Filosofia, Storia e Religioni

PSICOLOGIA DEL MISTICISMO E DELLA FUGA DALLA SESSUALITÀ

GENESI DEL FENOMENO- SGUARDO STORICO

Astinenza sessuale e avversione per le donne

Per capire quando e perché una certa parte della cultura occidentale abbia imboccato la strada dell’astinenza sessuale e abbia deciso che il mondo senza donne fosse naturale o quanto meno opportuno, bisogna risalire all’atteggiamento mentale in voga nelle prime comunità cristiane. Bisogna infatti rendersi conto che un tempo la religiosità fu soprattutto un faccenda di uomini, un’attività assolutamente virile, che faceva del credente che era quasi sempre maschio un individuo del tutto diverso dagli altri. “Religioso” era l’asceta, il filosofo del cristianesimo, era lo studioso dei problemi dell’aldilà, e tutti costoro si sentivano gli eletti, e ritenevano di essere distinti dai miscredenti e anche dalle donne, dal momento che la religiosità era una faccenda prettamente maschile. La religiosità era dunque un problema che aveva una dimensione quotidiana, ed era strettamente legata a tutti i comportamenti e a tutte le attività del singolo e della comunità. Oggi non possiamo capire l’entità “maschile” di quel fenomeno, perché la religiosità spicciola, la frequenza nella parrocchia, per intenderci, è passata in mano alle donne ed è considerata, dalla popolazione maschile oggi meno interessata di un tempo, in molti casi, una faccenda da “femminucce” e di “vecchie donne”. Ed allora bisogna anche considerare la religiosità anche sotto questo aspetto. Bisogna infatti attribuire alla religiosità femminile una specie di riscatto delle frustrazioni delle donne: essendo state nei secoli bistrattate, poste in secondo piano, e ritenute una specie di dependance del maschio, le donne si sono servite della religione perché, tramite il dialogo con Dio, si sono potute sentire importanti ed hanno riscattato il loro sentimento d’inferiorità. Sono state loro le “elette”, così come un tempo lo erano stati i primi cristiani maschi, ed hanno così trovato una dimensione ad una autostima fin troppo ridotto al lumicino. Così la “professione religiosa” della donna è stata un’alternativa alla professione lavorativa del maschio: sia la donna che l’uomo hanno trovato in esse la ragione più alta della propria realizzazione come esseri umani. Ma bisogna anche precisare che come un tempo la religiosità non era stato qualcosa di distaccato da tutte le altre attività quotidiane dei maschi, ma ne era stata la base, in seguito, la vita delle donne, dopo che per secoli la religiosità è stata retaggio maschile, è stata diretta e guidata dalla religiosità, che è diventata il lite motive, l’appannaggio femminile più caratteristico. Tuttavia si deve precisare anche che, come oggi, ovviamente, non esiste una totale separazione maschio-femmina nei confronti della pratica religiosa, ma è solo una questione di maggiore o minore percentuale di praticanti, anche alle origini non vi fu una totale divisione maschio-femmina nei confronti del problema religioso. Infatti, prima della “svolta ascetica”, che portò all’esclusione delle donne dalla maggior parte delle pratiche religiose, esse erano state le compagne infaticabili dei primi organizzatori cristiani, e le prestigiose creatrici di importanti cenobi religiosi femminili o misti.
Che a quel tempo la presenza delle donne nelle comunità religiose era consueta se non preminente, lo dimostra anche Plinio, che nel 70 d.C., anno in cui i romani distrussero Gerusalemme, notò la “stranezza” di una comunità di asceti Esseni che vivevano senza donne. Infatti a quel tempo era quasi la regola che mogli i preti, vedove, e donne non legate ai religiosi facessero da contorno al clero.
Molte di esse, inoltre, si davano da fare per essere, in prima persona, protagoniste dello sviluppo del cristianesimo. Melania l’Anziana, vissuta tra il IV e V secolo, esercitò un’influenza di rilevo nel movimento monastico nascente. Sposata in età giovanissima, forse a dodici anni, a Valerio Massimo, rimase vedova a ventidue, e dopo avere affidato il figlio ad un tutore, si raccolse in preghiera a Gerusalemme, ove fece costruire un monastero nel Monte degli Ulivi.
Un’altra giovane donna, Olimpia, nipote di un importante personaggio alla corte di Costantinopoli, sposata a tredici e vedova a venti anni, fu aiutata dalla sorella di un vescovo ad entrare nella comunità cristiana e divenne diaconessa di una chiesa della sua città. In seguito divenne compagna spirituale di Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, il quale si mise in urto con l’imperatrice Eudossia, che egli tacciò di dissolutezza e che paragonò ad Erodiade. Eudossia gli sobillò contro una coalizione di vescovi, monaci e sacerdoti che lo deposero e lo scomunicarono.
Malgrado qualche isolata critica, a quel tempo il clero era quasi tutto sposato e viveva con la famiglia. Il matrimonio dei preti era talmente diffuso da costituire una condizione consueta per gli ecclesiastici della parrocchia. Spesso le comunità cristiane erano dirette da coppie sposate come nel caso di Priscilla ed Aquila, e le mogli e le vedove dei chierici divenivano membri influenti della leadership ecclesiastica. E questo stato di cose durò per secoli fino a quando non si intensificarono, da parte di alcune autorità ecclesiastiche le richieste del celibato dei chierici. Ma prima che gli uomini di Chiesa accettassero lo stato di celibato, nelle comunità cristiane il matrimonio erano nell’orizzonte consueto dello stato clericale. Addirittura in uno delle prime collettività popolari della storia della Chiesa, quello dei Montanisti, le donne battezzavano e celebravano la messa.
Un altro di fattiva unione tra uomini e donne lo danno anche i seguaci del siriano Taziano, apologeta e scrittore cristiano, i quali nel II secolo d.C., vivevano assieme, in coppie, legati da casta comunione.
Insomma nel cristianesimo antico non c’era una sola provincia in cui non vi fossero “matrimoni spirituali e reali” nei religiosi, e in cui, uomini e donne, stavano assieme in “casta unione”.

Origine della misantropia
A poco a poco cominciò però a delinearsi una corrente che cominciò criticare la vita spirituale in comune tra uomini e donne, supponendo che di spirituale vi fosse ben poco in quello stare assieme. Questa filosofia rigorista tacciò di ipocrisia quanti affermavano di vivere, accanto alla loro compagna, in continenza sessuale, perché supponeva che fosse ben difficile stare in promiscuità senza provare il bisogno di soddisfare la sessualità.
A quel punto, visto l’attivismo femminile e il forte ascendente delle donne sul clero, subentrò, nei religiosi più rigoristi, un forte odio di classe che li spinse a volere che la donna fosse esclusa dalla cultura e dalla religiosità. Si può ipotizzare che l’uomo cominciando a temere il “sorpasso” femminile, si fosse messo sulla difensiva.
Per l’uomo, ricusare il piacere del sesso significava rigettare il proprio l’asservimento alla donna, e, in altri termini, il potersi sentire padrone di sé e non schiavo di “lei”. Il desiderio poneva l’uomo alla mercé della donna, lo faceva suo schiavo, suo dipendente;e chi si sentiva schiavo della donna, sentiva che aveva perso potere: da qui, a rigettare la schiavitù del sesso per salvaguardare il proprio primato sulla donna il passo fu breve. E così, la paura dell’uomo e il suo rigetto all’asservimento della donna, passò inevitabilmente attraverso la fuga dal sesso.
Quello che era stato il cameratismo spirituale che aveva segnato, gli inizi del monachesimo orientale, e, in parte, di quello occidentale, cominciò ad visto come una schiavitù insopportabile. A poco a poco si creò un irrigidimento sempre più ostile verso le donne; atteggiamento che dipese dal bisogno di consolidare la posizione maschile all’interno della società cristiana.
All’interno del rapporto “intellettuale” ed “esistenziale” tra uomo e donna, il primo volle mettere un freno all’invadenza femminile e ciò per salvaguardare il proprio primato.
Delineatosi così, sempre più, il concetto di una Chiesa caratterizzata dalla successione in linea maschile degli apostoli, le donne ne vennero escluse.
I vescovi presero a condannare gli ecclesiastici che avevano rapporti con donne e li considerarono sovvertitori.
Tertulliano, vissuto nel III secolo d.C., sebbene sia stato durante la sua giovinezza contro il Cristianesimo, per circostanze che non sono note, si convertì alla nuova religione, e, in seguito, divenne anche molto intransigente a proposito della presenza femminile attiva nelle pratiche di culto e le considerò prepotenti e votate alla scalata delle vette ecclesiastiche.
Tertulliano attaccò Marcione perché quello nella sua chiesa permetteva alla donne di diventare preti e persino vescovi e si scagliò. Per tale motivo, Tertulliano prescrisse che non fosse permesso alle donne predicare, battezzare e accedere a qualsiasi pratica ecclesiastica.
Come spiegazione della messa al bando delle donne, Tertulliano, nella sua Esortazione alla castità, spiegò che le donne erano inidonee al sacerdozio a causa del loro sesso, perché si identificavano inequivocabilmente «con la tentazione e con il peccato». Insomma, Tertulliano, forse perché in assoluta astinenza, con fantasia esacerbata, tacciò le donne come il male più grave dell’umanità.
Il passo successivo ed inevitabile che escludeva le donne dal sacerdozio e da qualsiasi pratica religiosa fu l’ascetismo maschile.La castità allontanava dalle donne ed era la condizione indispensabile per una vita cristiana.
Ma la castità, in un individuo sano, se protratta per tutta la vita, non poteva che condurre a uno stato di continuo disagio, di lotta col proprio corpo, di esaltazione parossisitica, tutte situazioni limite che e non potevano che far mutare la tensione erotica in visioni, allucinazioni e sofferenze di vario genere.

L’esclusione delle donne e l’ossessione della lussuria
Dal momento in cui furono rigettate le donne dall’orizzonte dei religiosi, a causa dell’astinenza forzata, scoppiò sempre più, nei chierici e nei pii uomini, la paura della tentazione sessuale e paradossalmente aumentò il richiamo della lussuria. Due tensioni che vennero identificate come il supposto adescamento femminile. Le donne vennero bandite dall’orizzonte degli ecclesiastici i quali combattevano giorno e notte contro le idee erotiche che li assillavano. L’esclusione delle donne era destinata ad avere una influenza profonda sull’ascetismo e anche sul tutta la concezione della Chiesa cristiana.
Un esempio di questa lotta all’ultimo sangue tra uomo e donna ce lo fornisce Origene. Vissuto nel III secolo, costui era figlio di un martire cristiano,e crebbe sotto la protezione di dame religiosissime e in particolare di una ricca signora. Convinto che fosse possibile prescindere dalla sessualità, a vent’anni, sentendosi “disturbato da idee lussuriose”, si evirò, rinunziando così a ciò che faceva di lui un uomo.
Nel IV secolo, la presenza femminile nelle pratiche di culto era ormai confinata, e Ambrogio propugnò il primato maschile nella Chiesa e invitò a scegliere come capi e guide morali soltanto quegli uomini “che avessero raggiunto il massimo controllo dei loro istinti sessuali e che avessero votato la loro vita al celibato”.Coerentemente Ambrogio attaccò Gioviniano che sosteneva pari dignità spirituale al celibato e al matrimonio.Tra parentesi bisogna dire che Gioviniano fu considerato un eretico oltre che per questa sua idea, anche perché ritenne che chi era battezzato non doveva più temere di peccare né di essere tentato dal demonio, negò inoltre la verginità di Maria.

Tormentosa ambivalenza nel rifiuto della donna
Tuttavia accanto alla convinzione che la donna fosse il veicolo sicuro per mandare l’uomo all’inferno, gli uomini ebbero una certa resistenza ad abbandonare del tutto la compagnia femminile. Una ambivalenza, questa, che perdurò nei secoli e che fece si sviluppare l’ossessione per il sesso, un tormento continuo che oscillava tra la necessità fisiologica di avvicinare la donna e la paura del peccato.
Un esempio di questa drammatica ambivalenza la dimostra, nel V secolo, Girolamo, il quale, dopo avere abbracciato la fede cristiana, per sua stessa ammissione, ammise che egli, in gioventù, aveva avuto una grande inclinazione verso le donne, e il suo riconoscimento della persistenza del desiderio si rifletté sul modo come egli trattò l’invito alla dura astinenza nei suoi scritti.
Girolamo approdò al cristianesimo dopo una lunga serie di viaggi, quando venne colpito da un grave malattia che lo costrinse a restare ad Antiochia ove prese a studiare il greco e poi la Bibbia. Quando passò a Roma, dopo essere stato ordinato sacerdote, fu attorniato da un gruppo di dame desiderose di conoscere i principi cattolici. E Gerolamo che probabilmente aveva seguito l’insegnamento di Origene, ormai che probabilmente era senza più affanni di carattere sessuale, viveva senza troppi drammi la presenza femminile nella sua stessa cerchia di religiosi. Ma poiché egli non aveva risparmiato critiche al clero romano sposato, si mise in modo una sollevazione popolare che lo fece cacciare da Roma sospettando che fosse facile preda della concupiscenza, dal momento che viveva con delle donne. Girolamo fuggito da Roma andò a Betlemme, ove visse con la vedova Paola e le due della donna, Eustochio e Blesilla. Questa compresenza femminile nella vita di Gerolamo non fu sempre accettata,anche, se, nel caso del nostro egli era orami, avendo forse seguito, come molti suppongono, l’esempio di Origene, “al di sopra di ogni sospetto”.
E si può capire l’insistente misoginia, e la fuga dalla sessualità, perché diventava sempre più consistente il numero dei chierici che accettavano il celibato e di conseguenza tutta la classe dominante della Chiesa era in preda alla “preoccupazione” di scacciare le quotidiane pulsioni sessuali e le donne che le sollecitavano. WWW
Tuttavia, questa ripulsa del femminile e della sessualità non fu unanime, se nel 362 il Concilio di Granga ebbe a condannare coloro che volevano cancellare il clero posato, appoggiando l’idea della virtù del sacro vincolo coniugale anche nei preti. Ma si trattò di uno degli ultimi conati al riguardo: dal V secolo in poi i concili appoggiarono sempre più l’idea delle continenza e del celibato del clero. Tanto che i sinodi del VII secolo obbligarono i chierici alla continenza e alla separazione dalle mogli. E tuttavia, malgrado questo, il clero, per secoli, continuò a sposarsi, ad aveva figli e trasmetteva i beni ecclesiastici in eredità alla prole.
Il secolo IX vide sempre più convergere verso il celibato dei preti e, di converso, il matrimonio venne sempre più visto come un vincolo indissolubile. Nell’ideale cristiano, l’unico rapporto legittimo tra i sessi, fu il matrimonio monogamico. Per le donne che non si sposavano l’unica possibilità che si presentava era entrare in convento. In questo modo gli ecclesiastici si liberavano della presenza ingombrante e tentatrice delle donne non sposate. Ma questa possibilità data alle donne fu però un arma a doppio taglio, perché le spinse a continuare l’opera iniziata agli albori del Cristianesimo, scatenando una campagna molto intensa per avere la potestà di erigere conventi. Ma non cessò del tutto la cooperazione tra maschi e femmine nelle pratiche del culto. In Irlanda, per esempio, sorsero monasteri doppi, senza pregiudizi antifemministi. Anzi i monaci ricercavano l’amicizia delle donne. L’esistenza di questi monasteri era dovuta anche al fatto che le monache avevano bisogno dei preti per celebrare messa. Una comunità monastica del genere la fondò Pacomio e sua sorella in Egitto, Esilio e Marcina in Cappadocia, Paola e Girolamo a Betlemme, Melania l’Anziana e Rufino a Gerusalemme. Nel VII secolo, Ebba, sorella di re Oswy, fondò un monastero a Coldingham. Il monastero di Wimbourne, nel Dorset, fu una delle ultime comunità fondate come monastero doppio.

Vittoria della mascolinizzazione
A poco a poco la creazione di monasteri doppi venne proibita per isolare delle donne dalla leadership clericale. E fu la rinascita carolingia che diede il colpo di grazia alla parità delle donne, perché ignorò la cultura femminile, e la promozione degli studi, ecclesiastici e laici venne solo indetta in favore dei maschi. Le scuole ospitate nelle chiese nei conventi erano dedicate agli ecclesiastici, per cui le donne, di fatto, furono estromesse sia dal culto che dal sapere. La mascolinizzazione della Chiesa e la relativa fuga degli uomini più pii dal contatto con le donne si andava compiendo.
Il risultato fu che la donna venne sempre più allontanata irreparabilmente dalla formazione intellettuale maschile e nei suoi confronti si venne ad instaurare il sospetto che fosse connivenza con forze negative fino ad arrivare ad essere tacciata di stregoneria. Ma l’ambiguità maschile nei confronti della donna, non cessò.
Essa venne drammaticamente vista, a causa dell’aspetto sfrenatamente sensualistico della mente e del corpo maschile, sotto le spoglie della provocatrice di lussuria.
Ma se era colei che sollecitava i desideri, era anche quella che poteva appagarli, e pertanto fu ritenuta subdola tentatrice, che a causa della sua perfida, poteva spingere l’uomo a perdersi per sempre.

La fine dell’era carolingia e il temporaneo ritorno al femminile
Ma l’era carolingia non mise definitivamente fine alla guerra “dei sessi” nel campo ecclesiastico, perché essa perdurò a lungo con alterne vicende. Infatti, con la morte di Ludovico il Pio, nel 840, finisce la dinastia carolingia, e i vescovi si distaccano dalla soggezione all’impero e passano sotto il potere laico, rappresentato dai signori dell’aristocrazia feudale. I vescovi, non più difesi dall’imperatore non furono in grado di imporre ancora il rispetto della disciplina, e i preti tornarono a vivere con mogli, concubine, e persino alcuni degli stessi vescovi finirono con lo sposarsi. Con il disfacimento della autorità ecclesiastica, anche le donne , sia quelle laiche e che le religiose ripresero il campo.Le monache ritornarono ad avere voce in capitolo soprattutto nell’ambito delle lettere e della cultura. Una tradizione intellettuale che ebbe, nel X secolo, come rappresentanti Hroswitha da Gandersheim ( piccolo principato retto da donne), Herrada di Heidenheim, e la mistica Ildegarda di Bingen.
Nel 970, in Inghilterra, a nord di Cambridge, nella cattedrale di Ely, Etelreda, fondò un convento, che sua figlia Sexburga e poi sua nipote Ermenhilda continuarono a dirigere.
La battaglia dei sessi si rinfocolò e vide una altra vittoria maschilista con l’avvento del monastero di Cluny, che segnò un’ascesa del maschilismo e la difesa della santità clericale contro il pericolo “femminile”. I vescovi tornarono a scacciare dai monasteri i monaci e i preti che avevano mogli e famiglia. Le abbazie che erano state sedi di monasteri doppi mandarono via badesse e monache e rimasero interamente abitate da monaci. Agli occhi dei riformatori le donne erano l’anticamera dell’inferno. Ma nel contempo, il clero sposato che si rifiutava di obbedire alla regola e che era costretto a separarsi dalle migli e dai figli prese a ribellarsi, impiegarlo mezzi altrettanto violenti di quelli che adoperavano i vescovi per piegarlo all’ascetismo. Ne risultò uno scisma: i riformatori si allearono con i normanni, i ribelli con i principi e la nobiltà. E così, quando i riformatori elessero Alessandro II, il clero sposato contrappose a quel papa Onorio II. Per un secolo divampò la querelle tra fautori del celibato e assertori del matrimonio degli ecclesiastici.Alla fine, però prevalsero i riformatori. Nel 1123 il I° Concilio Lateranense dichiarò nulli i matrimoni degli ecclesiastici. Nel 1139, il II° Concilio dichiarò che l’ordinazione a prete invalidava il precedente matrimonio. Ai chierici con moglie venne tolto ogni sostentamento e furono perseguitati e deposti, le loro donne caddero in miseria e assieme ai loro figli provarono l’orrore della fame.
Per “purificare” la Chiesa, l’azione dei pontefici fu durissima: Urbano II ridusse le donne dei chierici in schiavitù e le offrì ai nobili come serve in compenso dell’opera che essi prestavano per “ripulire” la Chiesa dai reprobi. Nel contempo, fiorì, la cultura omosessuale: in contrasto con l’orrore per la donna, nessuna condanna ufficiale invece per gli amori tra uomini. Anselmo ebbe una relazione amorosa col giovane discepolo Osbern, e né Leone IX, né Alessandro II /né tanto meno Urbano II condannarono mai i rapporti omoerotici. In più, fu proprio l’influenza dei preti omosessuali che rinvigorì le proibizioni dei matrimoni ecclesiastici. In quell’orizzonte maschilista e omosessuale, le donne non avevano più alcuna ragione di contatto.

Il sopravvento del maschilismo nella cultura
Il sorpasso finale del maschile sul femminile e il definitivo distacco tra uomo e donna si ebbe quando la Chiesa prese in mano la gestione della cultura e, in particolare, allorquando le università vennero gestite dall’autorità ecclesiastica. Innocenzo terzo per esempio, emanò lo statuto dell’Università di Parigi. Con esso il controllo accademico divenne uno strumento per il reclutamento esclusivamente maschile dei dotti. L’università divenne così non solo il bastione dell’ortodossia, ma anche la garante del primato assoluto del maschilismo.
L’ideale celibatario dell’università fa sì che persino il latino venga usato come strumento classista: essa infatti diventa la lingua dei maschi, ed assolve al ruolo psicologico di identificare l’ambiente maschile. L’ossessiva cacciata delle donne dall’orizzonte maschile, si esterna chiaramente, nel XII secolo con il trattato contro il matrimonio scritto dall’arcidiacono di Oxford, Walter Map. Costui era un ex studente dell’università parigina e aveva assorbito il rigore esclusivista e maschilista che in essa vigeva. Generazioni di predicatori utilizzarono il trattato di Map per dimostrare le ragioni della fuga dalla donne.
L’ossessione antifemminista e, di conseguenza, sessuofobica arrivò al punto che coloro che volevano insegnare nelle università dovevano giurare che non si sarebbero mai ammogliati, e quelli che erano ammogliati dovevano divorziare e giurare che non avrebbero mai più ripreso il legame con la moglie dalla quale si erano separati, pena la perdita dell’incarico. Il divieto fu così drastico e durevole che, per esempio, in Inghilterra, soilo nel 1882 fu concesso ai professori–fellows di poter prendere moglie!
Ma durante tutto il periodo della espulsione delle donne alla cultura universitaria la castità più rigorosa fu osservata solo nei confronti delle donne, perché in pratica, le università furono un crogiolo di omosessuali. Roberto Grottatesta, nemico inflessibile delle donne, che faceva strizzare dai suoi scagnozzi le mammelle femminili delle religiose per poter accertare sa avessero latte e se nascondessero dunque una sessualità occulta, era l’amante del suo collaboratore e segretario Adam March, del quale diceva che era «l’altra metà della sua anima » e « il dilettamente amato con tutto il suo essere». Per gli intellettuali e gli ecclesiastici di alto ragno la donna era solo un disturbo, ed essi la lasciavano ben volentieri ai campagnoli ignoranti, ritenuti potenzialmente delle bestie, gli unici che potevano «sporcarsi con le donne» senza poter avere più alcun danno. In quanto a loro se doveva essere, era amore omosessuale. Così fu Francesco Bacone, che, sposatosi per convenienza, era però un noto omosessuale che viveva in intimità con i suoi servitori. Di conseguenza Bacone fu anche un assertore della inutilità, anzi, della “pericolosità” del matrimonio, se ebbe a dire nel suo Marriage and the Single Life che «le opere migliori sono dovute a uomini celibi o senza figli». Anche un altro grande scienziato Robert Boyle, inventore della chimica moderna, non amò le donne, si votò al celibato e convisse con un “amico del cuore”. Un suo discepolo Robert Hocke fece voto, ancor giovane di rimanere casto e celibe, ed era tanta la convinzione che le donne fossero causa di vari disturbi, che il biografo e amico di Boyle, John Evelyn, pur essendo sposato e non del tutto scontento del suo stato, ammetteva che in realtà quella del celibato era la scelta più consona per uno scienziato. Del resto la Royal Society britannica rappresentava dunque, in quanto a misoginia e ad omosessualità, la continuazione dell’ascetismo clericale del Medio Evo. Isaac Newton evitò per tutta la vita le donne e alla fine si disse del tutto soddisfatto d’essere giunto a tarda età vergine. Da piccolo fu abbandonato dalla madre che, dopo che perse il marito, si risposò e lasciò il figlioletto a dei parenti, per riprenderlo solo quando Isaac aveva undici anni. Da studente il giovane Isaac fu influenzato dal teologo di Cambridge Henry More a non stare con le donne, e poiché probabilmente egli aveva già il dente avvelenato, non gli fu difficile crede al suo maestro che le donne sono infide. E il rinforzo alla misoginia Newton l’ebbe da Isac Barow, un ecclesiastico membro della Royal Society che lo istradò alla matematica e lo distolse dalla donne. A riprova della tensione che le donne creavano in Newton, lo scienziato, nel 1693, in piena crisi psicotica, accusò l’amico John Locke di volerlo coinvolgere a frequentare le donne. E quella crisi che durò circa un anno e mezzo, era anche frutto di una esplosione omosessuale che aveva coinvolto Newton il quale si rovò improvvisamente “innamorato” di un giovane scienziato svizzero, anch’egli celibe, Fatio de Duillier, un vero genio, che pare abbia procurato a Isaac non pochi desideri, tutti repressi, per la verità, ma tutti venefici per la sua salute mentale.
Insomma, la fuga dal sesso e dalle donne, in Newton, non fu che il prodotto di una crisi infantile e di una sociologia universitaria che imponeva che le donne fossero tenute lontane dalla cultura.
E quando, in seno alla cultura universitaria qualcuno scagliava una lancia in favore delle donne, subiva l’ostracismo più assoluto. E quando uomini di cultura, come Galileo o come Cartesio, ebbero una relazione, certo non si comportarono da gentiluomini nei riguardo delle loro compagne: Galileo abbandonò moglie e figlie «per darsi interamente alla scienza» e mise la bambine in collegio da dove non uscirono mai più; in quanto a Cartesio, che ebbe una figlia dall’amante Helena Jans, una serva che era la sua factotum, dopo che gli morì la bambina abbandonò la donna al suo destino, per dedicarsi, disse, alla «riconcettualizzazione dell’universo», impresa che, con una femmina accanto non avrebbe potuto compiere.
Ma il maschilismo nel campo del sapere ha avuto un peso considerevole non solo nei rapporti uomo-donna, ma anche in seno alla psicologia femminile. Un esempio del danno arrecato sia alla condizione di donna che all’animo femminile ce lo danno alcuni esempi emblematici. Tra questi la vicenda di una giovane donna di Cracovia, che entrò nell’università locale sotto sembianze maschili, e che, prima apprezzata per la sua sapienza ma dopo che, trascorsi alcuni anni, fu riconosciuta venne rudemente espulsa dalle lezioni e forzatamente rinchiusa in un convento di clausura.
E quella della francese Christine de Pisan, vissuta tra il XIV e il XV secolo, prima donna in Francia che poté possedere un esteso sapere, ma che purtroppo si convinse che la cultura era retaggio dell’uomo, l’unico essere degno di questa iniziazione, e così lei, essendo donna, finì col disprezzare se stessa e il genere femminile. Solo in seguitò Christine potè, a malapena, superare “la disperazione d’essere donna”.
Ma non tutte a quei tempi ebbero questa forza d’animo: molte donne di elevate virtù intellettuali, a causa del martellante disprezzo maschile della femminilità, finirono con l’odiare se stesse e col considerare il corpo femminile ricettacolo del peccato e della lussuria. Vedremo come Rita Lotti, detta poi Rita da Cascia, Angela da Foligno, Gemma Galgani, e tante altre hanno ripudiato se stesse e la loro corporalità femminile, secondo la tradizione maschilista preda e possesso del Maligno, impegnandosi in una ossessiva e devastante fuga dalla sessualità. Una tradizione questa, che, tranne qualche eccezione, come quella della monaca Lucrezia Buti, la quale, dopo aver fatto da modella per La Vergine del Gesù, di Filippo Lippi, si fece convincere ad abbandonare la tonaca e la vita del convento per assaporare le gioie del matrimonio, o come quella, ma molto tormentata, della Monaca di Monza, o come la vicenda della regina di Svezia, Cristina che essendo “sfrontatamente” atea, non volle né sacerdoti né mistici nel suo entourage, ha viaggiato sempre sul binario molto rigido della condanna del sesso. Si pensi ad esempio la vicenda di Benedetto da Norcia, vissuto intorno al V secolo d.C.
Benedetto era nato in una nobile famiglia; da ragazzo era vissuto da benestante, aveva studiato a Roma, ma poi, non si sa bene per qual motivo, l’agiografia afferma perché disgustato dall’ambiente lassista della città, abbandonati gli studi, condusse per oltre tre anni vita solitaria sui monti di Enfile, ove ebbe come maestro l’asceta Romano. Dopo qualche anno di ascetismo venne invitato a reggere un monastero presso Tivoli, ma poiché la sua regola era troppo rigida, i monaci addirittura tentarono di avvelenarlo. Passò a Subiaco, ma dovette abbandonare anche quella comunità dopo che venne invasa da uno stuolo di “donne svergognate”, inviate, ad arte, dal monaco subiachese Fiorenzo, il quale, geloso del grande carisma che stava conquistato Benedetto, e certamente conoscendo la manifesta riluttanza verso il sesso di Bendetto, lo indusse a fuggire. Recarsi sul Monte di Cassino, assieme alla sua sorella gemella Scolastica, alla quale era particolarmente affezionato e in sintonia spirituale, e a due fedelissimi e prediletti discepoli, Mauro e Placido, Benedetto costituì vari monasteri.
L’agiografia di Benedetto narro che egli si sentì perseguitato dal demone femminile, che per calmare le sue bramosie si gettava girandosi e rigirandosi sui rovi spinati, per dimenticare le pulsioni erotiche della carne. Dunque, non siamo fuori strada se pensiamo che il motore portante della fuga da Roma, e poi dal mondo, di Benedetto da Norcia sia stato il problema sessuale. Si può ipotizzare che abbia subito qualche shock durante gli studi intrapresi a Roma, come per esempio, l’essere avvicinato carnalmente da qualche suo maestro, oppure che fosse disturbato emotivamente dalla presenza della gemella Scolastica, verso la quale potrebbe avere avuto pulsioni non del tutto accettabili, pulsioni che poi, dopo un severo e lungo periodo di autopunizioni, si siano trasformate in una più accettabile e nobile sintonia spirituale.

