocivi. E ci si dovrebbe interrogare se per essere un buon genitore non bisognerebbe prima avere appreso delle solide basi umanitarie, pedagogiche e razionali, che predispongono la mente ad essere sana e idonea all’allevamento dei figli.
Dal momento che le cronache ci informano troppo spesso di ragazze madri che sopprimono i figli, o che li “vendono” di nascosto a coppie sterili, o di madri che li “affittano” a turpi individui, e dal momento che, a loro volta, dei figli, per una serie di moventi di carattere anche psichiatrico, sopprimono le madri, forse bisognerebbe rivedere con attenzione quali sono i motivi psicologici, sociali, educativi e relazionali che rendono sempre più sbiadita la vecchia oleografia che ritiene l’amore familiare il più perfetto del mondo.
Ma per fare questo, bisognerebbe gettare alle ortiche le vecchie, ipocrite credenze e i beceri luoghi comuni che la famiglia sia sempre il luogo ideale per vivere mentalmente sani e capire che solo una tenace propaganda a favore di una prevenzione sociale potrà davvero evitare una parte delle continue tragedie familiari.