La scienza retaggio maschile e della Chiesa
Non sfugge il fatto che la scienza occidentale, poiché le università erano dirette e frequentate da maschi che facevano parte di congreghe religiose, veniva prodotta proprio in quei luoghi in cui avevano accesso i religiosi, cioè chierici e monaci.
Essa dunque fu soprattutto uno strumento in mano al potere ecclesiastico e gli studiosi ragionavano impegnati con fervore ed entusiasmo cristiano. Questo comportò che la cultura occidentale, universitaria e scientifica, venne gestita da scienziati-frati ( Niccolò Copernico era canonico). Mentre durante il periodo greco e quello romano essa era retaggio delle accademie laiche, nel Medio Evo scienza e teologia ebbero, apertamente o meno, un legame molto stretto, sicché, lo scopo ultimo dello scienziato cristiano fu la glorificazione di Dio tramite la sapienza. Per Roberto Grossatesta, come per molti altri eruditi e scienziati , filosofia e scienza non era altro che il dispiegarsi della sapienza divina. Questo accadeva soprattutto in Europa, mentre in Italia, qualche università, come quella salernitana a quella padovana, rimase laica, e fu sotto l’egida delle signorie e dei comuni. Quella di Bologna invece fu sotto l’influenza del papato, tanto che venne chiamata università pontificia.
Di conseguenza i centri che accoglievano anche laici, ebbero persino docenti sposati, tanto che si ebbe l’uso (purtroppo poi mai più perso) di trasmettere la cattedra da padre in figlio. Essendo l’università italiana più secolarizzata, l’influenza laica che serpeggiava in alcune di esse fece sì che anche le donne vi potessero essere ammesse.
Nella scuola salernitana vi furono così medici donne, a Padova si laurearono molte donne in filosofia, così come nell’università di Firenze.
Ma, paradossalmente, questa liberalizzazione in favore delle donne venne meno proprio in un periodo che potremmo senz’altro chiamare “laico”, cioè il periodo umanistico, e ciò riprova che l’avversione verso il genere femminile non fu solo retaggio della cultura clericale, ma di quella maschilista in genere: nelle accademie laiche neoplatoniche degli umanisti si trova la stessa avversione verso le donne che si aveva avuto nei secoli precedenti nelle università cristiane. I nuovi dotti umanisti temendo, al apri dei monaci, la concorrenza femminile, esclusero ( almeno in un primo tempo) la partecipazione delle donne nei loro cenacoli. La misoginia dell’umanesimo laico si trasformò così in un crogiolo di omosessuali. Pico della Mirandola fu legato a Gerolamo Benivieni, Marsilio Fucino asseriva che le relazioni omosessuali sono superiori – fisicamente e spiritualmente – a quelle eterosessuali,
Leonardo da Vinci fu due volte denunziato e accusato di sodomia, e anche gli alchimisti propagandarono la formazione omosessuale come la più idonea alla cultura. Gli adepti si riunivano in cenacoli rigorosamente maschili, tanto che Paracelo poteva affermare che le donne don lo interessavano e che non aveva mai avuto rapporti sessuali con alcuna di esse. Secondo Paracelo all’origine l’uomo e la donna erano una sola cosa, e la divisione di uomo in donna fu all’origine del caos sociale. Infondo, l’ideale era l’ermafrodita. Paracelo cercò “le impronte divine” nella natura, espressione sicuramente consona che si risecava alla cristianizzazione della scienza nel Medio Evo. L’unica innovazione – e non fu di poco conto – Paracelo la attuò abbandonando il latino e facendo le sue lezioni in vernacolo. Una introduzione temeraria, che gli costò il prosieguo della carriere universitaria.
Ancora una volta però, le donne poterono ritornare, anche se alla spicciolata, e dalla porta di servizio, dopo l’invasione maschile nella scienza laica, quano prese sempre più consistenza l’arte della magia, tanto che Francesco Bacone poteva affermare che empiriste e vecchie maghe riuscivano a volte più efficaci degli stessi medici.
E coloro che esercitavano la magia popolare (e l’arte delle guarigioni) erano per la maggior parte donne. Ma nel contempo, la Riforma comportò anche l’immissione delle donne nelle pratiche del culto o quanto meno nell’area culturale della religione attiva, perché, essendo consentito ai ministri di Dio di sposarsi, anche le donne finirono col partecipare della rivoluzione luterana. Lollardi, Anabattisti, e altre confessioni ammisero la presenza delle donne nelle loro comunità religiose. Il protestantesimo offri anche alla donne la possibilità di leggere e commentare la Bibbia, e la possibilità di leggere le Sacre Scritture comportò anche il bisogno dell’alfabetizzazione delle donne. Ma l’attività femminile nel campo della magia e in quello dell’alchimia fu un’arma a doppio taglio, perché portò ad una sollevazione di scudi da parte dei chierici e degli ecclesiastici più intransigenti, custodi dell’ordine maschilista, i quali, anche nella scia della Controriforma, cominciarono a perseguitare le donne tacciandole di stregoneria. Le donne, identificate con coloro che apportavano l’eresia, tornarono ad essere escluse dalle attività culturali e scientifiche.
Un’altalena questa, che continuò per secoli e che a tutt’oggi ancora, in certi ambienti è presente. Il corollario di questa nuova ondata di ripulsa per “il femminile” fu la perdita di considerazione nei confronti della donna, che venne considerata un pericoloso oggetto conturbante sessuale, poco degno di spiritualità e dedito, in pratica, alle arti magiche del Maligno, perché l’uomo potesse perdersi negli inferi.
Ancora una volta la sessualità, che implicava il rapporto con la donna-peccatrice, diveniva motivo di persecuzione.

Ammettere la normalità e la naturalità dell’eros, era motivo di eresia e un peccato degno del rogo.
Anche nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, a ancor più nel Seicento, l’avversione per la donna tornò in primo piano. Nulla era cambiato da quando, nel XII secolo d.C, il liberale Averroè , riportando l’idea di Platone, avendo affermato che le donne avessero pari dignità degli uomini, fu emarginato e poi perseguitato. Infatti, dopo quell’affermazione di carattere femminista, non passò troppo tempo e Averroè venne considerato un eretico, e ciò avvenne, forse soprattutto, a causa delle sue idee liberali sulle donne.
Con la condanna di Averroè, il maschilismo faceva piazza pulita di qualsiasi voce autorevole che cercasse di sollecitare “le pari opportunità”. Dante lo ricorda tra gli spiriti che furono estromessi dalla cristianità.
Anche in seguito l’idea laica dell’amore serpeggiò, soprattutto dopo il XIV secolo, nel pensiero di Jacques Gruet, di Giulio Cesare Vanini, di Noël Journet, di Giordano Bruno, di Erasmo, e di tanti altri che cercarono di far prevalere la ragione sulla fede. Tuttavia atei ed eterodossi, scienziati laici e liberi pensatori sono stati pur sempre in minoranza e perseguitati.
Infatti J.Gruet fu giustiziato a Ginevra nel 1547, Vanini venne condannato al rogo previo strangolamento, N. Journet, maestro laico, nel 1582 fu condannato ad essere arso vivo, Giordano Bruno venne arso nella pira eretta nel 1600, in Firenze a Campo dei Fiori. Erasmo sebbene alla fine della sua vita fosse stato molto più “morbido” nei confronti della religione si spense, nel 1535, abbandonato da tutti.
Fede, scienza e cultura è stata una situazione deflagrante anche ai nostri giorni, se si pensa che persino uno psicoanalista del calibro di Jacques Lacan, pur non abbandonando il proprio ateismo, per qualche tempo si mimetizzò dietro la maschera di una specie di conversione pur di avere clienti.
Le cose andarono in questo modo: Lacan s’era accorto che i cattolici osteggiavano la psicoanalisi freudiana perché non accettavano il materialismo ateo del fondatore, e, invece, intuì che i “praticanti” accettavano l’interpretazione lacaniana della psicoanalisi, ritenendola molto più vicina alla valorizzazione cristiana della persona umana. Inoltre la società psicoanalitica nella quale era iscritto Lacan, la SFP, era molto più possibilista sulla accettazione di praticanti analisti di mentalità cristiana, il che consentiva a Lacan di essere anche un insegnante analista. Il fa sta, dunque, che Jacques cominciò a far circolare la voce della sua “revisione” religiosa, annunziò il suo matrimonio con Sylvia, la donna con cui conviveva, e chiese un’udienza a Pio XII, per discutere con lui, dal momento che la Chiesa avversava la psicoanalisi, il futuro di quella scienza, «se si fosse ammorbidita» rispetto alla intransigente ateismo di un tempo. Fu così «sincero» Lacan, che persino suo fratello
Marc-François,sebbene in un primo tempo molto perplesso, finì col credere nel cambiamento di Jacques. Chi non gli credette fu il papa, che, aborrendo qualsiasi tipo di psicoanalisi, non gli accordò l’udienza desiderata, malgrado Lacan si fosse recato a Castel Gandolfo nella speranza di un ripensamento del pontefice.
Questo netto rifiuto indusse Lacan a ripensare alla sua “conversione” e cercò allora di stabilire un legame con la sinistra, certo molto più aperta alle istanze psicoanalitiche di quanto non fosse la cultura cattolica.

La fuga dalla donna e dalla sessualità

Possiamo, dopo questo breve sguardo storico, entrare nei particolari, e seguire per grandi line e grazie ad alcune biografie, come in pratica questa fuga dalla donna e dalla sessualità si articolò oltre che nelle grandi linee della storia culturale e sociale, nel vita del singolo. Riferisce L. Peroni, in Padre Pio da Pietrelcina che Francesco Forgiane, il futuro Padre Pio, per esempio, da ragazzino, fu sollecitato dalla madre, una pia donna che voleva fare di lui un santo, a non peccare mai e in nessun modo, e per non essere indotto a trasgredire l’insegnamento materno, ruppe irato un manico di scopa sulle spalle di un suo coetaneo che gli consigliava, come cura contro i suoi disturbi di ansia, di amoreggiare con qualche amichetta.
Se andiamo ad altri esempi illustri dell’antichità, dobbiamo allora parlare di Agostino, che visse tra il 354 e il 430 d.C.: egli nacque a Tagaste da tale Patrizio, un pagano benestante ed ambizioso, che mandò il figlio agli studi, nella speranza che diventasse uomo famoso e da Monica, anch’essa ambiziosa, che l’uomo aveva sposato giovanissima.
Agostino non amò il padre, che si divertiva quando sapeva che il maestro lo bastonava se non era attento alle lezioni. Un padre, quel Patrizio, inoltre dedito alle avventure extraconiugali, e che teneva molto anche alla virilità del figlio, tant’è che quando per la prima volta, ai bagni pubblici, si accorse di un’erezione del giovane Agostino, corse dalla moglie ad annunziarle l’avvenimento. All’orgoglio del proprio sesso, che gli aveva insegnato il padre, Agostino diede retta nella prima gioventù, salvo poi a distaccarsene in seguito, anzi a finire con l’odiare la sessualità (ma, inconsciamente la verità era che odiava il padre). Agostino, che dunque non aveva troppi motivi per amare il padre, perché l’aveva spesso deriso, in seguito sentì quelle passioni carnali che gli derivavano da Patrizio, e volle allontanarle proprio perché gli ricordavano la discendenza dal detestato genitore.
Agostino dunque, fu educato dal padre ad essere orgoglioso della propria sessualità oltre che ad amare gli studi classici. Dalla madre invece, egli ebbe tutt’altro messaggio soprattutto in quanto al sesso: la donna che l’irruenza, l’infedeltà e la violenza del marito le avevano fatta odiare la sessualità, nel constatare la somiglianza di Agostino al padre, per quanto riguardava le avventure sessuali, deve avere influito molto a imprimere una certa sessuofobia al figlio, tant’è che il figlio, in pratica ebbe una doppia eredità psicologica: quella lasciva del padre e quella pudibonda e sessuofobia della madre. E pertanto Agostino deve un radicale sdoppiamento del suo ego ai genitori: infatti fu un sensuale inquieto e un mistico asceta. Un inconscio dualismo che forse fu alla base della predisposizione ad accettare, in seguito, il manicheismo. Ma torniamo alla vita giovanile di Agostino: a dodici o tredici anni fu mandato a Medaura a studiare. E al giovane forse non parve vero di essersi sottratto alla brutalità del padre. Medaura era la patria di Apuleio, e il contatto con il pensiero e la lettura di un autore così interessante e quell’humus culturale che si viveva in quella città, deve avere risvegliato nel giovane i primi interessi per la filosofia, e quelli per “i misteri”. Il platonico Apuleio deve avere lasciato una traccia profonda in Agostino, per quell’odore di mistero e di magia che si respira nelle sue opere. In seguito, l’interesse per la filosofica si concretizza, verso i vent’anni, quando ad Agostino capitò per le mani l’Ortensio di Cicerone, opera che gli fece nascere anche la passione per la sapienza.
All’età di sedici anni Agostino, «che non aveva più nulla da imparare dei suo maestri di Madaura», torna a Tagaste, e vagabonda con amici scavezzacollo e intintivi, e si da’ alla voluttà e alla avventure erotiche. Vive qualche tempo a Cartagine, città cosmopolita, colta ma anche sede di vizi e certamente corrotta. Ma sebbene Agostino s’accompagnasse a giovani scapestrati, egli nella città studiava, e anche seriamente, retorica. Un anno dopo muore suo padre, il quale, pare, si sia convertito, prima di morire, al cristianesimo, fatto che crea una grande impressione in Agostino. Altro turbamento e altro momento di sconforto e di depressione fu la morte di un amico carissimo, del quale non si conosce il nome, ma che gli fu vicino durante gli anni della scuola. Il giovane venne battezzato prima di morire, cosa che fece sorridere Agostino, ma una volta che l’amico morì Agostino rimase folgorato da quell’evento, e “tutto ciò in cui posava lo sguardo gli parve parlasse di morte”.
Da qui, forse la sua adesione, alla setta dei Manichei. Il Manicheismo era una religione fondata nel III secolo d. C., e il cui dualismo spirito-corpo, regno della luce e delle tenebre e la lotta tra di essi è superato dalla redenzione con un processo di autocoscienza. Molto ci sarebbe da dire proprio a proposito della genesi delle idee che poi saranno accolte da Agostino nell’ambito del Cristianesimo, una per tutte, a chiarire il motivo e l’origine della sua adesione alla religione cattolica c’è la constatazione che nell’ambito del manicheismo la vita è considerata peccato di cui l’anima se pur non è responsabile, ne è pur tuttavia coinvolta e solo il disgusto dell’impurità potrà salvarla. Queste idee, apprese da giovane, devono essere state certamente per Agostino un canale preferenziale che gli fece accettare in seguito il Cristianesimo. Ma l’adesione al manicheismo creò ad Agostino un problema di carattere familiare: sua madre, indignata per quella scelta, lo gettò via da casa. Il carattere di Monica era stato forgiato dalla vecchia nutrice, che era stata anche l’educatrice del padre di Monica quand’era bambino. Questa serva curò in modo quasi nevrotico di tenere a freno ogni istinto infantile di Monica bambina, e, quando la bimba aveva sete, le impediva persino di bere, per abituarla alla continenza. Monica, però aveva cercato di svicolare da quella morsa rigida, e se non aveva potuto bere acqua, s’era messa a bere vino, fino a prendere, ancora bambina, l’abitudine di ubriacarsi. Rimprovera a dovere dalla nutrice, si pentì del suo peccato, e visse sempre molto sottomessa ai genitori e alla sua sorvegliante, fino a quando, ancor giovinetta, venne data sposa a Patrizio, che, per la verità era, come gli uomini del tempo, maschilista e manesco con le donne. Ma Monica sopportò le batoste del marito senza dolersene.
Tornando agli studi manichei di Agostino, il giovane, che in precedenza aveva vissuto, per qualche anno liberamente la sua sessualità, si unisce in concubinato con una donna, di cui non si è mai saputo il nome, e da lei ha un figlio, al quale, per la grande contentezza, da’ il nome di Adeodato, cioè a deo-dato, dato da Dio,
Se si confrontano i tempi del libertinaggio di Agostino, si può ben vedere che in realtà egli non fu poi tanto dedito alla bella vita come si vuol far credere e come egli tesso poi lamenterà. Infatti, Agostino fece il viveur solo per qualche anno, perché poi convisse con la donna amata e a diciotto anni egli era già padre affettuoso e compagno fedele della donna che gli aveva dato il figlio. E pur nell’ambito del concubinato, egli fu dunque un buon genitore e un compagno affezionato, almeno fino a quando sua madre lo convincerà ad abbandonare la donna che egli amava e a rimandarla in Africa, per poter in questo modo essere libero di sposarsi “in maniera regolare”.
Ma torniamo nel 383: a ventinove anni, Agostino va via da casa, di nascosto della madre, assieme alla donna con cui vive e al figlio, per recarsi a Roma. Sua madre, disperata – e forse anche indispettita dal tradimento del figlio – per quella fuga, quando si accorge delle fuga di Agostino piange e si tormenta.
A Roma il giovane retore si avvicina alla dottrina dei Neoaccademici. Un anno dopo Agostino passa a Milano, per insegnare retorica e qui viene raggiunto dalla madre, che essendo a corto di soldi, spera di essere mantenuta dal figlio. Agostino mette in luce la condizione di miseria dei suoi nei dialoghi Contro gli Accademici, di qui la necessità che egli ha di trovare molto danaro, anche perché a Milano, assieme alla madre lo ha raggiunto il fratello. La madre spinge Agostino cercare una sposa che sia ricca. Elevare la donna che stava con suo figlio da concubina a sposa non avrebbe risolto il problema, perché quella donna era una liberta e non era di famiglia ricca, e dunque – ragionava Monica – bisognava trovarne una che portasse “una aliqua penuria”, cioè una buona dote. Monica trovò una dodicenne che faceva al caso suo, perché era di famiglia ricca, ma, concluso il fidanzamento, bisognava che Agostino aspettasse almeno due anni per contrarre matrimonio, perché l’età minima era di quattordici anni. C’è da supporre che, una volta concluso il fidanzamento, la famiglia della ragazzina avesse posto come condizione l’allontanamento della concubina del fidanzato. E così a quel punto Monica ha tutti gli elementi in mano per imporr al figlio di abbandonare la donna con cui egli sta. Agostino, pressato da una madre insensibile ai sentimenti affettivi del figlio e fortemente suggestionato dal volere della genitrice, perché edipico, mandò via la compagna con quale da molti anni viveva in concubinato, e lo fece anche forse per cancellare i suoi trascorsi bagordi. Rimanda in Africa la donna, ma tiene con sé il figlio e si disinteresserà di lei per il resto dei suoi giorni. Agostino nelle sue confessioni così scrive a proposito della donna con cui stava da tanti anni, che lui amava teneramente e che gli fu «strappata dal mio fianco come un ostacolo al matrimonio, la donna che mi era stata compagna di vita, il mio cuore che le era stato legato rimase straziato come da una ferita e dava sangue. Ella era ritornata in Africa facendo voto a me di rinunziare per sempre all’uomo, e mi aveva lasciato il figlioletto naturale che io avevo avuto da lei». Nel mentre Monica pensato di fargli fare a Milano, un matrimonio confacente, cerca una donna da far prendere in sposa al figlio e ne trova una adatta a lui, ma essendo la ragazza ancora troppo giovane, Agostino avrebbe dovuto aspettare due anni per sposarla. Agostino, sacrificò la donna amata all’amore per la madre, ma nell’attesa del matrimonio, avendo perso la compagna con la quale conviveva e aveva rapporti e non potendo ancora avere la giovinetta da sposare, nell’attesa si mise con un’altra donna con la quale visse in concubinato. Una decisione questa che Agostino lo attribuiva alla sua natura “peccaminosa” e infatti confessò che, essendo “schiavo dei sensi”, aveva commesso anche quel peccato. Nella riflessione contro il sesso era stato spinto, più che dalla madre, dal suo giovane discepolo Alipio, che si era dato alla castità. Ma un’influenza determinante sul negativo giudizio della sessualità, Agostino la ebbe da un certo Ponticiano, il quale gli narrò la vita di Antonio, l’anacoreta egiziano morto nel 356, il quale rimasto orfano dei genitori a diciotto ani, distribuì i suoi beni ai poveri, rinchiuse la sorella in un convento, e si ritirò in solitudine, sostenendo una battaglia ossessiva contro la propria sessualità dirompente, che gli recava apparire fantasmi di femmine bellissime impudiche che lo seducevano e contro le quali lottava in tutti i modi. La storia di questo personaggio che visse settanta anni nel deserto, a tu per tu con i demoni, impressionò molto Agostino.
In quanto all’influenza di Monica che gli fece rinunziare alla donna che egli amava e che per dappiù era la madre di suo figlio, Agostino invece non ebbe da segnalare se non il proprio dolore, ma non disse mai nulla contro la madre. La vicenda sentimentale di Agostino non deve però meravigliare: non era inconsueta né per quei tempi, né per quelli che seguirono, se ritroviamo mille anni dopo una storia simile, raccontata in Medioevo, dicembre 2000, nella biografa di un mercante fiorentino vissuto nel XIV secolo, Paliano Falcucci. Costui era un giovane mercante che a Perugina commerciava in stoffe ed aveva come compagna una giovane vedova, Marcuccia, con la quale fondò una famiglia e fece tre figli. A porre un termine alla decennale unione furono le nozze che l’uomo celebrò con una ricca fanciulla di Firenze. Per coronare la sua ascesa nel businnes della seta, Paliano aveva avuto bisogno di entrare dalla porta principale nella Firenze “bene”, e chi meglio di una ricca e giovane fiorentina, con un’ottima dote, poteva introdurlo in quell’ambiente? Non certo Marcuccia, che era una popolana, e per di più sprovvista del capitale necessario per aiutare il suo compagno a sfondare con la concorrenza. A Marcuccia, così, sebbene ancora amata e madre dei suoi tre figli, Paliano, diede il “ben servito”, e però, il fiorentino, si comportò forse meglio dell’africano di Tagaste, perché dotò la donna che stava per abbandonare con una buona cifra, affinché si potesse accasare onorevolmente.
Ma torniamo ad Agostino: a Milano visse con i proventi, scarsi, del suo insegnamento di retorica ma dovette provvedere al sostentamento oltre che della madre, del fratello Navigio, della nuova concubina e del figlio Adeodato, e di tanto in tanto assistette anche i cugini Lastidiano e Rustico, i discepoli Alipio, Licenzio e Trigezio.
Agostino incontra Ambrogio, il cui pensiero è molto influenzato da quello di Plotino sicché molti autori ritengono che la conversone di Agostino al cattolicesimo non è che una evoluzione verso il neoplatonismo, e quindi l’adozione di un genere di vita ascetico del genere di quello dei neoplatonici. Insomma, Agostino avrebbe adottato il neoplatonismo prima di aderire al Cristianesimo, perché la dottrina di Plotino la ritenne più vicina alle sue esigenze spirituali, ed egli fu allora più vicino alla dottrina neoplatonica piuttosto che a quella cristiana, alla quale in seguito aderì perché simile a quella di Plotino, tant’è che il cristianesimo, in Agostino, sarebbe stato subordinato al neoplatonismo. La lettura a Milano dei Neoplatonici fu di capitale importanza dal punto di vista psicologico, pratico e religioso per Agostino, tanto che egli rimase per tutta la vita un ammiratore di Plotino, e le sue esperienze spirituali sono espresse in parte con parole prese in prestito a Plotino. Secondo qualche autore, l’influenza dei sermoni di Sant’Ambrogio su Agostino poté accadere perché essi erano di chiara ispirazione neoplatonica. Ed allora, sorge il problema: Agostino s’avvicinò al cristianesimo o al pensiero di Plotino? La domanda è pertinente dal momento che Agostino, dopo avere ascoltato i sermoni di Ambrogio, che tra l’altro si rifacevano anche ad Origene a Filone, studiò Plotino.
Il passaggio al cristianesimo di Agostino fu dunque in primo luogo un atto di ricerca esistenziale e filosofica oltre che religiosa. Agostino si sentiva attratto da una credenza che pretendesse l’assoluta sottomissione ai voleri divini, così come quella fenicia che egli aveva assimilata in Numidia. Il culto punico, cioè quello che era stato degli antenati di Agostino, predicava l’obbedienza e la rassegnazione alla volontà del Baal. Questa concezione, che Agostino volente o nolente “assorbì” nella sua prima infanzia, gli fece accettare l’assoluto primato della divinità e della grazia.
Il dio punico, come il dio cristiano possono tutto, mentre l’uomo non può nulla. Assieme al Manicheismo, dunque, anche il sentimento religioso punico fece da supporto all’accettazione del Cristianesimo da parte di Agostino. Un ulteriore problema – che del resto è quello trattato dai pelagiani – riguarda la libertà e la grazia. Agostino pensa che il peccato di Adamo ha corrotto la natura umana, e quindi la libertà dell’uomo, si sarebbe trasformata da facoltà di non peccare, qual era originariamente, in facoltà di scelta tra gradi diversi di peccare. E così, qualora non ci fosse stata la grazia, l’uomo sarebbe stato dannato in eterno.
Ma la grazia, Dio la concede a tutti, si chiese Agostino, o solo ai predestinati? Se fosse concessa a tutti, coloro ai quali è concessa vengono a perdere il loro libero arbitrio, si chiede Agostino, il quale non si rispose in maniera esauriente, oscillando tra soluzioni diverse. Libertà e grazia, fanno posto Agostino tra l’idea della libertà dell’individuo e la dottrina della predestinazione: coloro che sono segnati della grazia formano la Città di Dio, coloro che sono dannati la città terrena.
Guardando da un punto di vista storicistico il Cristianesimo, Agostino ha una concezione provvidenziale della storia, quella cioè poi ripresa dal Vico, e sostiene che l’Impero Romano fu preparato per accogliere il Cristianesimo. Ma il problema fondamentale di Agostino è quello intercorrente tra ragione e fede, che Agostino risolve attraverso una interdipendenza dei due termini: bisogna credere per intendere e intendere per credere. La Città di Dio è quella dei buoni, la città terrena è quella dei cattivi. Nel suo De Civitate Dei: Agostino afferma che Dio concede la salvazione a pochi, per gli altri vi è la dannazione. (Secondo San Tommaso invece la grazia verrà a tutti).
In tutta la ricerca filosofica di Agostino, si può notare l’intreccio con la sua vita e le istanze emotive che lo contraddistinsero. La sottomissione al volere superiore divino ( e inconsciamente materno), l’impossibilità di sfuggire al peccato, la impossibilità di far breccia con la ragione per battere l’emozionalità della madre, sono tutti tempi che troviamo “razionalizzati” nella sua filosofia. Agostino combatté la prima parte della sua esistenza sperando di poter seguire scelte di vita che più gli si confacevano, compresa quella della libertà sessuale appresa da suo padre, ma dovette invece sottostare ad una “volontà superiore”, quella della madre. E così, tutto ciò che Agostino aveva fatto contro il volere della madre e senza pensare alla tragicità della morte, lo aveva convinto che lo portasse alla dannazione. Insomma, ad Agostino, che aveva subito un così forte influsso materno, poiché non era riuscita la ribellione, cioè rigettare tutto, come dapprima tentò di fare, scappando da casa di nascosto alla madre, non rimase, per quietare la sua angoscia e per fare in modo che i suoi sacrifici avessero un senso, che razionalizzare la rigida morale materna, rendendola credibile col carisma di una autorità superiore: quella divina.
A quel punto, sottostare ai voleri divini – che erano in pratica, anche se inconsciamente, quelli materni – divenne per Agostino un ideale e non una evento che lo penalizzava e che forse gli aveva amareggiato la vita, e gli aveva fatto rinunziare, tra l’altro, alla donna che amava e che aveva fatto perdere, al piccolo Adeodato, l’affetto della madre che aveva dovuto abbandonare il bimbo in nome di “una moralità superiore”.
Agostino, cancellò tutti questi dubbi, sui quali non volle riflettere, e si “stordì” seguendo la strada della religione, compiacendosi d’avere abbandonato la via “del peccato” e di avere scelto la redenzione.
Nel 387, dopo quattro anni di permanenza in Italia, Agostino decide di ritornare in Africa. Si ferma ad Ostia, per riposarsi dal lungo viaggio da Milano, ma, in quella cittadina, dopo una breve malattia, muore, all’età di 56 anni, sua madre mentre assieme al figlio, attendevano di tornare in Numidia. Agostino si trattiene a Roma ancora un anno, conosce papa Silicio dal quale riceve l’incarico di scrivere sui Costumi dei Manichei e l’anno dopo, nel 388, ritorna a Tagaste assieme al figlio Adeodato.
A Tagaste trovò la casa paterna vuota: suo fratello Navigio aveva preso moglie, sua sorella era in un convento, gli amici della fanciullezza dispersi o morti.
In quanto alla donna che era stata per molti anni la sua compagna, e che era la madre di Adeodato, non c’era più traccia. Nel 389, l’anno dopo il suo rientro, un forte dolore coglie Agostino, per la morte, a diciassette anni, del figlio Adeodato.
Nove anni dopo, Agostino comincia a scrivere le confessioni.
Morirà nel 430, all’età di settantasei anni.

Giovanni detto Francesco ( cioè il francese) visse in questo clima di guerra dei sessi. Figlio di un ricco mercante di stoffe, tale Pietro di Bernardone, che fu cittadino molto influente in Assisi, e di madonna Pica, donna d’origine francese.
Giovanni nacque intorno al 1182, e poiché il padre andava spesso in Francia, questi, forse in onore della moglie, forse per i frequenti viaggi in terra gallica, finì col volere che il nome del figlio mutasse in «francese», cioè Francesco. La famiglia di Pietro Bernardone era una tipica espressione delle condizioni storiche del primo Duecento, in cui si veniva sviluppando l’agiata borghesia con una forte smania d’arricchire, e in cui il culto del denaro aveva un forte fascino.
Giovanni il francese, detto Francesco, di bassa statura e bruttino, vivendo in una famiglia benestante, aveva una volontà molto forte, ed essendo figlio di una classe sociale avanzata, sin da giovane aveva in animo di diventare qualcuno; per tal motivo voleva porsi in risalto in qualche modo, nell’arte delle armi, per esempio, piuttosto che seguire l’attività del padre, anche perché dimostrava uno scarso interesse per gli affari. Francesco abituato nel benessere, non disdegnava i piaceri materiali, e visse la prima gioventù allegramente, frequentando brigate giovanili e spensierate compagnie, dissipando il denaro del padre. Il figlio di Pietro di Bernardone era portato per l’eleganza e sarebbe voluto diventare un cavaliere, mentre invece era meno propenso per gli studi, tant’è che non s’impegnò molto né con il latino né in seguito col francese; egli infatti imparò a scrivere assai male, tanto che anche da grande preferiva firmare col segno di croce.
A ventidue anni, andò militare, sperando di diventare un cavaliere di fama, e prese parte allo scontro tra Assisi e Perugina. Ma nella battaglia di Colestrada (1204) venne fatto prigioniero. Dopo la sua liberazione, cadde gravemente malato, e quando si riprese tentò nuovamente la carriera militare al seguito di Gualtieri di Brienne (1205), ma, forse a causa dei postumi della malattia, forse per una crisi psicologica che si estese anche nei confronti della famiglia, Francesco, forse anche in parte un poco depresso a causa degli insuccessi che aveva avuto, abbandona improvvisamente l’avventura militare e ritorna ad Assisi.
A quel punto, Francesco, ancora incerto nella via da seguire, si ritira in meditazione, e viene colto da una visione, nella chiesa di San Damiano, ed ode una voce che così lo esorta : «Va’ e racconcia la mia chiesa». Quel messaggio che proveniva “dall’Alto”, era probabilmente una specie di risarcimento che Francesco attendeva, dopo tante sconfitte. Dopo questo avvenimento, il figlio di Pietro di Bernardone, che per un mese era scomparso dalla circolazione, senza che nessuno sapesse dove fosse finito -ant’è che suo padre lo aveva in tutto quel tempo cerca invano – torna a casa e sottrae dal fondaco del genitore alcuni rotoli di stoffa, per venderli e consegnare il ricavato al prete di San Damiano, perché riatti la chiesetta dove il giovane ha udito la voce d’esortazione.
Quando Francesco si presenta al cospetto di suo padre, costui è molto adirato per il denaro sottrattogli dal figlio e da costui consegnato al prete della chiesa, ed è oltremodo indispettito per la “diserzione” dall’esercito di Gualtiri di Brienne, una rinunzia, quella fatta dal figlio, alla carriera militare, che il padre non condivideva e che oltretutto lo offendeva in quanto intaccava, secondo Pietro, anche l’onore familiare, in quanto Francesco s’era macchiato di diserzione.
Da quel momento si scatena la rivolta di Francesco contro la filosofia materialistica e mondana del padre, e tra i due non cessano più gli alterchi. Pietro rinchiude con la forza a casa Francesco, e quando questi manifesta la volontà di spogliarsi di tutti suoi beni e di darli ai poveri, lo trascina in giudizio davanti ai consoli della città d’Assisi, accusandolo di cieca prodigalità e di avere dilapidato parte del denaro della famiglia.
Ma Francesco chiede e riesce ad essere giudicato non dai consoli della città, ma dal vescovo. E il ribelle Francesco, alla presenza del vescovo, udite le parole del padre che lo denunziava di essere un dissipatore, si sveste anche degli abiti che indossa, ripudia Pietro, e gli dice che da quel momento in poi, egli non è più suo padre ma sarà il Signore il suo ero padre. Un atto che lo scioglie da ogni diritto di sucessone, ma anche da ogni legame con la famiglia. Mas il vescovo, lungi dal condannare il giovane, parteggia per lui, dal momento che, narra l’agiografia, spogliandosi, Francesco mostrò il cilicio.
Da quel momento a causa di una forte crisi spirituale, il figlio di Pietro pratica l’ascetismo e la contemplazione. Siamo nel 1206, Francesco che ha venticinque anni, lascia Assisi e va a Gubbio per rendesi utile presso un lebbrosario, poi torna ad Assisi e si adopera a restaurare alcune chiese, chiedendo l’aiuto dei più umili. Nel 1209, mentre è nella chiesa della Porziuncola, ormai convinto che il mondo aveva bisogno di essere ricondotto a ritenere come meta unica il regno dei cieli, Francesco, ha netta la sensazione del grande compito che l’attendeva. Da quel momento in poi, con alcuni seguaci, tra cui Bernardo di Chiaravalle, Pietro Cattani, frate Egidio, Giovanni delle Cappella, Bernardo di Vigilante, frate Leone, Tommaso da Celano, frate Elia, Chiara – rampolla di una nobile famiglia con la quale, sin dal 1206, quando ancora la ragazza era dodicenne quando ancora la ragazza era dodicenne, egli aveva inizia un rapporto spirituale e con altre donne che erano accorse presso il luogo di riunione dei frati- Francesco detta la prima regola del suo ordine, che traccia le linee essenziali della nuova comunità religiosa (1210).
Francesco iniziò poi le sue predicazioni rivolgendosi agli umili, ai diseredati, ai poveri. Cioè a quelli che a quel tempo erano scherzosamente chiamati “ gli uccelli”, cioè la razza di animali che veniva considerata come la più cattiva, perché distruggeva il grano e altre coltivazioni ed era per ciò considerata, dai signori, al pari dei ipoveri, dei diseredati, dei contadini, cioè una razza di sfruttatori e di approfittatori.
La Chiesa di quel tempo censura le predicazioni di Francesco, rivolte proprio contro il potere temporale dei grossi prelati, e così stempera i discorsi di Francesco affermando che erano rivolti agli uccelli, categoria animale disprezzata al pari dei poveri. Gli uccelli, inoltre nella immaginazione popolare pagana antica, erano considerati anche dei demoni. Di qui, l’equivoco che Francesco “parlasse agli uccelli”: egli in realtà parlava con coloro che erano i paria del tempo.
Di qui anche il contrasto tra Francesco e Innocenzo III, al cospetto del quale il frate d’Assisi si presentò a Roma, assieme alla sua piccola congrega, tutti con vestiti da pezzenti. Un vento rivoluzionario e critico che non poteva non preoccupare il papa e la curia, che ritennero Francesco una spina nel fianco delle gerarchie ecclesiastiche.
Poiché rigettava la materia e le ricchezze della natura, il pensiero di Francesco venne accomunato a quello dei Catari, i quali desacralizzavano la materia, e affermavano che la creazione fosse il Male. Per cui, ne conseguiva, che anche il creatore si fosse comportato come un maligno, nel creare la materia.
Questa accusa portò Francesco ad essere sempre più dubbioso di fare la pace con le autorità ecclesiastiche, e, a sua volta, indusse Innocenzo III ad essere sempre più titubante sulle qualità religiose di Francesco. Questo il senso di quell’avvicinarsi ed allontanarsi dal giovane d’Assisi, secondo le circostanze e gli umori della curia.
Infatti Francesco risultava potenzialmente un grande eretico, come lo era Piero Valdo, che contestava l’autorità materiale della Chiesa, come lo furono gli ordini mendicanti (Albigesi, Catari) e come lo sarà in seguito Martin Lutero.
Intanto cresceva il peso di Francesco, che Bonaventura considererà un altro Cristo, un essere divino. Cresce nel contempo la grande amicizia tra Francesco e Chiara. Quando la giovane compie diciotto anni, nel 1212, fugge da casa con una parente e va a trovare l’amico e gli chiede di essere ammessa nella sua comunità. Francesco la colloca nel monastero delle Benedettine e quando, qualche tempo, dopo fuggì da casa anche la sorella minore di Chiara, Agnese, Francesco la sistema nel convento di San Damiano. Tra Chiara e Francesco inizia un rapporto complesso, che durerà fino alla morte del frate. Chiara, a soli ventuno anni, nel 1215, viene nominata dall’amico, badessa del convento delle Clarisse. Ella vivrà quasi tutti gli anni della sua esistenza sempre malata, e morirà, in povertà assoluta, com’era vissuta, nel 1253.
Poco dopo il suo decesso, nel 1255, fu canonizzata da Alessandro IV.
Intanto, Francesco vuole essere povero fino alle estreme conseguenze, e deve lottare anche contro il muro di disapprovazione non solo della Chiesa, ma anche dei suo compagni che ritengono le regole dettate dal frate troppo rigide e impossibili da attuare.
Il 1219 segna l’inizio della grandi predicazioni all’estero. Francesco va in Siria, ove resta per un anno, e poi torna in Italia.
Una serie di contrasti provano Francesco nell’animo e nel corpo. Questa conflittualità si manifesta in una somatizzatone accentuata e con l’ematidrosi, cioè con la produzione di sudore sanguigno, originato da una forte dilatazione dei capillari, eliminato col sudore. Il fenomeno è osservato particolarmente in tutti quei casi di somatizzazione del dolore. Francesco infatti salito sul monte Verna, nel 1224, afflitto da grave malattia e in preda alla costernazione morale, capisce che la sua fine è prossima, e in uno stato di profondo dolore psicologico, come affermano Tommaso da Celano, frate Elia e frate Leone, alla fine del processo psicologico, finì col esibire le stimmate.
Oggi sappiamo, come ha potuto constatare la medicina psichiatrica, che alcuni carcerati, condannati a morte, qualche ora prima dell’esecuzione, a causa del forte stress, arrivano a trasudare sangue. L’ematidrosi si riscontra a volte anche nelle persone altamente isteriche.
Secondo l’ageografia, in quello stesso periodo, e comunque negli ultimissimi anni della sua vita, Francesco avrebbe composto il Cantico delle creature, componimento in versetti assonanzati. La leggenda vuole che la composizione sarebbe stata inizialmente un’effusione lirica, che Francesco, ormai quasi cieco e malato, avrebbe avuto, a San Damiano, dopo quaranta giorni di sofferenze, in una notte di gradi dolori fisici e morali, mentre era in una cella infestata da topi, dopo che ebbe la visione che gli diede la certezza della sua beatitudine futura.
In seguito sarebbero stati aggiunti altri versi, come quelli della esaltazione della morte e questa interpretazione filologica serve a giustificare, con l’ipotesi di una composizione avvenuta in diversi tempi, il diverso andamento e tono degli ultimi versi del cantico. Una composizione, quella di Francesco, non immune da difetti, come affermò il Flora, ma che si riscatta per la sua intensità poetica.

Jacopo da Todi era spirito aristocratico, essendo nato da famiglia nobile, i conti di Coldimezzo. Sebbene si sappia poco della sua vita, pare che fosse molto legato alla madre, e confessa, in una laude che ha tratti autobiografici, d’avere avuto pensieri parricidi. Poiché a scuola non stava bene, Jacopo, per liberarsi di quell’impegno che il padre gli aveva imposto, sperò che morisse il genitore: «Stavo a pensare – mio pate moresse, ch’io più non staesse – a questa brigata »
Ma poiché suo padre non morì, lo costrinse a laurearsi il legge forse a Bologna e a fare il procuratore a Todi.
Gli impegni lavorativi non impedirono ad Jacopo di darsi alla bella vita fino ai quaranta anni, tant’è che al primo posto nei suoi desideri vi furono “le donne e gli amori carnali”. Un trasporto, quello per il gentil sesso, che, dopo la conversione, divenne – per contrapposizione – odio e paura. Infatti, Jacopo fu sempre turbato dalla bellezza muliebre, e gli acconciamenti e i vestiti delle donne avevano in lui, sebbene convertitosi alla castità e alla preghiera, un effetto dirompente. Insomma, la donna, come per tutto gli asceti, sarà per Jacopo, dopo essere stata l’oggetto perturbante di tutta la prima parte della sua vita, la sua grande nemica.
Ma come accadde questo cambiamento?
Verso i quarantenni, fugarti gli ardori giovanili, ma soprattutto, probabilmente, dopo che morì sua madre, Jacopo si guardò in giro e cercò una donna che sostituisse negli affetti colei che era stata da lui amata sin da bambino.
«Volea moglie bella che fosse sana
E non fosse vana – per mio piacere;
con grande dota, gentile e piana,
de gente non strana – con lengua a guarrire.»
Jacopo trovò la donna ideale in una sua lontana parente, la giovane ventenne Vanna, dei conti di Coldimezzo. Ma si trattò di una unione che era destinata a durare poco più di un anno: nel 1268, durante una festa , il palco in cui era sistemata la donna di Jacopo cedette, e la bella moglie dell’avvocato rimase uccisa sotto le macerie. La tragedia sconvolse talmente la vita di Jacopo, già provato per la morte, non lontana della propria madre, che non riuscì a vedere più nulla che fosse degno d’essere amato in terra. La tragedia che cole Jacopo fu duplice: romantica ed edipica, in quanto si trattava della morte della donna amata e nel contempo di colei che aveva sostituito la genitrice nell’animo di ser Jacopo de’ Benedetti. Travolto da “santa” pazzia, Jacopo de’ Benedetti, si convertì dopo avere subito lo choc della morte improvvisa della sua adorata sposa.
Da quel giorno l’esistenza di Jacopo fu del tutto diversa da com’era stata in precedenza, egli era tutto dedito alle mortificazioni della carne e all’ascetismo, e il suo umore e i suoi sentimenti divennero sempre più coinvolti dal pessimismo, dall’accidia, dall’odio. Iniziò a comporre versi cupi, volgari, rozzi. Spregiò qualsiasi cosa vi fosse al mondo, con una durezza, un’astiosità, un rancore, quasi che abbia voluto essere considerato pazzo. Solo il pensiero della Madonna gli ispirò versi dolci e amabili. La parola “figlio” è ribadita con dolcezza, e nessuna creatura commuove “l’edipico” Jacopo, come la Madonna: è la madre che ama il figlio, che lo piange quando è ammazzato, che commuove e che rinvigorisce il carole e l’impeto umano del poeta di Todi. Per il resto, tutto ciò che è attorno a lui è deprecabile.
Egli cambiò anche il suo nome in quello di Jacopone, perché a causa delle “sante” stranezze che mostrava, forse gli venne appioppato questo nomignolo dispregiativo, o forse fu egli stesso a darselo per maggiore punizione.
Da quando iniziò la sua vedovanza, e per quasi trent’anni, non si sa più nulla di Jacopone, il quale ritorna alla ribalta solo quando nel 1294 venne eletto Celestino V, che il nostro non riteneva all’altezza del compito, ma è 1297 che s’impone la parola del frate, quando inizia una crociata contro Bonifacio VIII, che l’asceta riteneva papa simoniaco ed illegittimo.
Probabilmente, il carattere certo non malleabile di Jacopo, e la vecchiaia influirono sulle scelte dell’ ultima parte della sua vita. Infatti se da un lato egli si scagliò, forse a ragione, contro Bonifacio VIII, dall’altro si legò ai Colonna, che erano altrettanto inaffidabili e arrivisti del Caetani, e con loro sottoscrisse un manifesto con cui si dichiarava decaduto quel pontefice. Ma forse si trattò di un ultimo sprazzo di “senilità” di un uomo che da giovane s’era goduta la vita e che, in età adulta, era stato colpito così profondamente negli affetti da aver perso letteralmente la tramontana, tanto che quel legame con i Colonna lo portò a doversi rinchiudere, per sfuggire alle ire papali, a Palestrina con i suoi amici e quando la città fu con conquistata dalle truppe papaline, venne catturato, processato, condannato e scomunicato dal papa e, in fine, incarcerato forse nel sotterraneo di qualche convento per cinque lunghi anni.
Liberato nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, venne ricoverato presso il convento delle Clarisse di Collazzone, dove morì tre anni dopo, assistito pare dalla badessa, che era la Chiara, amica di Francesco.
Jacopone, dunque, come nei primi anni della sua vita, negli ultimi mesi fu assistito da una donna, che egli considerava sua dolce sorella, e che forse era Chiara. Si completava così un ciclo emblematico di una personaggio che aveva sempre avuto la donna al culmine d’ogni suo pensiero: da giovane, infatti egli aveva amata edipicamente la madre e, divenuto grande, aveva desiderate carnalmente molte delle donne che aveva incontrato nel suo cammino, poi, avendo perso l’appoggio della madre, aveva amata appassionatamente come sposa, un’altra donna “angelicata”, Vanna, e in fine aveva adorata la donna come Vergine e Madonna, con dolcezza e commossa meditazione.

Facendo un balzo nel tempo, possiamo osservare che la fuga dalla sessualità degli intellettuali non è affatto cambiata: François-René de Chateaubriand nacque, nel 1768, a Saint Malo, da una famiglia bretone.
Suo padre, René, un uomo rigido e taciturno s’era arricchito in America, e tornato in patria nel 1753, aveva sposato Apolline de Bédée dalla quale ebbe dieci figli. Nel 1777 la famiglia s’istalla nel castello di Combourg, presso Saint-Malo. François-René, ultimogenito, trascorse l’infanzia oziosa e mal sorvegliata, abbandonato alla cura dei domestici e dedito alle scorribande nelle viuzze del borgo e sulle dune vicino al mare.
Viene mandato a studiare in vari collegi, ma, pur mostrando grande intelligenza, non produsse grandi risultati. A quel punto, credendo di scoprire in sé una vocazione religiosa, François-René, ormai sedicenne, entrò nel seminario di Dinan, ma, a causa del suo carattere indomito, ne uscì qualche mese dopo, per fare ritorno a Combourg, ove ritrovò un padre sempre più burbero, una madre svagata e incostante, e la sorella, Lucilla, donna fin troppo sensibile, e dall’animo di fuoco.
A Combourg visse due anni di malinconiche esperienze, in preda all’emotività e in un continuo bisogno di solitudine e di sogni, inebrianti ed amari. Furono due anni che influirono molto sul carattere di Chateaubriand, la cui unica compagna in quel periodo fu la sorella Lucilla, che piena di esaltazioni e di natura nevrotica, aumentò la sensibilità e le fantasie e passionali del fratello. Il padre, preoccupato di come stavano andando le cose, cerca di svegliarlo e di ricondurlo alla realtà, tant’è che ottiene, nel 1876, per lui la nomina a sottotenente del Reggimento di Navarra. Dopo un breve periodo, Chateaubriand viene promosso capitano, ma poco dopo abbandonò la carriera militare. L’indimenticabile esperienza interiore con la sorella, C. la narrò nel racconto praticamente autobiografico che è René : «Ogni autunno ritornavo al castello di mio padre, posto in mezzo alla foresta (…) Timido e impacciato davanti a mio padre, non ritrovavo la scioltezza e l’allegria che accanto a mia sorella Amelia. Una dolce somiglianza d’umore e di gusti mi univa strettamente a quelle sorella, che era un po’ maggiore di me. Ci piaceva inerpicarci assieme nelle colline, remare sul lago, attraversare i boschi quando cadono le foglie: il ricordo di quelle passeggiate riempie ancora di delizie la mia anima. (…) a volte camminavamo in silenzio ( …) a volte ci capitava di sussurrare versi ispirati allo spettacolo della natura. (…) religione, famiglia, patria, la culla e la tomba il passato e l’avvenire (…) io e Amelia godevamo più di chiunque di quelle idee gravi e tenere, perché avevamo in fondo al cuore un po’ di tristezza. (…) Poi un giorno mio padre morì.(…) Imparai a conoscere la morte(…) Non riuscii a credere che quel corpo inanimato fosse l’autore del pensiero che era in me (…) l’espressione di mio padre nella bara aveva preso qualcosa di sublime. Perché questo stupefacente mistero non potrebbe essere il segno della nostra immortalità?( …) Perché nella tomba non dovrebbe esserci una grandiosa visione dell’eternità?(…) Amelia mi intratteneva sulla felicità della vita religiosa; mi diceva che ero il solo legame a trattenerla nel mondo, e i suoi occhi fissavano con tristezza. (…) con il cuore commosso per un momento ebbi anche la tentazione di nascondere la mia vita in un monastero »
Alla morte del padre C. va a Parigi ed è presentato a corte e frequenta la società letteraria parigina del suo tempo. Nel 1791 fa un viaggio nell’America del Nord, ma, avendo saputo dell’arresto del re, rientrò in patria l’anno dopo, per battersi nelle file dei monarchici. Tornato in Francia sposò la ricca Celeste Buisson de la Vigne, donna dalla personalità robusta e stoica, che seppe dimostrare una grande comprensione per il carattere del marito. Ma la loro unione durò pochissimo, perché poco dopo Chateaubriand raggiunse l’esercito degli emigranti del principe di Condé e combatté nell’assedio di Thionville. Ferito, fuggì prima a Bruxelles e poi passò in Inghilterra.
A Londra visse in miseria, facendo l’insegnante di francese e il garzone di libraio. Nel 1797 pubblicò L’Essai historique sur les Révolutions, opera maturata dopo aver letto Voltaire, Montesquieu, Rousseau, e impregnata di pessimismo anticristiano, come si evince dai capitoli dedicati alle obbiezioni contro il cristianesimo. Dopo aver dato per scontata la scomparsa di quella religione, l’autore si chiedeva infatti quale sarebbe stata quella che l’avrebbe sostituita. Durante gli otto anni del soggiorno londinese tristissime notizie giunsero a Chateaubriand: seppe che la sua famiglia fu imprigionata durante il Terrore, che un suo fratello, Jean-Baptiste, venne ghigliottinato assieme alla moglie e a numerosi congiunti.
Nel 1800 una lettera della sorella Julie du Farcy gli annunziò la morte della madre e lo mise a parte che essa era morta col di lui nome in bocca, perché addolorata dalla sorte del figlio. Rientrato in patria, lo scrittore trovò che anche sua sorella era nel frattempo deceduta. Quel doppio lutto fu una folgorazione per François-René, che aveva tanto amato la madre e che era stato anche affettuosamente legato a sua sorella. Ma egli era addolorato anche per la cruenta sorte che toccata al fratello, alla cognata e agli altri parenti – assassinio di cui, forse inconsciamente, François se ne fece indirettamente carico, essendo egli stato implicato tra coloro che difesero il re. Infatti, era probabile che la sua famiglia, rimasta in Francia, avesse fatto le spese della politica filoborbonica dello scrittore. Il perdere quasi in un sol momento anche altre due creature della sua famiglia, e soprattutto la madre, tanto amata, gli procurò un colpo dal quale non seppe più risollevarsi.
Quelle morti lo sconvolsero, e, abbandonato il pensiero settecentesco illuminista, passò, attraverso una crisi spirituale, alla fede religiosa cattolica; tant’è che, due anni dopo, nel 1802, François diede alle stampe Le génie du Christianisme, opera di lodi per la religione e di apologia cristiana. Con essa, egli cercò di provare che tra tutte le religioni, quella cristiana è la più poetica, più umana, più favorevole alla libertà, alle arti, e alle lettere, tant’è che, secondo l’autore, il mondo moderno le deve tutto: essa favorisce il genio, sviluppa le passioni virtuose, da’ vigore al pensiero, e propone moduli perfetti all’arte. Nell’opera, che uscì quattro giorni prima del concordato tra Napoleone e la Chiesa, l’autore si augurò inoltre il sorgere di un’arte cristiana che reggesse al confronto con quella classica. Con quest’opera Chateaubriand svaluta radicalmente la ragione, ed auspica il ritorno al sentimento, ai moti del cuore, alla spontaneità e alla natura.
Le génie du Christianisme ebbe una influenza immensa, che si propagò molto al di là della sua epoca. Infatti, la sua opera e la sua personalità tipicamente romantica, dominò il primo ventennio dell’Ottocento romantico francese. Chateaubriand fu personalità pessimista, individualista, disincantata dell’esistenza, tutta immaginazione ed emozione, e, di conseguenza, lontana dalla logica e dai ragionamenti razionali.
Com’era nel carattere del visconte, anche in politica il suo pensiero fu spesso pieno di voltafaccia: dopo un tentativo di carrierismo politico al seguito di Bonaparte, il quale aveva apprezzato il contributo dell’autore alla restaurazione religiosa, sentita dallo stesso Napoleone come atto politico, l’imperatore lo nominò ambasciatore a Roma e poi ministro nel Valais. Ma François abbandonò indignato l’icarico dopo la fucilazione del duca d’Enghien, e, in seguito, accolse con gioia la Restaurazione. Ma dopo alterne vicende politiche, e caduto ormai Carlo X, il nostro si ritirò definitivamente a vita privata.
Sebbene avesse un carattere scontroso e solitario, a causa del quale fu in qualche caso anche inviso soprattutto nell’ambiente politico, Chateaubriand ebbe, malgrado tutto, un destino favorevole che gli elargì l’ammirazione del prossimo, assieme ad onori, amicizie devote, tra cui quella di Madame Récamier. Costei gli rimase vicina nella vecchiaia, e lo protesse dalla invadenza della gente fino alla sua fine, avvenuta, nel 1848, a ottanta anni. Lo scrittore prima di morire chiese di essere inumato nello scoglio di Grand-Bé, vicino Saint Malo, ove ora riposa.
Le donne che furono amate e amanti, e che perso il partner, si sono date alla meditazione, diventando sante.

Una di queste è Rita Lotti nata nel 1381 a Roccaporena.(Medioevo Dossier- anno 3 n°4). A 12 anni andò sposa a Paolo Mancini, il quale, essendo un uomo di spada, un avventuriero e frequentatore di taverne, sicuramente le fece provare tutti i gusti della vita e del sesso. Quella sposa bambina dovette essere assoggettata psicologicamente dalla personalità di Paolo, il quale, però, legato alla fazione ghibellina, era entrato nel gioco delle faide, e venne ucciso.
La morte del marito e poi anche dei figli, significò per Rita la perdita violenta di tutto ciò che aveva al mondo, e l’inizio di una profonda crisi spirituale. L’uomo che era stato per lei come una vertigine mondana, le aveva fatto provare ciò che ella non avrebbe potuto provare se fosse entrata in un collegio da piccola, come era uso farsi a quel tempo. La traumatica ferita d’amore, la perdita degli affetti con la scomparsa anche dei figli, devono avere indotto Rita a ripensare al chiostro, al quale era prima sfuggita, ma che ora diventava, inevitabilmente, meta assolutamente da conquistare.
La crisi spirituale divenne sempre più manifesta, e passò a crisi mistica: infatti, perso l’amore profano, Rita si dedicò a quello spirituale.
Circa cento anni prima, più o meno, la stessa sorte era toccata a Margherita. Costei era nata a Laviano nel 1247 e s’era donata giovanissima, con tutto il fervore della sensualità di ragazza, al nobile Anselmo di Monepulciano. Ma dopo avergli dato un figlio, e dopo tanti anni di concubinato l’amate viene ucciso e con lui Margherita perdere tutto ciò che la agganciava al mondo. Persa, con Anselmo, anche ogni attrattiva per la frivolezza di una vita vissuta interamente nella sensualità, a quel punto, traumatizzata, Margherita abbandonato il figlio ( che, pare, sentendosi ripudiato forse si tolse la vita) ed entrò in un convento.
Quivi allacciò solida amicizia con frate Giunta Bevegnati, che fu pure suo confessore, e che fu anche il suo biografo. Costui, nel Legenda beatae Margaritae, raccontò delle visioni e dei fenomeni mistici che colpirono Margherita.
Più o meno nello stesso periodo, Angela, nata a Foligno nel 1248, ebbe una vita mondana abbastanza intensa. Ma quando, a quaranta anni, perse la madre, il marito e i figli, forse perché colpita profondamente da tante morti, esplose con un inconsueta e abbastanza strana manifestazione di gioia, affermando di essere contenta di aver perso tutti i suoi cari e per di più affermando di essere grata al Cielo che glieli aveva presi perché così ora avrebbe potuto dedicarsi a se stessa, alla preghiera e alla meditazione.
Una così sconcertate e sbalorditiva manifestazione di contentezza, non si può spiegare se non come risultato del forte shock subito da Angela per quelle improvvise perdite. E questo compiacimento di Angela lo afferma pure il frate francescano Arnaldo, suo confessore, che racconta l’allegria dimostrata da Angela per la morte di madre, marito e figli, che, affermava la donna, “le erano stati di impedimento” per la sua vita spirituale, e che la avevano troppo legata al mondo terreno. Ma a manifestare queste idee è Angela stessa, nel suo Memoriale, dettato ad Arnaldo da Foligno, e in cui ella racconta i suoi raptus mistici e le sue visioni estatiche.
Vissuta tra la fine dell’800 e i primi del Novecento, Gemma Galgani, nacque a Camigliano nel 1878. Il padre era farmacista e la ragazza, pare che fosse bellissima, fu educata sin da bambina presso le suore di Santa Zita, che le insegnarono la paura per tutto ciò che erano ideali terreni, e soprattutto le inculcarono l’orrore per il sesso. Sin da piccola ebbe salute gracile, e fu colpita da gravi malattie. Fino all’età di 19 anni visse in una famiglia benestante. Ma in seguito fu colpita, in breve tempo da varie sventure: la morte della madre, di un fratello e del padre, eventi che la depressero, le crearono gravi scompensi emotivi e la portarono, oltretutto, in grande miseria, tanto che, non avendo più come sostentarsi, venne accolta presso la famiglia Giannini, in cui vivevano già undici figli. Nulla si sa dei suoi rapporti con la prole, soprattutto con i maschi, della famiglia che l’ospitava, ma qualche tempo essere entrata a casa Giannini, Gemma cominciò ad avere visioni e stati di trance, perché, diceva lottava col Diavolo per non perdere la sua verginità. Nel suo diario scrisse che più volte nella notte si svegliava ed aveva le “tentazioni un po’ sudice” che il maligno “cercava di insinuare nella sua anima”. In lotta eterna per mantenere integra la propria castità, affermava che il diavolo le appariva sotto varie forme.

Importantismo, modestismo e partecipazionismo.

L’importantismo è un atteggiamento che manifesta, accanto ad una sopravvalutazione personale di sé, una mitizzazione degli avvenimenti che accadono al soggetto o da lui osservati, e che serve a costruire una tridimensionalità e una epicità a fatti che, in concreto, non sono così straordinari, ma che, collocati in questa veste, colui che è affetto da importantismo pensa che gli diano lustro. L’importantismo nasconde un orgoglio smisurato, anche se non sempre si manifesta con alterigia e tracotanza, anzi, a volte, si nasconde dietro una contraddittoria umiltà.
L’importantismo può avere radici profonde che si originano in particolari messaggi ricevuto nell’infanzia, oppure essere prodotto da avvenimenti traumatici che hanno svilito una persona la quale, per recuperare stima di sé, “costruisce attorno a sé un’ epica importanza”.
La persona “affetta” da importantismo colloca la propria vita e gli avvenimenti che la toccano su un piano enfatico, magniloquente e strabiliante, e questo senza che nella realtà vi sia nulla di realmente così grandioso. Di grandioso c’è solo una costruzione fantasiosa, che talvolta può però anche ingannare gli altri.
Un’altra causa di importantismo si ha quando chi viene privato improvvisamente degli affetti e della vita mondana, dello status di benessere, e della sicurezza di sé, immagina di ricevere qualcos’altro in cambio “della perdita”. Egli allora s’immagina di non essere solo un perdente, ma di essere destinato anche a qualcosa senz’altro di superiore.
A causa di paure ancestrali , di malattie debilitanti o di eventi gravi e traumatici, che hanno demolito la loro personalità, alcuni soggetti, per sopravvivere psicologicamente hanno intrapreso la via mistica, dopo avere subito strazianti e irreparabili perdite. Si può anche ipotizzare che, se queste persone non fossero state così duramente colpite, non avrebbero scelto il chiostro e la meditazione. Gli eventi traumatici,( per esempio morti improvvise di persone care e di famiglia, violenze, soprusi), spingono i più impressionabili a chiedere risarcimenti psicologici altrettanto forti e così trovano ricompense e riparazioni di vario genere, tra cui, soprattutto in persone emotivamente fantasiose, quella più efficace è diventare “ persona toccata da eventi soprannaturali”.
Un esempio per tutti è l’infanzia di Francesco Forgiane, colui che in seguito fu chiamato Padre Pio. Francesco nacque da genitori contadini e credenti fino ad essere superstiziosi. Padre e madre di Francesco vivendo in un ambiente molto influenzato da credenze popolari. La levatrice annunziò alla madre che quel bambino appena nato «sarebbe stato grande e fortunato». Quella predizione impressionò molta la signora Maria Forgiane, che, essendo devota di San Francesco, volle mettere al figlio il nome del santo. Quando Francesco fu più grandicello, la madre lo portò da un mago interprete delle stelle per controllare la verità della profezia fattale dalla levatrice. L’indovino sentenziò: «Questo bambino sarà un uomo onorato in tutto il mondo». La madre fece notare la cosa a Francesco e gli disse che non avrebbe dovuto deluderla. Può darsi che il bambino abbia persino rassicurato la madre, ma di certo, quelle parole del mago devono essergli rimaste impresse. Affinché non gli capitasse nulla che poteva impedire la profezia, la madre portò Francesco da un esorcista che era capace di togliere il malocchio. Le sollecitazioni della madre ad essere un bambino particolare, e a non lasciarsi tentare dal demonio, devono avere avuto il loro effetto, perché a mano a mano che Francesco cresceva mostrava sempre più l’esigenza di mettersi in luce sotto l’aspetto della religiosità. A quattro anni cominciò «ad essere perseguitato dal demonio». Il diavolo, raccontava il bambino, gli si presentava in figure orribili. Al quinto anno, anche su pressione della madre, la quale voleva accorciare i tempi della santificazione del figlio, Francesco dice di volersi “consacrare al Signore”.
A nove anni Francesco comincia a flagellarsi. Il padre allora lo porta in pellegrinaggio al santuario di San Pellegrino. Al ritorno Francesco è colto da febbre improvvisa ed ha le visioni. Ciò creò in lui un misto, mal dissimulato, di fierezza. Un’enfasi che divenne a poco a poco sempre più fiera, fino a fagli intender di partecipare del soprannaturale mediante la comparizione delle stimmate.
Visitato dal Prof. Amico Bignami, per conto del Sant’Uffizio, secondo il clinico che procedette al controllo, Padre Pio formula alcune ipotesi: 1)che le lesioni siano volontarie e artificiali, 2)che siano manifestazioni di uno stato isterico morboso, 3)che siano il prodotto un po’ dell’una e dell’altra causa. Il Bignami, esprimendo forti dubbi sulle qualità soprannaturali del fenomeno, affermerà che le lesioni potrebbero essere state prodotte artificialmente, in maniera simmetrica e simbolica e mantenute “aperte” con tintura di iodio. In tribunale, nel 1963, Francesco Moncaldi, a proposito delle stimmate di Padre Pio, affermerà che il frate stesso se le era procurate, con acido nitrico e che le profumava con acqua di colonia.
Agostino Gemelli che visitò Padre Pio concluse che le stimmate erano un prodotto di origine isterica, e lo psichiatra Prof. Luigi Cancrini come riferisce la rivista Micro Mega n° 3 del 1999, affermerà molti anni dopo che per una perizia psichiatrica, Padre Pio doveva essere inquadrato, secondo il Dsm IV, in un quadro di disturbo istrionico di personalità, e di disturbo di trance dissociativa.
Tutto questo induce a pensare che le persone che sono affette da importantismo ritengono che la “sorte” loro toccata abbia una grande rilevanza, sicché questo “destino” concede loro uno spessore psico-sociale che le ripaga largamente delle umiliazioni e delle perdite subite.
La ricerca di risarcimento ha come terreno privilegiato l’ambito mistico, unico, forse, sia in passato, ma anche ai giorni d’oggi, che sia in grado di accogliere il dolore e di trasformarlo senza distruggere l’esistenza di colui che è provato dallo sconforto. I più afflitti e i più traumatizzati scivolano in uno status propagandato come il più elitario, sebbene chi vi entra mostra un grande modestismo. (Non una modestia, perché la modestia è coscienza del limite delle proprie possibilità: in questi casi si tratta di persone che pensano di essere addirittura al di là dei limiti umani, cioè coscienti di non avere alcun limite, perché toccate dal soprannaturale, e di essere in grado di fare cose mirabili, e tuttavia, proprio perché “consapevoli di un valore così immenso” non esternano che umiltà.
«Non faccio miracoli» si schermisce Natuzza Evolo, cosciente che la gente sa che ella ha un grande potere sovrannaturale « sono solo una mediatrice tra il Signore e la gente». Insomma un vero e proprio modestismo il suo, cioè, una manifestazione di falsa umiltà. Parole semplici, anzi umili, ma efficaci, capacità consolatorie e tranquillizzanti, apparente serenità d’animo, sono i biglietti di presentazione degli spiriti “eletti”. La persona dotata di poteri così vasti non ha troppo bisogno di vantarsi, le basta un gesto, un segno, una parola, un evento prodigioso che le viene attribuito. La modestia, l’affabilità sono la conseguenza di questo enorme carisma: non deve imporsi una persona del genere, trova già coloro che l’ammirano e la temono. Perché faticare ad imporsi con altri mezzi? Questa tradizione dei poteri ricevuti e copiati da una entità superiore si legge nella Bibbia. L’importanza di Dio sta nel dispensare malattie ed epidemie, ma anche di essere un guaritore,anzi, solo Dio è il guaritore, nella Bibbia. Ma molti secoli dopo ecco che qualcuno cominciò ad esercitare l’arte del guaritore, e con ciò si appropriava del sapere e del potere divino. In altri termini, il guaritore diventa simile a Dio. E sebbene il vero “medico” resta sempre Dio, l’uomo- guaritore dice di “curare”, ma lascia a Dio il compito di “guarire”. Ecco allora che Natuzza pur avendo poteri soprannaturali afferma “non faccio miracoli”. Ella è solo una “mediatrice”. Ma in questo contesto non c’è modestia, c’è modestismo.
Natuzza Evolo, di Paravati ( Mileto) è ritenuta donna di grande efficacia consolatoria. Eppure ella presenta – a detta del neurofisiologo Marco Margnelli – un sindrome isterica molto pronunziata, tanto che, volendo il neurofisiologo studiare i fenomeni di cui Natuzza è affetta, ivi comprese le stimmate, la stessa non si fece mai osservare con strumenti scientifici. Dice testualmente il prof Margnelli: «Ogni qualvolta avrei dovuto procedere scientificamente a rilevare con strumenti obbiettivi di ricerca le manifestazioni relative alle stimmate o a quant’altro, la Evolo entrava in forte tensione emotiva ed era preda di fortissime crisi isteriche che mi impedirono sempre di procedere a qualsiasi controllo, fino a che non rinunziai all’impresa».
Il prof Margnelli ha affermato invece di avere potuto studiare un’altra donna che aveva le stimmate, e di avere trovato che si trattasse di fenomeni isterici di imitazione della sofferenza della Croce. Se si pensa che circa 400 persone sono state scientificamente censite con queste manifestazioni ( 70 % donne e 20% uomini) si può ben vedere quanto “comune” sia questo genere di manifestazioni psicosomatiche.
Ma se la fuga dalla frustrazione induce all’importantismo e al modestismo, la molla che incentiva e che tiene in vita queste due estrinsecazioni psicologiche è il partecipazionismo.
Un esempio di partecipazionismo lo fornisce il popolo dei fedeli di Natuzza Evolo. La donna è sposata dal 1944,ed ha 5 figli e dodici nipoti. Dopo che nel 1944, a venti anni, sposò Pasquale Nicolacci, Natuzza, a pochi giorni dal matrimonio cominciò ad avere delle visioni. Da ragazzina Natuzza aveva sofferto la fame. Suo padre emigrò in America e di lui non se ne seppe più nulla. Anche la madre si curò poco della figlia, dovendo andare via da casa per sfamarsi. La ragazzina sin da piccolissima fu costretta per sopravvivere ad andare a servizio, per cui non è mai entrata in un a scuola, e non ha fatto nemmeno una classe delle elementari.
Ma si tratta di una donna che ha saputo reagire alle avversità: è energica, ipertesa, e certamente ambiziosa, malgrado il modestismo apparente. Raggiunto lo status matrimoniale, la Evolo ha chiesto qualcosa di più dalla vita: ha chiesto ciò che il suo importantismo le faceva reclamare: l’unica notorietà che in base alla sua cultura ella conosceva, vale a dire quella dei fatti soprannaturali. In questa strategia fu subito assecondata dalla gente, ben lieta di poter partecipare, grazie alla vicinanza di un essere che si dice in contatto col soprannaturale, ad eventi prodigiosi. Il partecipazionismo è dunque, in questo, come in tanti altri casi, il lievito che fa ingigantire la fama di chi si afferma segnato da fatti misteriosi e in grado di compiere imprese straordinarie.
La possibilità di partecipe in prima persona, la possibilità di “essere presenti” o di “credere” di essere presenti allo svolgimento di un avvenimento importante o di eventi mirabolanti fa sì che la gente che ritiene di avere assistito a queste mirabili occasioni, sostenga le persone che affermano di essere dotate di poteri paranormali.

BIBLIOGRAFIA

G. Cosmacini, Medicina e mondo ebraico.Dalla Bibbia al secolo dei ghetti, Laterza, Bari-Roma, 2000
K.Deschner, Storia criminale del Cristianesimo, Vol. I°, Arele, Milano, 2000
Medioevo, dicembre, 2000
M.Guarino, Controstoria di Padre Pio, Kaos, Milano, 1999.
G. Minois, Storia dell’ateismo, editori Riuniti, Roma, 2000
Mistismo e Psichiatria in Formazione Psichiatrica, anno VII, n.2, Aprile-Giugno, Catania, 1985
D.F.Noble, Un mondo senza donne, Boringhieri, Torino, 1994
E Roudinesco, Jacques Lacan, Profilo di una vita. Raffarello Cortina, Milano, 1955
Giuseppe Paradiso

SESSO E SOCIETÀ:

UOMO E DONNA, UN LEGAME COMPLESSO

In RIVISTA FORMAZIONE PSICHIATRICA
Periodico trimestrale a cura della
Clinica Psichiatrica dell’Università di Catania

PRESENTAZIONE di Santo di Nuovo

L’educazione sessuale non può essere ridotta – come purtroppo spesso avviene – ad informazioni sul funzionamento di organi e apparati riproduttivi e sui comportamenti sessuali più appropriati. L’informazione è solo la premessa, certo utile, di un lavoro formativo ad un uso maturo e responsabile della sfera erotica, intesa come pienezza della relazione tra persone.
A questo lavoro formativo il presente volume vuole apportare un contributo, offrendo del materiale per riflettere sui collegamenti tra comportamenti sessuali e culture dell’eros, inserite in precisi contesti storico-sociali che ne determinano forme e influenze, spesso per nulla positive.
Ripercorrendo la millenaria storia del rapporto di coppia, l’autore ricorda come amore e sessualità contengano emozioni e significati psicologici che sono il prodotto, a volte conflittuale, di pulsioni naturali frammiste ad esperienze sociali, morali e religiose. Sin dai più antichi contesti sociali queste esperienze – in conseguenza di condizionamenti spesso contraddittori tra loro – hanno portato ad alternare agli affetti e ai desideri, trasgressioni e perversioni, paure e sensi di colpa che hanno segnato negativamente l’equilibrio emotivo di tante generazioni.
E’ possibile oggi ricostruire un senso del desiderio erotico e delle sue conseguenze sociali, al di là di quello che Freud chiamava “disagio della civilizzazione”?
Alcune citazioni mi sembrano utili a suggerire un significato ai termini ‘sessualità’ e ‘famiglia’, che oggi rischiano di diventare vuoti e privi di senso per molti giovani (e adulti).
«Il sesso non è mai una cosa ma è un mezzo per rispondere all’esigenza umana più grande che è il desiderio di intimità per essere accettati, rassicurati, armonizzati. Se il sesso sostituisce il rapporto fondamentale in cui la persona si rivela e si manifesta, tutto si spreca e si avvilisce.(…) Prima di tutto cerchiamo di liberarci dalla “preoccupazione” di stabilire ciò che è peccato, ciò che è male. La paura, anche se è di natura morale o teologica, non aiuta nessuno a vivere. Abbiamo bisogno di scoprire i valori e di far maturare lentamente le nostre coscienze per aprirle ai valori in modo libero e gioioso. Forse abbiamo troppo insistito nel determinare le norme morali e nel definire i confini del lecito e dell’illecito, ma questa tendenza sembra rivelarsi sterile ed astratta.
Stiamo uscendo da un tempo in cui il presupposto più o meno esplicito era che il sesso è peccato o che il sesso è un male necessario. Non si conta il numero di coppie che sono state profondamente ferite da questa visione riduttiva ed ingiusta. Vigeva una profonda diffidenza nei confronti dell’eros, nei confronti del piacere e dell’amore umano. Probabilmente l’intenzione era di sottolineare tutta la qualità della persona umana, per affermarla anche oltre la natura, oltre la necessaria propagazione della specie. Ma in questo processo non sono mancati errori e deformazioni. (…) Il vero male del quale dobbiamo essere coscienti non è nel nostro corpo o nei nostri sensi; il vero male è nell’uomo che si chiude su di sé e sul proprio corpo pensando di poter affermare la propria realizzazione senza limite alcuno. (…) Non basta innamorarsi ma bisogna veramente incontrarsi. Quando l’incontro è vero e si sviluppa nell’amore libero dal possesso, allora diventa fecondo.»[1]
L’emancipazione dalle diverse forme di condizionamento consente la riscoperta di un eros finalizzato non solo alla riproduzione e alla perpetuazione delle specie, ma ad un incremento del godimento, del benessere e della qualità della vita in un incontro tra persone, oltre che tra corpi.
Il luogo tradizionalmente deputato all’incontro tra i due sessi come persone è l’unione coniugale e la famiglia, e il testo che qui presentiamo ricorda bene quanto i significati di questa istituzione siano influenzati dai diversi contesti culturali e sociali.
«Ogni cultura infatti traduce il sesso come fatto biologico in un’identità femminile e maschile, con ruoli e funzioni, caratteristiche sociali e culturali. (…) Nella famiglia i due generi si legano sulla base della loro differenza ed è perciò a livello del famigliare che la specificità di ciascun genere trova il fondamento della sua identità come distinzione correlata. (…) La famiglia organizza relazioni. Non però relazioni generiche, ma relazioni primarie che connettono e legano le differenze cruciali della natura umana, la differenza di genere e la differenza di generazione. Esse danno luogo a un bene relazionale (le nuove generazioni e la loro educazione) essenziali per la comunità umana»[2].
Quotidianità presente e proiezione nel futuro costituiscono la forza e la debolezza della istituzione familiare.
«La quotidianità struggente crea il mito della famiglia, il suo lessico scorrevole ne tramanda la poesia a tutte le generazioni. La quotidianità spezzetta l’esperienza umana in tanti segmenti e consente a ciascuno di essere rapito da qualche frammento di cui avverte l’assolutezza. Ma la quotidianità può divenire un inferno se manca quel sentimento di affetto che fa uscire dal mito la famiglia e la trasfigura nella più alta meta dell’uomo (Kafka). Forse per questo la famiglia può essere sentita e interpretata come prigione e mortificazione delle pulsioni (Fromm), o come custode e fomentatrice di virtù (Siracide). La discriminante, che illumina il giorno, o introduce nel mondo della notte (Jaspers), è l’affetto o la sua assenza (…) La quotidianità struggente della famiglia crea la futura memoria strutturante (Bergson) dell’adulto»[3].
Si può fare a meno della famiglia come istituzione rigida, rassicurante ma talvolta soffocante, riscoprendola come libera aggregazione tra persone che condividono un progetto di vita a partire dalla condivisione di corpi? Oppure l’incontro – e dunque l’amore – vero può esistere, come qualcuno ritiene, solo al di fuori del rapporto istituzionale vincolato socialmente nella famiglia?
Nel corso del volume è offerto materiale utile per una riflessione sul significato dell’eros e delle sue forme istituzionalizzate, come il matrimonio e la famiglia; significato che non può essere disgiunto dal contesto culturale in cui esso va individuato e svelato. L’autore ci aiuta a ripercorrere la storia dell’amore nelle sue diverse accezioni, le consuetudini sociali che lo hanno concretizzato, le mitologie e nelle forme artistiche che lo hanno tradotto e divulgato in linguaggi simbolici o realistici.
Si evidenziano in questo percorso le deformazioni che ideologie, religioni e concezioni morali, tradizioni e consuetudini sociali, hanno sovrapposto lungo i secoli alla serena e gioiosa estrinsecazione del desiderio amoroso: aspetti sottolineati e spiegati da innumerevoli saggi di taglio sociologico e psicologico – specie in ottica psicoanalitica – ma ancora poco utilizzati in funzione educativa.
Notevole è certamente la valenza formativa di una diffusa presa di consapevolezza su come certi tabù sono stati costruiti e tramandati; e su come i fattori che ne hanno favorito il trasmettersi di generazione in generazione continuano ad agire anche in nell’attuale realtà apparentemente libertaria e disinibita. E’ utile ad esempio che i giovani prendano coscienza della funzione pseudo-liberatoria di opere letterarie e cinematografiche, telenovele e canzoni di largo consumo, che riproducono forme di deteriore ‘romanticismo’ tipico di epoche passate, nelle quali l’amore e l’eros sono assimilati a sentimenti retrivi e disadattivi, spesso larvatamente se non esplicitamente maschilisti, comunque altamente diseducativi.
Riflettere sulla storia e sulla cultura del passato – come questo libro propone, con stile semplice e chiaro rivolgendosi ad un pubblico di ‘non specialisti’ – è sempre il migliore avvio per una educazione consapevole e proficua.
E’ auspicabile che questa riflessione possa costituire il fondamento per modalità di educazione a vivere la sessualità, e la vita relazionale nel suo complesso, in modo maturo e sereno, realmente paritario tra i sessi, adeguato insomma ai bisogni delle persone e dei gruppi sociali nel terzo millennio.

Santo Di Nuovo
Preside Facoltà Scienze della Formazione
Università degli Studi – Catania

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INTRODUZIONE DELL’AUTORE

Il presente saggio affronta una visione della sessualità e del rapporto tra i sessi partendo dalla constatazione che sebbene di sesso si parla di frequente, su questo argomento le conoscenze della massa sono spesso lacunose, così come lo sono anche quelle sulla psicologia dei sentimenti e delle relazioni di coppia. Il volume intende mostrare come amore e sessualità contengano significati, emozioni, vibrazioni e ripercussioni psicologiche che sono il risultato di pulsioni naturali frammiste ad esperienze sociali, morali e religiose e sottolinea che nell’amore e nella sessualità, si alternano, a volte, a causa dei complessi e dei condizionamenti ricevuti, oltre agli affetti e al desiderio, paure, trasgressioni e perversioni.
Sin dai contesti sociali più antichi, la gente è stata manipolata e condizionata dalle proprie culture sociali e dalle istituzioni confessionali, spesso anche in modo arbitrario, capriccioso, con imposizioni o con subdoli messaggi, per cui, a proposito della sessualità, sono stati drasticamente imposti comportamenti strani ed anomali. Dopo tanto bombardamento psicologico ci si trova ancora oggi, a proposito del sesso, davanti ad una serie di equivoci, di interferenze, di gravi omissioni educative che hanno portano ingiustamente a ritenere la sessualità un evento di cui la cultura può trascurare d’indagare senza compromettere il sapere dell’uomo.
Scrive Wilhelm Reich[4] che, le regole sociali e morali alquanto rigide, se non addirittura innaturali e arbitrarie, hanno fatto sviluppare un’armatura psicologica che blocca la fluidità dei rapporti tra i sessi; e in sintonia con ciò, l’antropologo J. L. Flandrin[5], sostiene che i precetti sessuali, modellati da arbitrarie esigenze sociali, soffocano le persone. E Georges Minois[6] afferma che la contrapposizione fra sesso e religione è una della cause del distacco di molti cattolici dalle pratiche di culto e, in ultima analisi, uno dei motivi che alla lunga portano all’ateismo. Ciò, in primo luogo, perché l’individuo è inevitabilmente portato a rifiutare tutto quello che ostacola la sua propensione al piacere, e poi perché sente in questo campo, che ritiene naturale, troppo pesante ed inutile la colpevolezza imposta dalla religione.
Il contrasto tra natura ed educazione, che ha creato un insanabile conflitto, è dovuto ad un filone di credenze che partendo dal Logos Protrepiktos di Clemente Alessandrino, in cui l’autore condanna chi dà retta alla propria sessualità, ritenuta sede del demonio e di desideri immondi, che via via si è sempre più incancrenito nelle riflessioni di altri pensatori e predicatori, da Tertulliano a Taziano, da Eusebio a Savoranola, e a tanti altri ancora che per due millenni hanno torturato le coscienze della gente.
Il pensiero confessionale, come afferma Claude Rivière[7], si prefigge di salvaguardare e tutelare l’ordine, ma non fa nulla per difendere i bisogni naturali, tant’è che i suoi precetti a volte sono anacronistici rispetto agli sviluppi storici e psicologici. Ed allora, sentendo «l’altra campana», cioè il pensiero laico scientifico, si viene a sapere con Helmut Schelsky[8] che la morale sessuale non ha basi biologiche, e che pertanto l’aggettivo “naturale” è un equivoco, concetto pure espresso da Bronislaw Germek[9] che mette in risalto come le leggi morali e sociali dipendano da esigenze storiche e non da bisogni naturali, tant’è che precetti e convinzioni riscuotono in certi periodi maggiori consensi, e in altri meno, il che spiega perché ciò che è ritenuto regolare in un periodo storico, è biasimato in un altro.
Un tipo di educazione innaturale, che per secoli è stata portata avanti da alcune società e da alcuni insegnamenti pseudo morali, ha prodotto, parossisticamente, come sostiene C. G. Jung,[10] l’abitudine di mostrarsi imbarazzati pure quando ci si imbatte in parole come “erotico” e “sessuale”, mentre, afferma ancora Jung, l’indagine sulla sessualità potrebbe essere utile per migliorare la comprensione psicologica di sé.
A tal proposito Sigmund Freud[11] ritenne indispensabile non solo conoscere le peculiarità sessuali di un’epoca, ma anche di una persona per comprendere di entrambe motivazioni e psicologia. Il fondatore della psicoanalisi, sconsigliò proprio per questo ad Arnold Zweig[12] di stilare la biografia di Nietzsche, ritenendo che l’amico non avesse sufficiente conoscenza della “realtà sessuale” di quel filosofo: « … non si può far luce su di un uomo di cui si ignora la formazione sessuale…». Malauguratamente però le dottrine sociali e le ricerche storiche hanno trascurando, in passato, la riflessione e lo studio della sessualità, perché a causa del malinteso senso del pudore, hanno “rimosso” quello che, invece, è un problema complesso, ed hanno indotto così la gente a tacere le proprie fantasie erotiche e le proprie pulsioni “inconfessabili”.
Infatti, per paura di incappare nella riprovazione, la maggior parte delle persone nasconde, a proposito della sessualità, non solo i propri gusti e i propri desideri, ma anche le proprie angosce e i propri sensi di colpa, oltrecché i propri tratti nevrotici, per non dire, poi, dei comportamenti sessuali psicopatologici, dissimulazione, in quest’ultimo caso, che comporta una notevole resistenza a farsi curare.
Essendo stato camuffato dall’ipocrisia e dal perbenismo, l’erotismo è relegato in un limbo, ed è occultato sia ciò che è normale che ciò che è patologico, dal momento che, secondo il comune senso del pudore, la linea di demarcazione tra l’uno e l’altro è ridotta a una partizione quasi insignificante. Infatti, per alcuni, troppi!, moralisti, è tutto scandaloso in proposito e quasi tutto frutto di degenerazione. Per riportare una visione normale della sessualità bisogna vedere quest’ultima non come una tara, oltretutto priva d’interesse, del corpo umano o un orpello, magari fastidioso, della psicologia dell’individuo, ma una componente determinante della vita privata, oltrecché di quella pubblica, della politica, dell’arte.
Esaminando la psicologia dell’amore, risulta evidente che, se è supportato dal narcisismo, dall’egocentrismo o da stereotipi sociali quali il denaro, lo status sociale o la semplice bellezza, e non da parametri che tengono conto di qualità come l’equilibrio psichico, la cultura, la valenza dell’interiorità, il senso del reale, ogni relazione prima o poi è condannata alla conflittualità e ad esplodere in comportamenti nevrotici.
Carl G. Jung[13] afferma a tal proposito: «Se pensiamo che ci sono molte persone che non comprendono nulla di se stesse, non ci stupiremo più di tanto che altre persone siano assolutamente inconsapevoli dei loro conflitti interiori». Osservando la dinamica della coppia, al di fuori dei pregiudizi, non si può che convenire con Pietro Tuttobene che afferma «Un ipotetico abitatore della luna non potrebbe mai capire se dovessimo parlargli di gelosia e fedeltà, sentimenti specifici delle miserie umane»[14]
L’Autore

PARTE PRIMA

ASPETTI STORICI E ANTRIPOLOGICI

Cap. I
Matriarcato o patriarcato?
Usanze sessuali nelle antiche civiltà
L’ Egitto antico
La cultura ebraica
La Grecia classica
L’epoca romana
L’Islam
Il Medio Evo: religione e sessualità
Incoerenze e ambiguità medioevali verso la sessualità
La prostituzione nel Medio Evo
Fidanzamento e sponsali
I ‘Trovatori’ e l’amor cortese
L’ età moderna: ancora una doppia morale sessuale
I cicisbei
Cap II
La sessualità nei contesti non-occidentali
Monogamia e poligamia
Storia dell’istituzione matrimoniale
Ritualità nuziali.
La mentalità maschilista
‘Meridionali’ e ‘Anglosassoni’
Verso una parità tra i sessi?
Esiste davvero la libertà di scelta?
Si può configurare una caratterologia di coppia?
Il conflitto della coppia e le sue conseguenze
Separazioni e divorzi
I “single” e le coppie di fatto
L’età contemporanea: cos’è cambiato nella coppia?

Cap III
Amore ed eros nella letteratura e nelle arti figurative
Dalla mitologia alla letteratura
La pittura e l’amore
Il rapporto tra i sessi nel melodramma lirico
Il cinema e l’amore
Abstract
Bibliografia
Summary

CAP I

Matriarcato o patriarcato?

La divisione sociale dei sessi si concretizza nelle società più primitive nella spartizione dei compiti, dando alle donne le incombenze relative all’allevamento e ai maschi quelle che concernono la caccia.
Secondo Talcot Parsons[15] la struttura delle istituzioni sociali si adegua sia alle capacità dei membri sia ai bisogni dei membri stessi. L’individuo però, fa parte contemporaneamente di diversi stati sociali, quanti sono le sue intrinseche capacità.
Probabilmente è stata la gerontocrazia la più antica forma di “discriminazione” che ha creato privilegi. Nella maggioranza dei popoli primitivi (e la tradizione biblica lo testimonia) lo stadio più arcaico delle società umana sarebbe stato il patriarcato. Esso rappresenta un associazione in cui il padre ha potere assoluto su moglie e figli, sugli schiavi e su tutto il “patrimonio”. Questa forma ebbe probabilmente origine con l’inizio della pastorizia la quale determinò lo sviluppo della grande famiglia, nella quale convivevano molte generazioni.
Nell’ambito del patriarcato le donne godono di scarsa autonomia e hanno limitati diritti: la trasmissione dei beni e delle prerogative avviene in linea maschile.
Giovanbattista Vico definì il patriarcato «una ciclopica potestà paterna». Prima dell’esistenza del patriarcato, qualcuno ha voluto individuare nell’orda la situazione sociale di convivenza tra persone di sesso diverso. Nell’orda non vi sarebbe stata né una preminenza maschile né una preminenza femminile. Tuttavia, di tale evento sociale non si hanno certezze e di conseguenza non si sa in che epoca della preistoria collocarlo, né in quale parte del globo si possa essere sviluppato, né il periodo di tempo che potrebbe essere durato.
In ogni caso, la maggior parte degli etologi non ha trovato un riscontro tale da individuare una “epoca della promiscuità”. Nelle popolazioni primitive di cui si ha notizia si rilevano solo promiscuità temporanee, che rappresentano rotture transitorie dell’ordine sancito. La promiscuità accade in occasioni di particolari ricorrenze o di eventi come la cosiddetta “prostituzione di ospitalità” o nel “concubinaggio promiscuo”
Una corrente che fa capo al filosofo evoluzionista svizzero Johann Jakob Bachofen[16], contesta però che l’origine dei rapporti maschi-femmina sia stato il patriarcato. Secondo l’antropologo Bachofen, la conformazione sociale della specie umana iniziò invece col matriarcato che seguì alle relazioni promiscue.
Bachofen afferma che all’origine la femmina era ritenuta più importante del maschio, essendo essa non solo capace di dare la vita, ma anche più adatta alla cura e alla sopravvivenza della prole. L’ipotesi del matriarcato originario è condivisa anche dall’antropologa americana Nancy Makepeace Tanner,[17] la quale in Madri, utensili ed evoluzione umana, ha ipotizzato che le femmine abbiano utilizzato per prime l’arto anteriore per prendersi cura dei figli. Da altri resti femminili scoperti in “nicchie familiari” lungo la Rift Valley, ove fu trovata Lucy, la Makepeace afferma che si può rilevare che le femmine venivano tenute al sicuro e difese.
La tesi del matriarcato originario fa supporre che per milioni di anni le femmine si contesero il maschio più sano perché, esso, inseminandole, migliorasse la loro discendenza.[18]
Ciò, come ipotizza l’etologo Robin Fox, spingeva alla poliandria.
Tuttavia, malgrado queste argomentazioni, secondo la maggior parte degli etologi il matriarcato non ha solida base scientifica, e sarebbe solo un’ipotesi non dimostrata né storicamente né socialmente “sul campo”. Il matriarcato sarebbe una supposizione, come può essere “presunto” qualsiasi evento sociale del quale nessuna scrittura, nessuna testimonianza archeologica, nessuna “memoria” di alcun genere, se non ipotetica, può avvalorare l’esistenza.
Il matriarcato sarebbe un po’ come il mito delle amazzoni.. In queste condizioni, sostengono vari ricercatori, dare “per scontato” che vi sia stato questo Eden femminile e individuarne i caratteri e le regole, è davvero un azzardo.
Coloro che non accettano questa ipotesi infatti si chiedono: il matriarcato si sviluppò nel Paleolitico inferiore, medio o superiore? Fu all’epoca della cultura magdaleniana? Oppure nell’età del Mesolitico? O nell’età della cultura musteriana? Fu forse nel Neolitico, periodo di origine dell’agricoltura? Alla fine del Neolitico cominciò la pastorizia. Fu forse questa la fine del matriarcato?
Stiamo parlando di decine, se non di centinaia di migliaia di anni fa. Si tratta di epoche che non hanno lasciato che qualche terraglia, qualche pietra grezza levigata, qualche piccolo utensile primitivo. Come potere desumere da ciò una organizzazione sociale che si basa sulla preminenza femminile? Qualcuno avanza l’ipotesi che la tipologia caratteriale delle donne di allora era la loro repulsione per la guerra e immagina che durante il matriarcato le guerre erano bandite. Ma è impossibile affermare tutto ciò scientificamente dal momento che ben poco si sa di periodi così lontani. e perciò qualsiasi affermazione in proposito rientra nella fascia mitologica piuttosto che in quella della realtà storica.
Forse, è più facile affermare che l’età del matriarcato debba ancora svilupparsi. Date le tendenze della società d’oggi, è probabile che questa forma sociale possa concretamente diventare in futuro la struttura della comunità umana.
Forse Bachofen si indirizzò all’idea del matriarcato osservando alcune società animali (tigri, leoni, elefanti etc. etc.) in cui vige il matriarcato, e “per analogia” immaginò che ci fosse questa condizioni nell’età “più selvaggia dell’umanità”. Ma anche se è vero, non dobbiamo ignorare che nel mondo animale le femmine stanno in gruppo, e nessuna femmina di un gruppo può passare nell’altro senza venire aggredita e senza che le si impedisca di entrare nella nuova struttura. Ciò accade inevitabilmente perché ogni gruppo ha un numero “fisiologico” di unità da supportare, al di là di quel numero, gestire un gruppo più vasto crea scompensi: la “banda” non sarebbe più governabile.
Se si vuole allora paragonare l’umanità primitiva alla società delle tigri, dei leoni degli elefanti, come si fa ad escludere, nelle femmine umane, la “tendenza a far guerra” agli altri gruppi di femmine?
D’altra parte, perché dare alla femmina primitiva, e selvaggia, un “potere” che non ha la donna storica e civilizzata? Allora, se vogliamo parlare con “sicurezza” della “non belligeranza fisiologica delle donne”, il partire dalla fase del matriarcato è quanto meno azzardato. Bisogna iniziare da una considerazione bio-fisiologica: la donna, in quanto madre, ha una “tenerezza” particolare, una tenerezza sconosciuta all’uomo (e qui si può affermare che esiste qualche differenza psico-sociologica importante tra maschio e femmina). Questa differenza fa sì che la donna voglia evitare “la guerra” perché i propri figli non ne siano coinvolti. Si tratta di un “riflesso condizionato”, che, assieme al desiderio di maternità, si dimostra vitale per la sopravvivenza dell’umanità.
Infatti la femmina, per ovvi motivi di sicurezza e di opportunità, non può contemporaneamente tenere in grembo il figlio, allevare la prole e dedicarsi alla guerra. L’uomo che non ha incombenze di maternità, è delegato alla difesa della famiglia e del territorio. Purtroppo la pratica delle armi finisce prima o poi con lo scatenare l’abitudine alla ferocia, alla lotta, alla prevaricazione.
Allora, per spiegare la non belligeranza della donna senza fare riferimento alla situazione sociale del matriarcato ancora non dimostrata, basta solo appigliarsi alle naturali esigenze biologiche. Tuttavia, quando la donna entra in un ambiente mentale in cui il suo ruolo preminente non è quello di madre, e se non deve difendere la prole, ella non ha necessità di salvaguardare la propria maternità, e pertanto si comporta con la stessa aggressività del maschio, il quale è aggressivo proprio perché “non è costretto dalla maternità”.
Insomma, se da un lato la donna ha un interesse “biologico” contro la guerra, quando essa mette da parte i propri interessi di femmina-madre, il suo cervello finisce col ragionare non più in termini di difesa biologica della specie, ma in termini di potere. In questo caso essa esprime l’aggressività e il bellicismo, allo stesso modo di come lo utilizza il maschio.
Infatti, le donne in carriera sono aggressive e spietate come gli uomini perché hanno di mira il raggiungimento del potere ( vedi la moglie di Mao Tze, e perfino la signora Theacher, che non esitò a far guerra all’Argentina).
Tuttavia, anche se non è possibile sapere se c’è stato il matriarcato, non si può negare la enorme importanza della femmina, importanza che sussiste ancora nel concetto di Madre terra, di Madre Patria, di Madre natura etc.
Judith Viorst in Distacchi[19] sottolinea il fatto che la donna non solo partorisce i figli ma è in grado di fare le stesse cose che fa l’uomo.
Benshof e Thornhill[20] ritengono che essa ha avuto un peso determinante nel miglioramento della specie.
L’evoluzione, avendo tolto alla femmina umana il periodo specifico di estro, come afferma con una tesi suggestiva Desmond Morris, la mise in grado di accoppiarsi quando voleva,[21] e non solo nei giorni in cui, come le altre femmine, “era costretta dall’estro”, dandole così maggiori probabilità di fare figli.
Secondo la sociobiologia Sarah Blaffer Hardy[22], che riprende l’ipotesi di Morris, quando alla femmina preistorica venne a mancare l’estro, essa non si trovò più “limitata” nella sua sessualità e, potendo accoppiarsi tutto l’anno, e non avendo modo di conoscere, grazie alla ovulazione nascosta, quali fossero i suoi giorni fertili[23], non solo non poteva sottrarsi alla fecondazione, ma aveva maggiori possibilità di essere prolifica.
Andando con maschi diversi, la donna poteva anche migliorare la specie.
La mancanza di estro, questa “astuzia della natura”, come scrive Nancy Burley[24], impedì l’estinzione dell’umanità. Infatti, se le femmine primitive, mentalmente più evolute di qualsiasi altro animale femmina, avessero voluto evitare per qualsiasi ragione (fastidi durante la gestazione, paura del parto, rischi dopo il parto, disinteresse per i figli, etc. etc.) rapporti nei giorni fecondi dell’estro, l’umanità si sarebbe estinta.
Anche le etologhe Evelyn Shaw e Joan Darling[25] sono dell’idea che l’estro sia venuto meno proprio per meglio favorire la continuazione della specie.
Quando i primi raggruppamenti divennero stanziali, si moltiplicarono i compiti delle femmine, che dovevano accudire ai piccoli e alle incombenze utili per la sopravvivenza della famiglia.
I maschi si occupavano della caccia e stavano lontani dal focolare, con la conseguenza che essi erano alquanto indifferenti alla stessa sorte dei figli. E invece, l’optimum sarebbe stato che anche il maschio si dedicasse alla prole. Ma perché ciò avvenisse era necessario che in ogni nucleo familiare ci fosse un solo maschio.
A quel punto, come afferma Desmond Morris ne La scimmia nuda,[26] finì la poliandria ed ebbe origine il concetto di fedeltà: il maschio voleva sentirsi sicuro della propria paternità e di allevare esclusivamente i suoi propri discendenti.
Quando la femmina umana perse l’estro, fu il maschio a prendere l’iniziativa sessuale; la femmina, dovendo allevare la prole, aveva meno occasioni di svaghi extrafamiliari del partner, che, essendo spesso in giro per procacciare cibo, aveva certamente occasione di incontrare altre femmine e quindi di accoppiarsi con loro assicurandosi diverse discendenze[27]. Probabilmente sorse così la poligamia.
Secondo una estrosa interpretazione dell’antropologa americana Helen Ficher[28] le reazioni chimiche che producono l’attrazione verso il partner hanno la durata di quattro anni e, dopo quel periodo, la donna è disponibile per un’altra relazione
Secondo la Ficher questo sarebbe un accorgimento della natura per avere figli con caratteristiche dissimili, da maschi diversi, e con maggiori possibilità che la prole sia sana.
La donna sempre secondo la Ficher, sarebbe programmata per avere “una catena di esperienze monogamiche”. Se ciò in pratica non accade, dipende dalle convenzioni sociali. Nondimeno, sostiene la Ficher, questa originaria predisposizione naturale a nuove relazioni avrebbe comportato, nella preistoria, una prole meglio assortita dal punto di vista genetico.
Se questo è vero, il condizionamento sociale e morale, paradossalmente, impedisce alla donna di comportarsi nel modo predisposto dalla natura.

Usanze sessuali nelle antiche civiltà

Sebbene lo storico inglese A. H. L. Fischer, nella Storia d’Europa[29], abbia affermato che “l’Occidente è figlio dell’Ellade”, tuttavia, non è alla cultura greca che dobbiamo l’eredità ideologica riguardo ai comportamenti sessuali.
Prima delle grandi religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo) nessuna civiltà ( né la cinese, né la mesopotama, né l’egizia, né tanto meno la greca o la romana), associò la sessualità ad aspetti di impurità e di colpa; anzi queste civiltà ritennero l’eros complemento essenziale dell’esistenza.
L’antropologa Riane Eilser[30] nota che, nei graffiti e nelle sculture fino all’Età del Bronzo e in una grotta di Lepenski Vir, si inneggia all’organo femminile. L’atto della riproduzione è oggetto di venerazione nelle ceramiche delle Cicladi, in una effigie di Dea scoperta in Moldavia, nelle statuine rinvenute in Bulgaria risalenti a diecimila anni fa.
Platone, nelle Leggi[31], osservò che, per portare a termine un obbiettivo così importante come la procreazione, la natura ha associato un’attrazione alla quale è difficile sottrarsi. Sullo stesso piano si trova anche l’altro grande filosofo di Atene, Socrate, il quale, nel dialogo con Glaucone, riportato da Platone nella Repubblica[32] afferma che «il piacere sessuale è grande e intenso» anche se «senza dubbio il più folle».
Tra le pratiche religiose degli Amorriti, nomadi della Siria nel II secolo a.C., era in uso che le giovinette dovevano sottomettersi, almeno una volta nella loro vita,alla prostituzione sacra. Lo storico Strabone[33] narra che nei templi persiani della dea Anhaita, nume della fecondità era in uno questa usanza. Usanza che si riscontrava anche in Lidia, come racconta il sofista Claudio Eliano in Historia varia[34]. Nell’isola di Cipro c’erano templi ove l’usanza era mantenuta in onore di Afrodite[35].
In Fenicia, nei templi dedicati a Venere, le giovinette[36] si concedevano ad uno sconosciuto prima del matrimonio. Pratica in uso anche in altre regioni, tant’è che Strabone racconta che a Militta, in Babilonia, ogni donna vi si doveva sottomettere, quale ininziazione dell’età adulta, almeno una volta nella vita. È lo storico a riferire che – presso i Nasamoni, antichi popoli Libici, poligami – la sposa giaceva, la prima notte di nozze, con gli ospiti che le offrivano un dono[37].
Anche Marco Polo narrò che nel Tibet era richiesta l’iniziazione sessuale perché una donna fosse considerata degna di un marito.
Inoltre, motivi scaramantici spingevano le ragazze ad avere una esperienza prematrimoniale, perché si temeva che chi non aveva questa esperienza avrebbe avuto il matrimonio compromesso. Questa convinzione induceva i tibetani a sposare donne che avevano superato questo esame, ma dopo il matrimonio pretendevano fedeltà dalla moglie.
In molte popolazioni primitive le ragazze non andavano mai per la prima volta con un esponente del proprio clan, ma con un estraneo, in alcuni casi, con un ministro di culto, ritenuto immune da qualsiasi “maledizione”. L’antropologo belga Franz Cumont[38] ritiene che l’origine della esogamia derivi da questa paura. In Marocco e in Armenia i sacerdoti dei Yezidee,[39] viaggiando di villaggio in villaggio, “salvavano” le vergini, le quali, unte dalla sacralità sacerdotale, in seguito potevano prendere marito senza preoccupazione.
In molte società come quella indiana, per esempio, il sesso era considerato anche dalle religioni un’attività sacra, [40] come provano le figure erotiche che decorano i templi e i luoghi del culto indiani.[41]
Nelle società antiche d’importanza fondamentale era il passaggio, soprattutto dei maschi, dall’età dell’irresponsabilità e dei giochi, cioè dall’età pre-puberale all’età dell’ammissione in società, della capacità di unirsi in matrimonio. Per le donne i riti di iniziazione relativi all’ingresso in società erano meno impegnativi e meno frequenti, ma ciò non toglie che quello che avveniva in passato e avviene ancora in certe etnoculture come “preparazione” al matrimonio e alla procreazione è spesso di una violenza e di una crudeltà inaudite.
Le pratiche iniziatiche per i maschi consistevano in una serie di prove di maturità, di coraggio e di sopportazione del dolore, che andavano, e ancora oggi nelle società tribali sono in uso, da esercizi fisici di particolare pericolo a vere e proprie prove di ardimento ( come camminare sui carboni accesi).

L’ Egitto antico

Nell’antico Egitto il pudore, com’è inteso nella concezione odierna, era sconosciuto [42] e persino nelle tombe venivano raffigurate scene che oggi sarebbero ritenute sconvenienti.
I Faraoni inoltre avevano molte mogli, concubine, amanti o semplici schiave. Ramses II, vissuto circa tremila e duecento anni fa, ebbe quattro “regine ufficiali”, sei mogli “secondarie” e un gran numero di concubine.[43]
Ma le donne, nell’antico Egitto, non rappresentavano solo uno svago per il maschio. La regina Nefertari, la cui bellezza è stata tramandata da scritture e bassorilievi, fu non solo la prediletta di Ramses II, ma anche sua guida e consigliere spirituale. A volte motivi politici determinavano l’insorgere di un nuovo legame: Ramses II, ormai anziano, per suggellare la pace con Hattushli III, re degli Hittiti, sposò la figlia di costui, la principessa Maathornefrure.

La cultura ebraica

Le usanze degli Ebrei erano simili alla legge di Hammurabi: ammettevano che il maschio avesse più mogli e più concubine e ritenevano il celibato da evitare. Grande importanza, per quel popolo, ebbe la circoncisione, che fu resa obbligatoria da Giosuè dopo la morte di Mosè. Alcuni la ritengono una pratica tribale inutile, altri assicurano che essa comporta indiscussi benefici. In ogni caso, nella Genesi (17,9-11) si legge: «Ogni maschio che nascerà sarà circonciso. Voi circonciderete la vostra carne in segno di alleanza con me».
Il sesso, ritenuto strumento della riproduzione, è fondamentale per gli Ebrei ed è parte integrante della loro vita spirituale, tant’ è che viene chiamato “conoscenza”, cioè atto spirituale. Secondo alcuni studiosi, il Cantico dei cantici comunica proprio la gioia dell’amore fisico..
Gli Ebrei invece combatterono la prostituzione, pratica che il Libro di Ezechiele definisce come la sintesi di tutti i peccati di Gerusalemme. In quanto all’incesto, gli Ebrei osservarono rigorosamente questo tabù.[44]

La Grecia classica

Nella Grecia antica [45] l’eros faceva parte dell’arte del buon vivere[46]. Era naturale dunque che Omero esaltasse, in Afrodite, l’amore fisico, la passione e il desiderio, e in Eros l’impulso sensuale. Dell’amore nella Grecia del V secolo a. C. era sconveniente parlare tra marito e moglie.[47] In quanto al matrimonio, Aristotele pensava che il connubio ideale fosse tra un maschio di 37 anni e una donna di 18. In Grecia erano sconsigliate le unioni tra consanguinee, mentre si tolleravano quelle tra fratellastri o tra suocera e genero o suocero e nuora.[48]
Anche Aristippo sosteneva che la relazione con le donne non doveva necessariamente essere accompagnata dall’amore. Ma nella letteratura greca vi sono esempi di giovani innamorati di cortigiane (etère) e di etère innamorate dei loro clienti. In Grecia le prostitute venivano avvicinate per il piacere, le concubine per le cure di tutti i giorni, e le mogli per la discendenza.[49]
Nell’Ellade la padrona della casa era relegata nel gineceo, senza garanzie civili[50] e non aveva il diritto, dopo il parto, di trattenere il figlio: poteva prendersi cura del neonato solo se il marito aveva deciso di accettarlo in casa. Dalle commedie e dai drammi di quel periodo si desume che le donne greche, e in particolare le mogli, si trovavano in condizione di frustrazione, dalla quale dipendevano gli atteggiamenti nevrotici femminili, evidenziati nella letteratura.
La nevrosi delle donne bisbetiche è posta in gran risalto, e in particolare quella dell’emblematica sposa di Socrate, Santippe, è sottolineata da Platone ed è oggetto di scherno da parte degli scrittori satirici.
L’amore non era centrale nella commedia greca: solo Euripide, assieme a pochi altri, lo introdusse nel racconto e i contemporanei, tra cui Aristofane, gli rimproverarono questo “vezzo”.[51]

L’epoca romana

A Roma, in origine, la popolazione era avvezza alla frugalità e alla austerità, per cui il modello sociale fu la moderazione e la temperanza, con un diffuso puritanesimo. Quando Roma allargò i confini e divenne Caput Mundi[52] la popolazione finì per assimilare dai territori conquistati le raffinatezze del gusto e il rilassamento dei costumi.
Nelle viuzze prossime al Foro romano cominciarono a farsi vedere le donne di piacere. In quelle zone abbondavano gli schiavi, i miserabili, gli emarginati e si nascondevano i delinquenti. Alla fine del III secolo a. C. l’influenza greca in materia di eros si fece sentire nell’Urbe[53].
Gli imperatori romani dedicavano molto tempo a schiave e concubine e non mancarono nella storia romana avvenimenti politici determinati da vicende in cui il sesso era protagonista. Teodora, malgrado il suo passato burrascoso, fece innamorare Giustiniano che la sposò. Ciò permise all’ex prostituta di salire sul trono di Bisanzio e d’influire sulla direzione dello Stato.
Le donne romane passavano poco tempo in compagnia dei loro mariti, i quali vivevano per mesi o per anni fuori casa, per lavoro, per motivi politici o per le guerre. Il concubinato era una relazione parallela a quella matrimoniale, ed era legale se “onorato” dalla pubblica convivenza con una donna. Paradossalmente, quando la relazione era tenuta nascosta, era considerata ‘immorale’.
Il concubinato era un escamotage che veniva utilizzato per superare il divieto di unioni matrimoniali con schiavi, con attrici, con teatranti, con mezzane, con schiave. I romani ricorressero al concubinato, che, di fatto, rendeva possibile la convivenza con i liberti che non si potevano sposare. Le concubine ebbero pari dignità delle matrone, ma non erano considerate matres familias.
Nella Grecia classica e nella Roma dei Cesari non era osteggiata l’omosessualità. L’archeologa Luciana Jacobelli[54] afferma che le romane frequentavano assieme agli uomini gli edifici pubblici adibiti a solarium e a bagni. Ovidio, nella sua Ars amandi, suggerisce, alla raffinata e gaudente alta società romana al tempo di Augusto, l’arte di amare [55].
Molti imperatori, primo tra tutti Augusto, incoraggiarono con ogni mezzo legislativo ed economico i matrimoni e la costituzione di famiglie legali[56]
Tuttavia quella romana fu una società maschilista e schiavista, anche se permissiva e licenziosa. Le donne erano considerate oggetto di diritto ma non soggetti di diritto. Quelle che volevano influire sulle faccende dello Stato si accaparravano i favori dei politici che comandavano la res publica. Così tramite essi, le donne potevano manipolare elezioni, ed elevare ad alte cariche loro amici e parenti.
Tra le donne in carriera si ricorda Terenzia, che scelse per marito Cicerone, non perché innamorata, ma per calcolo. L’ascesa dell’avvocato Cicerone le consentiva di entrare nel giuoco del potere.[57]
E l’ambiziosa Fulvia cambiò marito per arrivare ai vertici dello Stato. Sposò prima Clodio, poi Curione e infine Marco Antonio e manovrò per anni la politica romana. Fulvia guidò con sapienza e astuzia Marco Antonio, quando salì al potere, dopo l’uccisione di Cesare (Idi di marzo del 44 a. C.). Ella era inflessibile con i nemici, e pretese da Antonio le teste mozzate di Cicerone e di Cesezio Rufo,[58] di coloro, cioè, che tentarono di ribaltare il suo potere.

L’Islam

Il profeta Maometto incoraggiò la poligamia per garantire la sicurezza alle vedove e agli orfani dei caduti nelle battaglie condotte dagli islamici. I seguaci di Maometto interpretarono la volontà del capo nel senso di poter sposare non solo quattro mogli, ma anche un numero imprecisato di concubine, a condizione che si fosse in grado di mantenere ciascuna donna impalmata.
I mariti islamici non apparvero davvero molto propensi a concedere alle donne “pari opportunità”, e tuttavia le islamiche, nei secoli passati, non hanno risentito della loro condizione di soggezione, tant’è che il sistema sessuale islamico ha fatto da modello fuori dai territori dell’Islam. Le canzoni d’amore, i racconti dell’harem, le tecniche contraccettive, l’utilizzo degli afrodisiaci, i precetti sessuali degli Arabi si diffusero fuori dai confini dell’Islam, alla fine del Medio Evo, quando pellegrini e crociati presero a conoscere la civiltà islamica.

Il Medio Evo: religione e sessualità

Se la sessualità era stata ritenuta perfino un mezzo di ascesa e di rigenerazione mistico-sacrale, in seguito il sesso non fu più accostato al sacro, né considerato una “elevazione dello spirito”. Esso finì con l’essere estraneo al patrimonio culturale dell’Occidente e considerato un atto profano e osceno. Afferma Roberto Vacca[59] che i divieti religiosi divennero veri e propri tabù. In origine[60] i dotti addirittura ritennero opportuno che tra marito e moglie non ci fosse trasporto amoroso, perché i sentimenti dovevano essere dedicati esclusivamente alla divinità.
Lo storico Giuseppe Flavio[61] racconta che gli Esseni avvicinavano le donne esclusivamente perché era l’unica possibilità per avere figli. Bandendo qualsiasi simpatia verso la femmina, essi trasmisero l’idea dell’inferiorità femminile, l’idea della peccaminosità del desiderio e della concupiscenza.
Filòne, filosofo ebreo-alessandrino, aveva della donna una idea negativa, perché la riteneva impura e inferiore all’uomo, tanto da ritenere che non potesse stare al cospetto di Dio.
Scrive però Elaine Pagels[62] che quando ancora la concezione misogina non aveva preso piede, vi erano donne che occupavano posizioni di prestigio nei gruppi cristiani e persino predicavano il Vangelo. Secondo lo storico Wayne Meeks[63] agli inizi, in seno alla cristianità, le donne erano tenute in grande considerazione. Esse avevano funzione di diaconi o erano considerate come compagne dai predicatori, e predicatrici anch’esse, in piena parità “evangelica”.
Tuttavia la misoginia ebbe il sopravvento. Nel 172 d.C., Taziano redasse una invettiva contro il paganesimo, e criticò la lascivia dei pagani.In seguito la donna fu considerata un essere pericoloso e la sessualità divenne un incubo. Il senso del peccato creò nella civiltà occidentale un forte senso di colpa, e divenne l’esperienza centrale.
Nel Medio Evo la sessualità venne ritenuta nociva per la salute perché si pensava che infiacchisse il corpo, tant’è che si consigliava di tenere lontani gli atleti da qualsiasi tentazione che «avrebbe prodotto uno spreco di energie».
Di qui, l’iniziativa di Oribàsio, medico bizantino del secolo IV d.C., che consigliava di evitare di far sesso al mattino, a digiuno e di notte. Nel II secolo d.C., Sorano, medico greco che esercitava a Roma, scrisse un trattato sulle malattie delle donne, e sostenne che «ogni emissione del seme dell’uomo nuoce alla salute» (1, 30-33)[64]. Si arrivò ad affermare che i bambini colpiti da gravi malattie, erano vittime dei peccati sessuali commessi dai genitori, tant’è che essi, pur essendo innocenti, ne pagavano le conseguenze!
Questi i presupposti che spinsero Costantino[65] a distruggere il tempio dove avvenivano riti sacri di fecondazione. Il vescovo di Worms, Burcardo, famoso giurista di legislazione canonica, scrisse, intorno all’anno Mille, un importante penitenziale con la pena corrispondente[66]: una vera e propria tariffa che doveva essere corrisposta dal pentito. Il penitenziale dettava anche pene per la contraccezione, per l’aborto, e per i “peccati di lussuria” le pene erano severissime.
È il caso di fare notare che nel Medio Evo l’omicidio per vendicare un grave torto subito era in ogni caso punito meno di un “reato sessuale”. Burcardo, pur condannando l’assassino, lo puniva con pene meno severe di quelle disposte per chi s’era macchiato di peccati sessuali.
I Catari ( o “puri”), eretici che tra il XII e il XIV secolo troviamo dappertutto in Europa, e in particolare nel Sud della Francia e nell’Italia del Nord, invitavano chi volesse seguire la loro fede non solo ad astenersi da ogni contatto sessuale, ma anche a digiunare, e in particolare a non mangiare carne, uova e latte e consideravano peccaminoso persino il lavarsi, ritenendolo un atto di lussuria.

Incoerenze e ambiguità medioevali verso la sessualità

L’atteggiamento della cultura era però ambivalente e contraddittorio. Malgrado le restrizioni, furono tenute in vita consuetudini pagane, tanto che si continuò a ritenere la nudità una pratica sacra.
Sant’Agostino, a tal proposito, riferisce che gli Adamisti (o Adamiti) setta gnostica del II secolo d.C. pregavano e celebravano i sacramenti completamenti nudi. Queste libertà, in alcune sacche sociali, come nel caso dei “Fratelli del Libero Spirito”, in Germania, rimasero operanti fino al XIII secolo, quando ancora costoro propagandavano il valore spirituale della nudità; e in Francia dove, un secolo dopo, i Piccardi ritenevano che la nudità fosse voluta da Dio per ristabilire la legge naturale.
Lo scrittore franco Eginardo, discepolo di Alcuino, ospite alla corte di Carlo Magno, scrisse una biografia, in cui tra l’altro raccontò che a quel tempo la gente amava stare in compagnia nel bagno, in costume adamitico. Alcuino conferma ciò che ha detto il suo discepolo, raccontando di avere discusso di teologia con l’Imperatore del Sacro Romano Impero in una grande vasca piena d’acqua, riscaldata e nudi entrambi.
Johan Huizinga,[67] grande storico del Medio Evo, afferma che l’aspetto più saliente di quel periodo era il modo contraddittorio dei costumi della gente, che profanavano la fede e le liturgie. Eustache Deschamps, poeta noto per le satire contro le donne e cantore degli inconvenienti del matrimonio, riferisce che nel Basso e nell’Alto Medio Evo vi era una forte commistione tra sacro e profano. Le Feste dei Pazzi, d’origine pagana, rappresentavano una sintesi di culto e di erotismo. La riunione iniziava nelle chiese, poi l’atmosfera diventava sfrenata e la gente si scatenava con danze sempre più disinibite
Lo storico Michele Amari[68] dopo avere analizzato questo clima psicologico, commenta: «a quel tempo, la morale(…) turbava le coscienze senza però correggere i costumi né pubblici né privati».
In questo clima, monaci e chierici mostravano lo spauracchio della perdizione eterna e sollecitavano l’astinenza, l’anacoretismo, l’ascetismo e la verginità.
Nei secoli precedenti la rinascita carolingia, i predicatori non videro di buon occhio che si amasse con ardore e dedizione un essere diverso da Dio ed invitarono le coppie ad astenersi da qualsiasi sentimento simile a quello che, invece, bisognava avere verso il Signore[69]. Pertanto la situazione ottimale da scegliere per evitare le tentazioni della carne era l’astinenza, propagandata come modello ideale. La castità infatti favoriva la preghiera e la dedizione a Dio.
Tertulliano, apologeta e scrittore latino del III secolo d.C., affermò che il celibato e la verginità dovevano essere preferiti al matrimonio e a qualsiasi relazione sessuale. La sociologa Franca Elsa Consolino[70] racconta che nel Medio Evo cristiano le donne sottostavano a severe ristrettezze affinché, grazie alla continenza, potessero salvarsi l’anima.
Scrive il Duby[71] che se il marito desiderava rapporti con la sposa e mostrava nel talamo smodati appetiti, era considerato colpevole di lussuria. Alla gente, era pertanto persino consigliato di non indulgere nella pulizia personale, per evitare troppi toccamenti.
Nel XIII secolo legioni di predicatori – domenicani, agostiniani e francescani[72]- specializzati contro i peccati della carne, andavano di borgo in borgo a predicare, a confessare, a lanciare anatemi contro la lussuria, il libertinaggio e le trasgressioni
Ma la morale del Medio Evo era ambigua e un filo sottile divideva trasgressione e repressione. Con la licenziosità dei costumi, aumentavano gli anatemi della Chiesa che predicava l’abbandono dell’uso dei piaceri. I preti formulavano previsioni sempre più catastrofiche sull’Inferno, e illustravano con dovizia di particolari le punizioni che il peccatore avrebbe subito anche in questa terra, indicando nei mali fisici e nei grandi morbi che affliggevano l’umanità il prodotto del peccato della carne. Si consigliava[73] ai coniugi di adottare la castità per lunghi periodi, onde favorire la preghiera che «altrimenti veniva messa in secondo piano dalla bramosia sessuale».
Si giunse ad affermare che la lebbra fosse il risultato della violazione di un tabù religioso[74]: i lebbrosi erano considerati figli di coloro che non avevano saputo evitare rapporti sessuali nei periodi vietati (la Quaresima, le vigilie delle festività solenni etc.).
E, come se non bastasse, secondo i predicatori medievali, la peste era causata dalle frecce dei quattro cavalieri dell’Apocalisse e rappresentava la condanna imposta all’umanità per l’esagerato uso del peccato sessuale.
La commistione tra peccato e malattie non fu solo una prerogativa del pensiero medievale: nell’Età Moderna, la sifilide fu considerata la maledizione per eccellenza causata dagli abusi della concupiscenza.

La prostituzione nel Medio Evo

Paradossalmente le prostitute non furono emarginate, perché si pensava che assolvessero ad una funzione sociale, salvando l’ordine collettivo. Anche la filosofia scolastica[75] ammise l’utilità del meretricio, che però doveva essere controllato dalle autorità, ma condannò ruffiani e protettori.
E se talvolta, come durante il regno di Luigi XI, meretrici, ebrei e lebbrosi furono considerati da esecrare e perseguitare, nella maggior parte dei casi alle prostitute fu concesso il diritto di esercitare liberamente la loro attività. A Parigi furono persino invitate a contribuire al pagamento di una delle vetrate di Notre Dame![76]
I bagni pubblici, nel Medio Evo chiamati “stufe”, e considerati la prosecuzione storica e sociale delle terme romane, ospitavano clientela maschile, e, in orari diversi, quella femminile. Ma accadeva che la separazione tra i sessi non fosse sempre osservata. Una tradizione, quella delle stufe, tanto cara al popolo, che durò a lungo e solo a partire dal secolo XVI scomparve in Italia e nelle nazioni europee, con l’avvento della morale protestante.
Nei secoli bui stupri collettivi nei confronti delle nubili indifese, delle vedove, delle prostitute e delle perpetue erano all’ordine del giorno. Le conseguenze di quella “esuberanza maschile” a volte erano gravi: quando la vittima era una nubile, ella perdeva valore matrimoniale e se era maritata veniva abbandonata dal marito. .

Fidanzamento e sponsali

Un tempo l’impegno al matrimonio ( sponsali) era importantissimo e poteva essere preso dai genitori anche senza il consenso dei futuri sposi. Infatti la volontà degli sposi non era necessariamente richiesta, dato che i genitori potevano fidanzare anche i fanciulli, ma Giustiniano fissò in questo caso l’età minima di sette anni.[77] Prima del Concilio di Trento dunque si configuravano gli sponsalia de futuro e gli sponsalia de presenti. Il consenso validamente espresso per gli sponsalia si riteneva efficace per il futuro matrimonio al quale in seguito davano seguito i fidanzati. Non solo, ma il consenso prestato al fidanzamento era anche un impedimento assoluto. Una volta avvenuto tale impegno non era possibile contrarre matrimonio con persona diversa dal fidanzato/a.[78] Gregorio IX stabilì che il fidanzamento detto sponsalia de futuro, seguito da congiunzione sessuale, prevalesse su un matrimonio contratto dopo con altra persona. Per cui il secondo veniva annullato, ed anche il fidanzamento-matrimonio detto sponsalia de presenti, se pur non consumato, invalidava un successivo matrimonio anche se regolarmente consumato[79].
Il fidanzamento dunque, soprattutto quello non contratto dalla volontà dei futuri sposi, ma segnato dalla volontà dei loro genitori, creava una specie di “camicia di forza”, perché il giovane o la giovane, anche se erano stati promessi fidanzati dai loro genitori, non potevano che contrarre nozze con i loro relativi promessi sposi. Qualsiasi matrimonio che il fidanzato o la fidanzata avessero voluto contrarre al di fuori degli sponsalia con altra persona era, come s’è visto, ritenuto nullo.
Alla fine del Medio Evo si diede un assetto giuridico al rapporto uomo-donna, con la distinzione tra impegno transitorio del fidanzamento (verba de futuro) e legame definitivo, il matrimonio (verba de presente). Si passò a poco a poco dal solo consenso del padre della sposa, sino ad allora il personaggio più importante nell’unione matrimoniale, al reciproco consenso dei coniugi.
Poiché se veniva meno il consenso, l’unione si scioglieva, per evitare matrimoni affrettati, si introdusse l’officiante. L’austerità chiesta dai tribunali ecclesiastici, impose alla gente di versare del denaro ad un prete perché celebrasse il matrimonio. La benedizione clericale legittimò una unione più duratura.
E così i giovani – sia perché il matrimonio era diventato un atto sacro, sia perché comportava molte incombenze, sia infine perché, a causa dei restrittivi precetti religiosi, non era un rimedio alla libido – si sposavano sempre più in tarda età, in ogni caso non prima dei venticinque anni.
Per soddisfare gli istinti, i giovani ricorrevano alle prostitute, alla violenza sessuale o cercavano donne sposate disposte ai tradimenti d’alcova.
In Normandia il matrimonio more danico consentiva di mantenere una concubina assieme alla moglie legittima. E i signori ostentavano la loro ricchezza anche col numero di donne di cui si circondavano.
Nel Medio Evo (e poi nel Rinascimento) il matrimonio era sovente un legame tra una giovanissima e un anziano; e poiché quasi tutti gli sponsali erano combinati, l’amore era del tutto assente.
Prima che il matrimonio religioso diventasse regola, la società non aveva rigide regole di convivenza, e perché un’unione fosse considerata matrimonio, bastava il consenso e il vivere assieme. La stipula del matrimonio era convalidata con disinvoltura e, fino all’inizio dell’età moderna, il legame era un impegno assunto in una straordinaria varietà di modi.[80]
Durante le feste dell’Epifania era possibile contrarre fidanzamenti in prova; soprattutto in Toscana, ma anche in altre regioni, i giovani d’ambo i sessi scrivevano i loro nomi su pezzetti di carta, che, tirati a sorte indicavano la formazione delle coppie. Coloro che si fidanzavano durante l’Epifania venivano chiamati befani e si comportavano come una vera coppia, e se la relazione era positiva, si passava alla convivenza matrimoniale.

I ‘Trovatori’ e l’amor cortese

Quando vennero meno i timori apocalittici del Millennio si ebbe una certa tolleranza e nel nuovo clima psicologico troviamo i rapsodi medievali che cantavano l’amore.
Poiché le castellane restavano senza la compagnia dei legittimi consorti, i quali passavano la loro esistenza lontano dalla famiglia, esse finivano per vivere in compagnia di un altro uomo: il ‘trovatore’, poeta e scrittore di canzoni d’amore[81]. In quell’epoca in cui le sfumature dell’amore, l’impeto della passione amorosa, la delirante fantasia degli innamorati erano – almeno ‘ufficialmente’ – sconosciuti, l’amore, in una accezione che potremmo oggi dire “moderna”, prese dunque le mosse dai versi dei trovatori, e dai giullari, che conoscevano l’arte della musica e recitavano e cantavano in versi e filastrocche la loro passione.
Le poesie dei trovatori musicate dai giullari determinarono un nuovo fenomeno, che si può considerare simile a quello moderno dei cantautori.[82]
L’esplosione di letteratura amorosa e di canti inneggianti alla donna, ridiede la gioia di vivere. In pratica l’amore più alto, l’amore poetico, l’amore vero, era una passione adultera e cioè quella de Trovatore verso la donna del suo signore. Molti secoli dopo, il Romanticismo si è impadronito di quei leggendari amor dei Trovatori, e favorendo l’intrigante intreccio dei sentimenti, ha esaltato una forma d’amore fantastica, irraggiungibile.
Scrive Salvatore Battaglia[83] che l’opera di Boccaccio fu tra le prime ad aprire una nuova dialettica tra natura e uomo. «Il Decamerone – sottolinea Battaglia – è la storia vivente dell’uomo, che interviene nel circolo dell’esistenza con le proprie energie naturali e acquisite (sensi, interessi terreni, voglie, immaginazioni, convenienze, astuzie, intrighi, simulazioni, espedienti, estrosa libertà)».
Con il Boccaccio, il personaggio umano si stacca dalla metafisica medioevale per affidarsi alla realtà empirica, fatta di una vitalità quotidiana, godereccia, mentre l’autonomia dalla divinità è rappresentata dall’ars amandi, dalla cultura dei colti trovatori del Medio Evo[84].
Curiosa, in questo periodo, l’esistenza di veri e propri Tribunali dell’amore[85]. Ve ne erano a Signe, a Pierrefeu, a Romanino, in Guascogna, in Aquitania, ed erano per lo più presieduti e gestiti da grandi dame della buona società del tempo (Bertranda d’Ugone, Rostanga di Pierrefeu, Berta di Signe, Alaleta di Ongle etc. etc.). Nella contea di Champagne ve ne fu uno famosissimo che si riuniva sotto la presidenza di Maria di Francia, figlia di Luigi VII e di Eleonora d’Aquitania. Il ‘lavoro’ del Tribunale dell’amore consisteva nel vagliare la liceità o meno di certe relazioni, nell’indicare il risarcimento – quasi sempre morale – dovuto alla rottura di un vincolo tenuto nascosto, nel rispondere a vari quesiti: è lecito per una donna amare contemporaneamente due uomini? è corretto per una gran dama, separata dalla sposo tornare a letto con lui, su sua richiesta malgrado una nuova passionale relazione?
Questioni d’onore e questioni d’amore erano dibattute in tali Tribunali e, sebbene i verdetti che ne venivano fuori avessero valore simbolico, trattandosi di assise senza autorità giuridica, tuttavia, chi si rendeva inadempiente alla sentenza, perdeva la reputazione.
In quel periodo i figli cadetti delle grandi casate furono in realtà vessilliferi dell’amore e della vita trasgressiva, e, sfidando gli anatemi che invitavano alla continenza, giravano per l’Europa in cerca d’avventure amorose. E ciò, in contrapposizione con i primogeniti, i quali erano costretti al matrimonio per mantenere o accrescere l’asse ereditario, che doveva restare unito.
Va da sé che l’istituto del matrimonio divenne un contratto che coinvolgeva i parenti degli sposi. Poiché spesso parenti e sposi vivevano tutti assieme, in una grande confusione di presenze, ciò non rendeva la relazione matrimoniale agevole dal punto di vista sentimentale. La privacy mancava del tutto e il rapporto di coppia, vissuto tanto “in pubblico”, non poteva certo essere intriso di intimistici ed esaltanti amori.
E questo sino a quando il Sinodo di Arles e Teralba[86]si scagliò contro le antiche usanze, che permettevano che dormissero nello stesso letto col pretesto della povertà e dell’angustia dei locali i giovanetti con le madri e le sorelle, le nuore con i suoceri, i generi con le suocere.
Questa la realtà: poiché cugini e cugine, zii e nipoti stavano stipati nelle povere case, e anche nelle ricche, si creava un ammassamento che costituiva motivo di variegati rapporti anche incestuosi. Tali contesti non erano certo incentivi al sorgere di sentimenti puri.
Solo i trovatori dedicavano all’amore e alla donna i pensieri più elevati, cantando sentimenti raffinati e nobili. Fu con l’amore cortese che cominciò una grande innovazione del rapporto tra i sessi, e portò a considerare la donna “un essere umano”. La donna, infatti da allora in poi fu considerata “anche” dal punto di vista affettivo e in qualche caso divenne anche l’amica del suo compagno. Nella lirica cortese la passione per la donna non fu solo una espressione poetica, ma l’esternazione di sentimenti reali.
Poiché a quel tempo la struttura sociale era basata socialmente e psicologicamente sul vassallaggio, anche il rapporto tra il cavaliere e la dama fu dello stesso genere. Nei documenti dell’epoca (attinenti alla figura giuridica del vassallaggio), la parola “amore” aveva il significato giuridico di “alleanza, patto, favore”; sicché tra dama e cavaliere si instaurò un’alleanza personale simile a quella del vassallaggio: il cavaliere, seguendo la sottomissione “vassallatica”, si inginocchia davanti alla propria dama per renderle omaggio e servirla.
Non tutti i trovatori furono come Folchetto da Marsiglia (o da Romans), il cui amore per Azalais, moglie del signore di Barre, non venne mai contaminato da rapporti carnali. Se la fama di persona oltremodo morigerata di Folchetto fu tale che Dante lo collocò nel Paradiso, altri trovatori avrebbero meritato – nella logica del tempo – le pene dell’Inferno per la licenziosità dei loro amori.
Nella realtà infatti, facilmente, l’intima unione spirituale tra cavaliere e signora si trasformava in un rapporto più “terreno”. Chrétien de Troyes, nel romanzo Erec et Enide, sottolinea il contrasto interiore che coglieva il trovatore diviso tra i doveri cavallereschi verso il signore e quelli dell’amore per la dama, moglie del padrone. Dopo un primo periodo in cui prevalse la tesi della fedeltà, in seguito i poemi esaltarono il cavaliere-amante che assolveva i “doveri d’amore” tradendo il signore e andando contro le leggi della cavalleria.
Questo il contesto in cui maturò il rapporto tra Lancillotto e Ginevra cantato nella leggenda della Tavola Rotonda: fu facile al cavaliere convincere la regina che non era disdicevole che un uomo amasse una donna, anche se era la moglie del re, e che era normale che il cavaliere fosse amato dalla signora.
Anche al trovatore Arnaut de Maruelh,[87] menzionato dal Petrarca, si attribuisce l’amore ardente per Adelaide di Tolosa, moglie di Ruggero di Béziers. Altri trovatori-amanti furono: Tommaso III, Marchese di Salluzzo, che scrisse l’emblematico Le Chevalier errant, Arnaut Daniel, detto Arnaldo Daniello[88], il quale godette della protezione di Riccardo Cuor di Leone e fu giudicato da Dante e Petrarca poeta capace e colto. E, tra i più noti, vanno ricordati Guglielmo d’Aquitania, Chrétien de Troyes, Jauffré Rudel, Pierre Vidal, che propagarono la loro maniera poetica di esaltare l’amore in tutta Europa.
In ogni caso l’ars amatoria dei trovatori – poeti in lingua d’Oc – pose fine all’antico disprezzo integralista nei confronti della donna.
Del fatto che le relazioni sociali tra uomo e donna a poco a poco divennero più spigliate, è testimone anche il Ruzzante il quale, con l’emblematica opera Betìa, folklorica vicenda non inconsueta per quei tempi, fotografa l’ambiente e precorre il nuovo spirito senza che nessuno se ne scandalizzi
Nel Medio Evo non furono solo gli uomini a cantare l’amore cortese; anche le trovatrici composero poemi d’amore, esprimendo gioia e passione nei confronti dell’uomo che amavano[89].
Tra le poetesse, la Contessa di Dia, sposa di Guglielmo di Poitiers, compose rime dedicate a Raimbaut d’Aurenga, del quale s’era follemente innamorata. Anche le trovatrici cantarono l’amore adultero e due poetesse, Azalis de Porcairagues, vissuta nell’XI° secolo, e Castellozza, che poetò un secolo dopo, espressero le loro passioni sensuali anche verso uomini sposati.
E così, amore ed eros diventano, grazie alla letteratura cavalleresca, protagonisti della vita quotidiana, tanto che Matteo Bandello, con il suo Orlando Innamorato, fa di questo sentimento il fulcro del romanzo cavalleresco. Ciò testimonia che, alle soglie dell’Era Moderna, l’amore è una forza esaltante anche se a volte è mostrata come vicenda frivola e capricciosa

L’ età moderna: ancora una doppia morale sessuale

Si è già detto che dalla seconda metà del ‘500, la Chiesa, per limitare i matrimoni affrettati e imposti dalle famiglie ai primogeniti o alle figliole e quelli contratti quasi per gioco, ordinò che vi fosse la presenza di un prete per la convalida del sacramento; per cui, da allora in poi, l’officiante divenne indispensabile.
Gli anglicani, invece, non riconobbero tale necessità, pur cercando di favorire il matrimonio e condannando il celibato. La confraternita belga dei Lollardi, nel secolo XIV, condannò il celibato come fonte di immoralità, di sodomia e di masturbazione.
Nel matrimonio gli sposi però non erano del tutto liberi: alcuni divieti imponevano il sesso come remedium concupiscientiae, ma bisognava evitare fornicazioni e posizioni sconvenienti.
Alcune confessioni ritennero inopportuno fare sesso durante le ore del giorno e i Metodisti proibirono i rapporti sessuali nelle ore in cui splendeva il sole, ritenendo che far ciò avrebbe violato un tabù. Secoli dopo, la ottocentesca morale vittoriana proibì l’attività sessuale la domenica e nelle feste comandate, giorni dedicati alla preghiera.
Dai diari pervenuti, dalle storie e dalle cronache appare però chiaro che in tutte le epoche si annida una doppia morale: quella ufficiale, austera e rigida e quella privata, flessibile e permissiva[90]. Lawrence Stone[91], nel descrivere la sessualità nel secolo XIV, con dati ricavati da una documentazione proveniente da un villaggio dei Pirenei, racconta che era molto praticato il concubinato. Reinhard Baumann[92], raccontando la vita quotidiana e i costumi dei più famosi mercenari europei della Germania meridionale, i Lanzichenecchi, mette in luce che quell’esercito era seguito da un considerevole numero di prostitute e di donne razziate durante i saccheggi.
Impareggiabile fonte d’informazione sulla società del secolo XVII in Inghilterra si è rivelato Samuel Pepys, scrittore inglese celebre, che nel suo Diario[93], narra i pettegolezzi, le scappatelle e la licenziosità della gente del suo tempo. Egli non nasconde che, malgrado lo strombazzato puritanesimo, la gente, nel XVII secolo, faceva il proprio comodo.
Resoconto interessante è pure quello dello scozzese James Boswell, amico del filosofo Hume , il quale visse nell’ambiente mondano londinese. Nel suo London Journal, redatto tra il 1762 e il 1763[94], tratteggiò le avventure extraconiugali proprie, dei suoi amici e delle donne che aveva conosciuto.
Un negromante e astrologo degli inizi del Seicento[95], Simon Forman, racconta nel suo Diario di aver sedotto molte delle clienti che andavano da lui a farsi predire il futuro: mogli di marinai, casalinghe frustrate, nobildonne in cerca di avventure, spose dei suoi più cari amici, giovani donne accasate a vecchi, servette e ragazze “intellettuali”. Altro racconto degno d’interesse è quello di Robert Hooke – fisico, matematico e naturalista – vissuto a Londra nella seconda metà del Seicento. Hooke, scienziato brillante che si occupò della teoria ondulatoria della luce, nel suo diario “mondano” narra di aver concluso un “contratto” con una certa Nell, la quale, in cambio di vitto, alloggio e quattro sterline l’anno, gli accudiva la casa, gli faceva da mangiare e s’impegnava ad andare a letto con lui almeno tre volte al mese.
Sylas Neville[96], cittadino londinese, tenne un diario molto accurato in cui narrò i propri peccati e quelli dei suoi amici. E lo storico Lawrence Stone[97] sottolinea che in Inghilterra, nei secoli XV-XVIII, non c’era alcun interesse per una scelta matrimoniale fondata sull’affetto. I balli, le partite a carte, le assemblee, i concorsi ippici, furono, per gli inglesi, occasione di corteggiamento e di feeling amoroso. Ciò accadde dopo l’imposizione, nel 1754 della legge del Marriage Act, secondo la quale i figli non potevano sposarsi senza il consenso della famiglia. Da quel momento i genitori non dovettero più temere, come accadeva prima, la stipula di matrimoni nascosti, o impegni senza il consenso della famiglia.
In Europa i matrimoni segreti come stabilito dal Concilio di Trento, non furono più riconosciuti legali; e i figli maschi che prendevano una sposa senza il consenso del padre erano automaticamente diseredati[98].
L’accasarsi era davvero un problema complesso e il matrimonio più che altro un rapporto economico, sicché solo di rado colmava il bisogno affettivo, soprattutto nelle donne.
Sempre più chiuso in rigide regole e in cerimoniali, il matrimonio combinato non soddisfaceva i giovani. La situazione non era rosea: se i maschi impalmavano una ragazza senza il consenso del proprio genitore, rischiavano di non ricevere alcuna eredità. In questo contesto, le più svantaggiate erano le giovani donne, costrette, per volere dei genitori, a sposare uomini attempati, ma ricchi. Accadeva infatti, che ragazze appena puberi venissero accasate con persone anziane, per risolvere il problema economico della figlia e anche della famiglia.
Di solito, non era altro che un legame tra un signore anziano, arrivato al culmine degli affari, e una giovanetta, dalla quale il marito, che ormai possedeva un patrimonio, voleva una buona discendenza per poter trasmettere le proprie fortune.
Il rituale prevedeva che il padre scegliesse lo sposo più adatto per la figlia, dopo di ché si procedeva a stilare il contratto senza consultarla. Finita la cerimonia marito e moglie si ritiravano nella camera in cui il letto nuziale era addobbato e ornato come una sorta di altare, incensato dal prete, perché i due fossero pronti al dovere coniugale. A quel punto gli sposi ricevevano la visita dei parenti, i quali facevano voti affinché continuasse la discendenza della casata, e la coppia potesse avere molti eredi[99]. Alla sposa non si attribuiva altra utilità se non quella di essere madre.

I cicisbei
Ma non tutte le donne accettavano la posizione subalterna. Non si sa se sempre su sua richiesta, certo si è che di riconobbe che la donna potesse avere bisogno di una certa spiritualità e si volle che, in maniera “asettica” e controllata, ella avesse una compagnia discreta e sicura, che tra l’altro, controllasse la sua moralità. Nacque così la figura del cicisbeo, ma per ironia della sorte, coloro che avrebbero dovuto essere i controllori delle donne, i cicisbei, furono i primi a corteggiare e a fare l’amore con le signore che tenevano in custodia.
Le aristocratiche furono affiancate da un cavalier servente, scelto dal marito, perché vigilasse su di loro in tutto e per tutto. Tale usanza iniziò con la figura del cicisbeo, che dal punto di vista letterario fece la prima apparizione nelle rime del cinquecentista Cesare Caporali.
Il termine pare derivi da una forma dialettale del termine fringuello, uccello caratteristico per la sua vivacità ed eleganza. C’è, invece, chi la fa derivare dal boccaccesco Chichibio, personaggio loquace e galante.[100]
I compiti del cicisbeo erano diversi: aiutava la dama nell’abbigliarsi, la seguiva in chiesa, a teatro e in ogni manifestazione pubblica e privata; le faceva compagnia durante le passeggiate e nei viaggi. In teoria il cicisbeo non avrebbe dovuto compromettere la virtù della dama, ma nella realtà condivideva i favori della signora come se fosse il suo legittimo sposo, il quale o era occupato negli affari o, magari era intento a servire a sua volta, in qualità di cicisbeo, qualche altra donna.[101]. La figura del cicisbeo arrivò ad essere legalizzata nel contratto matrimoniale nel quale, di solito, veniva indicato il nome del cavalier servente che sarebbe stato attribuito alla futura sposa.
Paradossalmente, il cicisbeato stabiliva un importante principio, che legittimava la promiscuità anche nell’ambito della famiglia, malgrado proprio in quei secoli (XVII e XVIII) la morale sessuale fosse dominata dall’idea del peccato e le forze religiose fossero impegnate a combattere la tentazione![102]
A partire dal Seicento, in un’Italia nella quale si teneva tanto in conto la fedeltà e la castità, fu permesso alle donne di vivere, in privato e in pubblico, a stretto contatto con uomini che non erano i loro mariti! Il Parini e l’Alfieri, l’uno ne Il Giorno, l’altro nella commedia Il divorzio, criticarono il cicisbeato. Ma molti altri ritennero quella istituzione alquanto utile: tra questi il critico letterario Giuseppe Baretti e il patriota napoletano Vittorio Imbriani. Specie quest’ultimo, polemista politico e letterario, arrivò nientemeno a dire che il cicisbeo era socialmente necessario alla donna.
Il cavalier servente è stata una figura emblematica e discussa, e allo stesso tempo una istituzione prestigiosa che nobilitava la figura femminile e che in qualche caso rimase ancora attiva fino al XIX secolo.
Quando George Byron nel 1816 giunse a Venezia, esule dall’Inghilterra, fece da cavalier servente alla contessa romagnola Teresa Gamba, una fresca ventenne, sposata all’ultrasessantenne Alessandro Guidocci[103]. Ciò prova che, essendo consueti i matrimoni in cui i due coniugi erano di età sproporzionatamente differente, era il cicisbeo che portava conforto alle spose malcontente. Byron, che era stato cavalier servente di molte dame, introdotto presso la casata dei Gamba, seguì le sorti di quella famiglia, quando essa venne colpita dal decreto di espulsione, perché di tendenze liberali e sospettata di tramare contro il governo papale. Egli si trasferì assieme ai suoi ospiti a Pisa ove continuò a far il cavalier servente della padrona di casa. E proprio a proposito della signora Gamba, il poeta, in maniera spregiudicata, scriveva alla sorella Augusta, definendo la sua ospite «una civetta, carina e abbastanza intelligente, con una buona dose di immaginazione e di passionalità»; ma non meravigli tale linguaggio: Byron era cinico con le donne e lo sapeva bene la sua giovane sposa, Annabella Milbanke, fuggita da casa poco prima che il poeta andasse via dall’Inghilterra, perché egli le aveva imposto la convivenza con la propria sorella Augusta Leigh, della quale era l’amante.
La psicologia del cavalier servente permane, in parte, anche oggi, sotto forma di galanteria, di corteggiamento e di seduzione salottieri. La galanteria, è una forma di ricercata cerimoniosità che si basa su complimenti gradevoli e piacevolmente arditi nei confronti delle donne; il corteggiamento, è l’assiduo susseguirsi di attenzioni e gentilezze tendenti a stimolare la simpatia e l’intimità della persona desiderata; la seduzione è, in fine, la capacità di influenzare una persona, con la forza del fascino, per indurla a rapporti intimi.

La sessualità nei contesti non-occidentali

Scriveva il pittore francese Paul Gauguin: «In Europa i rapporti sessuali sono il prodotto dell’amore; in Oceania l’amore è il prodotto dei rapporti sessuali».
Quando nel XV secolo le armate spagnole conquistarono l’America latina, Alessandro VI Borgia, nel concedere alla Spagna il dominio di quelle terre, pose la condizione, con la bolla Inter caetera, che gli indigeni fossero istruiti a “sani principi sessuali”. Infatti le popolazioni del Nuovo Mondo avevano comportamenti diversi da quelli europei e furono accusate di immoralità. Nessuno comprese, o volle comprendere che i Maya, le popolazioni del golfo del Messico e dell’Ecuador si comportavano secondo le loro regole più liberali,[104] simili a quelle della Grecia dell’Età di Pericle.
Per di più, gli Spagnoli con la scusa della pulizia etnica, finirono col cancellare quelle popolazioni. (Il paradosso è che, proprio a quel tempo, l’immoralità era molto alta in Spagna, ma, ipocritamente tenuta segreta, non veniva condannata).
Walter Hirschberg[105] riferisce che nelle coste orientali africane le ragazze di quelle regioni vengono istruite da una “kungwi”, una madrina, la quale le mette a parte delle questioni di sesso. Scrive l’antropologo Bronislaw Malinowski[106] che in Melanesia, arcipelago a Nord-Est dell’Australia, anche i fanciulli d’ambo i sessi ricevono un’educazione sessuale. In quelle regioni – sostiene Malinowski – il sesso è ritenuto uno degli aspetti naturali della vita. E, secondo l’autore, grazie a ciò, non si riscontrano forme nevrotiche derivate da problematiche di origine sessuale.
Sigmund Freud sottolineò un nesso tra il modo di vivere la sessualità infantile nella nostra società e il manifestarsi della nevrosi in età adulta. A riprova di ciò, Malinowski, afferma di non avere trovato nella permissiva comunità dei Trobriandiani tracce consistenti di nevrosi.
Nelle Trobriand, isole dell’arcipelago del Pacifico a sud della Nuova Guinea, la libertà produce una grande tranquillità nelle relazioni tra maschi e femmine. Libertà che non è tipica solo di quelle isole[107]: nella Guinea dell’Africa Occidentale, per esempio, le ragazze Bidjogo scelgono lo sposo dopo aver provato la sua arte amatoria. Nello Yunnan, periferica regione della Cina, sono le donne a scegliere con chi far coppia. In alcune regioni dell’Africa e dell’Oceania, la libertà è legata a particolari ricorrenze: i Nuba del Sudan, i Wodabe della Nigeria, e i Sara del Ciad, i Canachi dell’Oceania si comportano in modo disinibito in occasione di danze rituali. Nel Pakistan, i giovani di etnia Kalsch, ogni anno, in occasione del solstizio d’inverno, imbastiscono una pantomima con la quale vantano i loro attributi sessuali. Ed è appunto da queste manifestazioni che sorgono gli amori che indurranno al matrimonio.
Tuttavia anche presso le popolazioni indigene vi sono regole irrazionali e insulse[108]. L’etnologo scozzese James Frazer riferisce che un tempo la ragazze di Vancouver[109], raggiunta la pubertà, venivano collocate in una stanza dove rimanevano alcuni giorni senza vedere né il sole né il fuoco. Più le giovani restavano segregate più si ritenevano onorate, mentre erano considerate disonorate se vedevano, durante quella prova, il sole o il fuoco.
Sempre Frazer riferisce che il tabù del menarca, in Brasile, presso i Guaranì, era così rigido che la fanciulla che “ne era colpita” veniva avvolta in un telo, e costretta a restare in un’amaca per tutto il periodo della prima mestruazione.
Un’usanza simile vigeva anche a Kabadi, in Nuova Guinea, ove le figlie dei capi villaggio, all’età del menarca, restavano chiuse in casa per mesi in modo da non essere “contaminate” dal sole.
Riti particolari erano riservati anche alle fanciulle degli Banana,[110] che al momento del menarca venivano rasate e chiuse in capanne per un intero mese: alla fine della cerimonia, la ragazza doveva andare con un giovane scelto dal padre di lei. In quella occasione il giovane prescelto s’intratteneva non solo con la ragazza ma anche con la madre della prescelta. Gli indigeni del Nicaragua, dal giorno della semina a quello del raccolto del mais si astenevano da qualsiasi rapporto, convinti che avesse un negativo influsso sulla vegetazione.
Nell’antichità, nelle case di piacere giapponesi, durante gli incontri amorosi con la concubina, in camera da letto era presente una donna, la cosiddetta ojore, che impediva che l’amante ricattasse l’uomo.[111]
L’antropologa Margaret Mead racconta che gli abitanti di Samoa non si formalizzano per l’infedeltà e il maschio che si allontana da Samoa, è al corrente del fatto che, con ogni probabilità, sua moglie si farà consolare da un altro.
La fedeltà delle mogli, invece, è richiesta presso gli Yanoàma, ma non si procede a punizioni gravi se non è rispettata. Presso gli Esquimesi, secondo quanto riferito da molti antropologi, un tempo la gelosia era un sentimento del tutto assente. Marco Polo trovò che a Kamul, nel Turkestan, ai confini settentrionali della Cina, l’ospitalità comprendeva anche l’offerta della moglie,[112] usanza riscontrata secoli dopo, dall’antropologo H. Mihistral anche in Siberia[113].
Allo stesso modo, presso i Tukàno, popolo dell’Amazzonia, durante le feste del dabukurì, donne e uomini anche se sposati, in quei giorni sono “liberi da impegni matrimoniali”[114].
Anche presso i popoli primitivi non mancano tuttavia episodi cruenti di gelosia. Ettore Brocca[115] riferisce che presso i Namoeteri, al marito è lecito colpire con un bastone la donna fedifraga. In qualche caso sono le mogli che difendono il loro status sociale minacciato da un’altra: i Karawetari, quando vincono una tribù nemica, uccidono i maschi e s’impossessano delle femmine e le fanno convivere con le loro mogli; ma se un guerriero vincitore preferisce una prigioniera, o tenta di ripudiare la moglie, la femmina Karawetari si sbarazza dell’intrusa arrivando persino ad ucciderla.
La gelosia dei primitivi, come quella degli occidentali, può manifestarsi con grande crudeltà. Nell’Islam di oggi, la donna ritenuta colpevole di adulterio può essere condannata alla lapidazione. Ma non c’è da meravigliarsi: nella civilissima Età Bizantina, ai tempi di Giustiniano, creatore del famoso Corpus Iuris Civilis, l’adultera veniva fustigata e, se sopravviveva, era rinchiusa per sempre in un monastero.
Presso le Hawaii, esistevano singolari tabù sessuali. Nel diario tenuto nel 1778 dal medico della nave del capitano Cook, si narra che le Hawaiane allettavano con ogni tipo di seduzione i conquistatori; notizia confermata anche dall’antropologo americano Marchall Sahlins,[116] il quale ha riferito che in quelle isole, allo straniero si attribuivano caratteristiche divine, per cui le donne preferivano accoppiarsi con chi veniva da paesi lontani, perché la prole beneficiasse dei vantaggi della divinità. James Cook, identificato dagli Hawaiani col dio Lono, venne considerato un essere ancestrale! E poiché presso quelle popolazioni spettava alle femmine attirare i maschi, ritenuti forze generatrici, le isolane si offrivano agli inglesi convinte di ricevere da quei marinai la sostanza ultraterrena idonea a generare figli simili agli dei.
Sahlins spiega che anche presso gli hawaiani esistevano singolari tabù sessuali; uno di questi era che maschi e femmine non potevano mangiare assieme. Gli inglesi, ignorando questa usanza, si rifocillarono alla stessa tavola delle hawaiane, cosa che rese diffidenti i maschi del luogo. Altra infrazione commessa dai conquistatori fu l’aver regalato alle donne braccialetti e monili, usanza del tutto vietata dalla morale e dalla religione del luogo. E così, per tali trasgressioni, la convivenza tra i sudditi di Sua Maestà britannica e gli abitanti delle Hawaii subì un duro contraccolpo.
Nelle popolazioni dell’Alto Rio Negro, in America del Sud, e nei Kohorosciwetari del Rio Maturakà, gli uomini contraggono matrimonio con delle bambine, ma attendono che raggiungano la pubertà. Qualcuno, addirittura, può decidere di avere per moglie una donna che non è ancora nata ma che possa nascere da una coppia conosciuta; in quel caso l’uomo offre dei doni e si candida promesso sposo.
Presso gli Yanoàma e i Waika del Rio Caubur l’uomo si lega a più mogli, tra cui alcune quasi bambine. Nel popolo degli Indi (o Indios) la verginità femminile non è richiesta dallo sposo; anzi, presso alcune tribù delle società sud americane dello Yanoàma, o dell’Orinoco, quando le bambine arrivano all’età della pubertà vengono deflorate dalla loro madre, perché non abbiano a subire un trauma se dovessero essere violentate nella jungla. Questo rituale eviterà “il trauma della deflorazione matrimoniale”. Gli uomini della tribù marind-anim della Nuova Guinea praticavano l’omosessualità e a malincuore andavano con le donne: lo facevano solo per potere avere dei figli[117].
Anche nelle popolazioni turcomanne e presso i Soyot, Robert Bleichsteiner[118] riferisce che i rapporti prematrimoniali delle ragazze non sono giudicati con rigore. E in Tibet, afferma lo stesso autore, ancora agli inizi del ‘900, si trovava non solo la poligamia, ma anche la poliandria, perché la donna sposa, assieme al marito, anche i fratelli più giovani di lui.
Annota Teo Korner[119] che in Indonesia, presso gli abitanti delle Andamane, alle ragazze prima del matrimonio era concesso che potessero avere liberamente rapporti sessuali.
La poliandria è stata praticata nelle Filippine presso le popolazioni Alune fino a non molto tempo addietro. In quella regione l’ordinamento sociale presenta singolari elementi matrilineari: cioè capi e sciamani sono spesso delle donne.
In molte regioni dell’Oriente alla sessualità si presta la dovuta attenzione.
In India – come è dimostrato anche da ampie testimonianze artistiche – è considerata con rispetto. Nella tribù indiana dei Muria, popolazione dell’antico stato del Babstar[120], in una capanna all’uopo edificata, ragazzi e ragazze Muria s’incontrano per “esercitarsi a fare all’amore”.
Anche l’Induismo, basandosi sull’autorità dei Veda[121], privilegia l’artha, cioè il benessere materiale e il kama, il piacere e l’amore. Nell’India, l’arte d’amare è codificata in antichi manuali ed è considerata un dovere religioso ed un mezzo per migliorare la propria condizione esistenziale. Il Kama Sutra, scritto intorno al V secolo d. C., propaganda una grande libertà, fondamentale per l’equilibrio psicofisico.
Il popolo cinese sin dall’antichità sviluppò una visione naturale a tal proposito. Il Taoismo promette ai suoi seguaci un’esistenza lunga e felice, e riconosce alla sessualità caratteristiche di atto gioioso che rafforza il corpo e lo spirito. Il Tao ravvisa nella congiunzione l’equivalente umano delle forze cosmiche yin e yang e così l’armonia del cosmo è rappresentata anche mediante il rapporto sessuale.
Inoltre, in Cina, libri che insegnano la sessualità non erano vietati né passati sotto silenzio, ma ritenuti di alto valore umano e morale. Durante la dinastia Ha (206 a.C.- 24 d.C.), questi libri, corretti più volte nei secoli, con il titolo di Libri sulle Arti dell’Alcova, venivano regalati in dono di nozze sia alle donne che agli uomini. Lo scrittore cinese Po Hsing-chien, poeta dell’epoca Tang, scrisse un saggio per “consigliare” i partner.
Durante la Rivoluzione culturale maoista, l’amore fu attaccato dalle forze più radicali, essendo ritenuto un prodotto della borghesia. Mao propugnò, al posto dell’amore, una maggiore libertà sessuale, ma in seguito predicò l’astinenza per limitare le nascite.[122]
In Giappone i legami tra uomo e donna sono basati sul rispetto, sulla simpatia, e sulla cooperazione. La passione non è ritenuta essenziale per la riuscita della coppia. In Giappone, nel passato, v’è stata una certa riluttanza nei confronti dell’amore, ritenuto un sentimento sconveniente. Infatti, tra il XVII e il XIX secolo (Epoca Edo) in Giappone l’amore era una prerogativa delle geishe e delle oiran (cortigiane) alle quali gli uomini concedevano i loro sentimenti.

UOMO E DONNA, UN LEGAME COMPLESSO

Parte seconda[123]

LA COPPIA:USANZE NEI SECOLI

Monogamia e poligamia

A parere di alcuni antropologi, la monogamia garantirebbe meglio della poligamia l’allevamento della prole e pertanto avrebbe caratterizzato gli stati più remoti delle esperienze umane, diventando in seguito, di conseguenza, il principio più diffuso in materia di unione tra maschio e femmina.
Secondo due endocrinologi, Tom Insel e Larry Young, dell’Università statunitense di Atlanta, questo bisogno di un legame stabile avrebbe addirittura una base genetica e dipenderebbe dalla vasopressina, un ormone che, tra l’altro, regola le attività renali. Lo studio dei due ricercatori, pubblicato nella rivista Nature dell’Agosto 1999, afferma che la vasopressina si trova in maggior misura nei monogami topi campagnoli, mentre non si risconterebbe in quelli di montagna. Insel e Young hanno inserito un frammento del Dna dei topi campagnoli (monogami), nel codice genetico di quelli di montagna, dopo di che i topi di montagna hanno esternato un maggior bisogno di ‘compagnia stabile’, caratteristica mai riscontrate prima in quella specie.
Però, da qui a ritenere d’aver trovato il “gene della fedeltà” il passo è un poco azzardato, perché le relazioni affettive umane sono determinate anche da complessi fattori culturali, sociali, religiosi e morali. Tuttavia, l’esperimento induce a non scartare l’ipotesi dello psicologo evoluzionista americano Robert Wright, il quale afferma che al tipo di relazione di coppia contribuiscono anche fattori bio-genetici.
Secondo un’altra ipotesi, quella di Viviana Kasam[124] e di altri antropologi quali M. Mead[125], Havelock Ellis[126], J. G. Frazer[127] la monogamia nella preistoria era ignota ed essa si consolidò solo più tardi, col concetto di proprietà. Nella preistoria le femmine provocavano la competizione tra maschi in modo da scegliere di anno in anno il più robusto e ciò per garantire migliori probabilità al miglioramento della specie. L’usanza filogenetica, dice l’antropologa Mariane Ferme[128], della propensione a cambiare partner è rimasta anche nella nostra epoca. Una certa propensione alla poligamia, secondo questi autori, rimase, e ancora oggi, de facto, nella società vi è tendenza ad intrattenere più relazioni.
Anche nella Bibbia sono narrati episodi di poligamia senza destare scandalo. Giacobbe aveva mogli e concubine e le spose e le amanti di Salomone erano novecento. Abramo, sollecitato dalla consorte Sara, giacque con una schiava per avere quel figlio che la moglie non riusciva a dargli.
L’ipotesi della Kasam è avvalorata anche dal fatto che anche in epoche recenti troviamo la poligamia. Essa era attiva presso gli Unni: Attila aveva trecento mogli, e poligamo era stato il suo predecessore, Rua, il quale avrebbe avuto cento donne nel suo harem.
Carlo Magno, eletto dal papa capo del Sacro Romano Impero, fu un patriarca poligamico. Il re dei Franchi era circondato da concubine, mogli e amanti e, per onestà, fu tollerante in fatto di sesso, con le proprie figlie: infatti non si adirò con loro pur conoscendone le molteplici relazioni extraconiugali.[129] E quando Berta e Rotrude ebbero dei pargoli fuori dal rapporto matrimoniale, “nonno” Carlo prese con sé i nipoti illegittimi perché fossero curati amorevolmente.
L’imperatore Federico II, poligamo, amò in modo romantico Bianca Lancia, dalla quale ebbe un figlio, Manfredi. E tuttavia egli non disdegnava altre donne, sicché ebbe molti figli naturali, tra i più noti, Enzo e Federico d’Antiochia, capi ghibellini.
I preti cattolici di Maupardit (Sudan) riferiscono[130] che ancora oggi molte tribù sono poligame. L’antropologa Mariane Ferme ha rilevato, tra la Liberia e la Sierra Leone, un certo Bokari, capovillaggio della popolazione dei Mende, che vive in poligamia e che è ritenuto dalle sue moglie un buon marito, «perché trova sempre da mangiare per tutte noi e per i nostri figli».
L’antropologa ha chiesto alle mogli se fossero gelose ed esse hanno riposto con un no secco. Esse si aiutiamo tra di loro: quando una è malata, un’altra la sostituisce e se qualcuna non può accudire i propri figli, sarà un’altra a prendersi cura dei bambini. Bokari non è un caso isolato: in Africa personaggi come lui sono comuni.
Nel Camerun, per esempio, il capo dei Bana, Hapi IV, intervistato da una troupe francese, ha mostrato con orgoglio le sue diciannove mogli. In un documentario di Rai 3 (Geo-magazine del 24 agosto 1999), è stata mostrata in Papuasia la vita di Ghunta, un capo famiglia che ha 11 mogli e circa sessanta figli. La sua famiglia consuma giornalmente circa 250 kg di patate dolci e per acquistare le vettovaglie sono tutti impegnati a coltivare tabacco nelle terre della famiglia, che il capo ha suddiviso fra le undici mogli. Parlando dei suoi sentimenti, Ghunta da detto: «Con le mie prime otto spose, è stato vero amore, con le ultime tre invece, avendo io oramai settantatré anni, non sempre le cose vanno bene»
La poligamia, anche oggi, come in passato, nelle regioni più povere della Terra, serve ad avere manodopera fidata, costituita cioè dai figli, e a basso prezzo; e poiché non è possibile avere molti figli da una sola donna, i capi tribù li ottengono da più donne.
Una usanza curiosa è quella del nord-est del Nepal, per cui le ragazze giovanissime sposano uomini, che in tanti casi sono tra loro fratelli; e questo per avere più mano d’opera per la propria famiglia. I capi dei Ning Ba, con questo espediente, si procurano lavoratori a buon prezzo e consentono alle loro figlie di avere una varietà di maschi. In certe famiglie Ning Ba, è frequente che una figlia conviva con cinque o sei mariti, e si tratta anche di mano d’opera che lavorerà per la tribù
La poligamia è stata praticata di fatto anche in Occidente dalla nobiltà e dai regnanti.
Enrico IV di Francia, fondatore della dinastia dei Borboni, sposò Margherita di Valois, poco prima della strage degli Ugonotti. Il re cambiò religione ben sei volte nella sua vita, ed ebbe una variegata vita sentimentale, mantenendo contemporaneamente numerose amanti che gli diedero tanti figli illegittimi.
Anche il nipote di Enrico IV, Luigi XIV di Francia (il re Sole), tenne un numero imprecisato di donne contemporaneamente. Il Re Sole non ebbe solo amanti “ufficiali e stabili”, ma ebbe rapporti sessuali con moltissime donne, tra cui le nipoti del cardinale Mazzarino, Olimpia e Maria, e fu padre di tanti altri figli, avuti anche dalle sue amanti. Monarca cattolicissimo (ogni giorno ascoltava almeno una messa) fu un poligamo incallito, anche se generoso, perché legittimò tutti i figli che ebbe, tenendoli altresì con sé a corte.
Da statistiche UNESCO del 1998 si evince che la poligamia è praticata da un quarto della popolazione del Terzo mondo e in certe popolazioni anche in Occidente, come nel caso dei Mormoni, che pur mantenendo la moglie più anziana, sposano anche qualche donna giovane. Del resto, dobbiamo considerare che un miliardo di islamici non ritiene sconveniente la bigamia. In Cina per oltre duemila anni, prima della rivoluzione di Mao, era considerato “un vero uomo” chi oltre alla moglie poteva mantenere anche una concubina.
La bigamia è invece considerata dalla Chiesa un crimine grave, in quanto viola il sacramento matrimoniale. Nel ’500 il Concilio di Trento si era scagliato contro le unioni matrimoniali clandestine perché potevano occultare la bigamia. Nell’Inghilterra, agli inizi del Seicento, la bigamia venne giudicata un reato grave e condannata severamente. In Francia, nello stesso periodo, veniva punita con la pena capitale.
Con l’avvento della Rivoluzione Francese s’introdusse il divorzio; ma per quanto riguardava la bigamia continuarono ad essere comminate pene detentive severe. In seguito, malgrado il Codice Napoleonico del 1810 abbia ridotto le pene, la bigamia continuò ad essere considerata “ufficialmente” moralmente inaccettabile, anche se, malgrado ciò, nell’Europa dell’Ottocento, soprattutto le relazioni extraconiugali furono molto comuni.
Fu la classe più povera quella che ricorse più d’ogni altra alla bigamia, a causa delle migrazioni di lavoro. In Francia, tra il 1885 e il 1894, furono accertati sessantasette casi di bigamia. In Italia, nello stesso periodo, a causa delle grandi emigrazioni dei maschi verso gli Usa e l’Europa, il numero dei bigami fu considerevole e molti di questi reati non furono neppure denunciati.
Il fenomeno è stato frequente, difatti, nel XIX secolo soprattutto tra le classi con lavoro precario[131]. Gli uomini che andavano via da casa per lunghi periodi inevitabilmente vivendo in terre lontane subivano un periodo di sbandamento. Mentre il matrimonio in patria si congelava, molti emigranti ricostruivano un altro focolare in terre lontane. Per far ciò, mentivano all’officiante sul proprio status civile, e solo così potevano prendere un’altra moglie nella nuova nazione.
Ma se la poligamia è facilmente individuabile, essa è ben difficile da quantizzare. Il termometro della trasgressività è il dilagare della prostituzione alla quale si rivolgono maschi spesso ammogliati. Inoltre la monogamia è spesso disattesa dalle “trasgressioni della coppia”. Luciano Ballabio[132] afferma che la trasgressione è una minaccia reale alle relazioni sociali della vita moderna. Alcuni psicoterapeuti però, come Carotenuto[133], Schelotto[134], Mangulis e Sagan[135], pur ritenendo che la trasgressione possa minacciare l’equilibrio sociale ( tant’è che a volte il rapporto nascosto può essere motivo di stress e una minaccia reale alla salute del singolo), hanno rilevato tuttavia, paradossalmente, che in qualche caso la trasgressione ha avuto una qualche funzione “terapeutica”, imprimendo una sferzata d’entusiasmo ad una persona depressa. Lo psicoanalista Wilhelm Reich[136] afferma che la gelosia è un corollario ‘perverso’ del concetto di proprietà e che le persone gelose vivono meno bene e con più problemi di coloro che lo sono meno. C. R. Rogers[137] ha osservato che oggi si ritiene sempre meno d’avere un “diritto di possesso” sul partner, perché questa convinzione in qualche caso ha dato risvolti negativi. Anche la psicologa Jole Baldaro Verde[138] sostiene che dare per scontato “il possesso” del partner, come accadeva nell’800 o agli inizi del ‘900, è un convincimento anacronistico che può indispettire. Infatti a volte, essere oggetto di un amore invadente non sempre può essere una gioia, perché in quel caso non è un sentimento altruista: esso può diventare una schiavitù e può far soffrire non solo sia chi ama ma anche chi è amato. Secondo Silvia Di Lorenzo,[139] se il rapporto è oppressivo, si crea un’atmosfera “pesante” ed allora, a meno che non vi siano delle “distrazioni”, il ménage non può che diventare un’ossessione.
Elizabeth Joseph, dirigente del Now, (National Organization for Women), sostiene che la trasgressione nei paesi industrializzati e nella società del terziario è aumentata a causa della promiscuità lavorativa. La sociologa Helene Fisher[140], confrontando il rapporto di coppia negli anni Cinquanta del XX secolo con quella della fine del XX secolo, sottolinea che la rivoluzione degli anni Sessanta e la permissività degli anni Novanta hanno cambiato la dinamica psicologica.
Joe Baldaro Verde ritiene che si è infedeli anche sul piano del pensiero, dell’immaginazione, del non detto, del non osato o non fatto ma del desiderato; quindi si chiede provocatoriamente se è infedele solo chi passa dal desiderio alla realizzazione, oppure lo è anche chi desidera trasgredire e non ha il coraggio di farlo.
Alcune inchieste[141] dimostrano che le storie sentimentali extra-coniugali hanno inizio il più delle volte nei posti di lavoro, perché l’assidua frequentazione favorisce l’attrazione soprattutto tra quei colleghi che in qualche modo sono insoddisfatti del proprio ménage.

Storia dell’istituzione matrimoniale

La storia del matrimonio e la storia dell’amore non sono parallele. Nell’antichità spesso i maschi razziavano le femmine di altri villaggi. Nella mitologia greca la forma più consueta di matrimonio era consacrata dal rapimento: si ricordi il rapimento di Persefone e le vicende delle Leucippidi, rapite dal sacro recinto di Afrodite.
A Roma Fidio il dio della alleanze matrimoniali era in combutta con Giunone, detta ‘pronuba’. Imeneo era, invece, il dio che presiedeva alle nozze, e Tesmafora (o Demetra) la dea che regolava le leggi matrimoniali.
Gli sponsali ( e conseguenti matrimoni) avvenivano per motivi economici, politici o di difesa, raramente per amore. Tra i nobili la scelta non era dovuta a sentimenti, ma a ragion di Stato, per cui il signore dedicava le proprie attenzioni a cortigiane e ad amanti.
Nel periodo romano, esisteva la maritalis affectio[142] che serviva a rimediare alla caduta del sentimento. Il patto patrimoniale romano restava in vita, secondo questa norma, solo quando vi era l’espresso consenso delle parti. Per separarsi bastava che fosse finita la maritalis affectio e il ménage aveva termine.
Nella storia dell’umanità, si configurano due tipi fondamentali di matrimonio, endogamico e esogamico.
Il primo avveniva fra persone dello stesso gruppo familiare e costituiva uno strumento di solidarietà all’interno di ogni clan. Nella Genesi, si trovano vari esempi di legami endogamici; lo stesso rapporto tra Adamo ed Eva, nata dalla costola dell’uomo col quale era destinata a giacere, è endogamico. Altri esempi biblici di unioni endogamiche: Abramo sposò la sorellastra; Isacco sposò Rebecca, scegliendola nella cerchia dei parenti più stretti, e Aram, il padre di Mosè, sposò una zia.
Nelle famiglie reali del Siam, di Ceylon, del Madagascar, dell’Egitto, della Polinesia, e di altri paesi, era favorito il matrimonio tra consanguinei.
Nelle culture in espansione il matrimonio esogamico serviva a barattare una femmina del proprio gruppo con un pezzo di terreno o con un animale dell’altro gruppo o per avere una alleanza tra tribù diverse.
L’utilità era evidente e ciò a poco a poco comportò la necessità di rendere questo matrimonio l’unico possibile. Con la fine dell’endogamia, venne meno la solidarietà all’interno del clan. Da ciò anche l’orrore del rapporto tra consanguinei.
In passato si ebbero anche matrimoni di gruppo e matrimoni collettivi. Quello di gruppo si riscontra ancora presso le popolazioni Nair, i Toda dell’India e in vari popoli primitivi dell’Australia, dove i maschi di un clan usano sposare le femmine di un altro gruppo.
In quanto al matrimonio collettivo, con esso quando una donna si unisce in matrimonio, non sposa un singolo uomo, ma tutti i maschi che hanno vincoli con il marito.
Assimilato al matrimonio collettivo era il pirrauru, in uso presso i Dieri dell’Australia, e dell’eriam presso la popolazione dei Bartle Bay della Nuova Guinea[143].
Il matrimonio preferenziale, il matrimonio con la vedova del fratello è ancora praticato in qualche regione dell’Africa e dell’India. Presso i Pigmei del Congo e nella tribù Mao dell’Etiopia è in uso il matrimonio per scambio, col quale gli uomini scambiano ai fini matrimoniali le rispettive sorelle.
Un tempo presso gli Sciiti, i Sunniti e alcune tribù africane era consentito il matrimonio stagionale, così come il matrimonio a prova, per cui l’unione era valida solo se la donna si mostrava in grado di proliferare[144].
Nell’antichità il matrimonio aveva usanze che oggi non sono più accettate: in Cina e in Giappone per esempio poteva avvenire anche in età infantile, in Persia era consentito anche quello tra consanguinei, in India era imposto alla vedova di perire nel rogo del marito. Presso i Celti e i Germani la moglie era considerata un oggetto che veniva passato ( res tradita) dai genitori della donna allo sposo. In Grecia le forme più antiche di unione matrimoniale avvenivano tramite il ratto.
Presso i Romani il matrimonio era considerato indispensabile per lo Stato in quanto serviva a far nascere giovani che dovevano essere il nerbo delle legioni romane. Per tal motivo, nell’antica Roma, le regole per il matrimonio erano facilitate: bastava l’intenzione dell’uomo e della donna di essere marito e moglie ( honor matrimonii) che l’unione era perfezionata in matrimonio. In seguito, però, durante l’Impero,la legislazione romana fu molto rigida in materia matrimoniale.
Nei primi secoli dopo l’avvento del Cristianesimo, l’istituzione matrimoniale non fu ritenuta un legame importante. La Chiesa delle origini riteneva valida qualsiasi tipo di unione, purché basata sul beneplacito dei coniugi. Essa diede efficacia anche ai matrimoni che venivano contratti senza le minime formalità richieste, purché vi fosse la volontà dei coniugi di vivere una unione sacrale. Durante il Medio Evo i rigori giuridici concernenti l’uso del matrimonio si allentarono rispetto al periodo dell’Impero Romano e, dal punto di vista psicologico, soprattutto in Italia e in Francia, i rapporti tra moglie e marito erano considerati in maniera diverse se si trattava di persone altolocate o di gente comune.
Il legame coniugale affettivo tra nobili era quasi inesistente: infatti il matrimonio tra persone autorevoli era celebrato per avere una discendenza, mentre quello che avveniva tra popolani a volte era motivato anche da trasporto e simpatia[145]. Di solito, dunque, il matrimonio tra persone altolocate non aveva nulla a che vedere con le esigenze sentimentali, dettato com’era esclusivamente da opportunità economiche o dinastiche. I nobili passavano poco tempo in compagnia delle loro mogli. Gli artigiani e i popolani, vivendo fianco a fianco con le mogli, entravano più spesso in conflitto con le loro donne e venivano frequentemente accusati di percuoterle.
Anche per quanto riguarda la prole, v’era una gran differenza tra i matrimoni dei ricchi e quelli dei meno abbienti: i figli degli artigiani e della povera gente venivano allattati dalle madri, i figli dei nobili, appena nati, erano dati in custodia alle balie nelle cui case rimanevano per due o tre anni.
Nelle epoche passate i problemi di cuore, evidenziati ai nostri giorni, non avevano peso: ciò che più importava era che nascessero dei figli legittimi, utili come manodopera e che dessero un aiuto ai genitori nella vecchiaia. Insomma, in ogni caso, il matrimonio serviva agli affari, e non alle tenerezze e agli affetti. All’interno delle caste di lavoratori, nell’ambito delle corporazioni dei mestieri, il matrimonio era ritenuto sconveniente se i coniugi non erano della stessa corrente commerciale.
Dopo il Concilio di Trento, per sposarsi bisognava andare davanti al parroco, il quale, udite le volontà dei contraenti, li univa pubblicamente in matrimonio. Spesso però la donna non era oggetto di grande peso e considerazione nell’unione matrimoniale. Dal Settecento in poi che anche la moglie ebbe voce in capitolo, così come la ebbero i figli, qualche tempo dopo, a partire dalla seconda metà del XX secolo.
Per secoli il rapporto matrimoniale rimase a sfondo patriarcale e patrimoniale, ma all’indomani del Concilio di Trento nessuna unione poteva essere considerata valida senza il consenso degli sposi. Tuttavia, nel Seicento e nel Settecento la pratica dei matrimoni combinati non cessò, per cui la volontà dei giovani spesso era una pura formalità. Nell’Ottocento, una pregiudizievole complicò l’esercizio della libera volontà dei giovani e fu l’insorgere dell’imperioso moralismo che finì per riconsegnare ai genitori e ai parenti la gestione del matrimonio dei figli.
Inoltre trattandosi di un sacramento, per rendere anche civilmente l’unione ben salda, non bastava il semplice “consenso di natura psicologica”,[146] ma si doveva certificare con un contratto di natura giuridica. Un controllo la Chiesa lo esercitò anche sugli impedimenti matrimoniali: era impossibile dopo il Concilio, contrarre matrimonio tra consanguinei senza dispensa ecclesiastica.
Sarà solo nel XX secolo che le scelte matrimoniali terranno in conto le esigenze del cuore. Il Novecento aprì una nuova prospettiva nella scacchiera del matrimonio: fu richiesto il sentimento.
Scrive C. G. Jung[147] che nell’unione di coppia, quando si trovano caratteri e modi di pensare diseguali, può accadere che vi siano valori importanti per un partner disattesi dall’altro. E ciò accade anche nelle unioni tra partner di nazionalità o di fedi diverse, e se da un lato l’unione tra individui di etnìe e religioni dissimili può essere occasione per capire nuovi valori, d’altro può evidenziare difficoltà ed incomprensioni.
Secondo Rosalba Terranova Cecchini e Mara Tognetti Bordogna[148], in questi casi le incomprensioni si evidenziano quando i partner assegnano un diverso valore ai rapporti, ai sentimenti, e agli interessi culturali e alle scelte religiose. Questi stessi disagi sono presenti nelle coppie che pur provenendo da una medesima cultura non hanno un’omogenea base di interessi e una convergenza di gusti, sicché l’attrazione sessuale da sola non può far superare le crepe della relazione. Amarsi è reinventarsi come persone, capirsi, avere gli stessi gusti.

Ritualità nuziali.

Anche la ritualità nuziale oggi è meno rigida. A Manhattan, per esempio, anche il bouquet può essere preso a noleggio dagli sposi e la musica di rito si ottiene introducendo una moneta nel box e premendo un pulsante, sicché, dopo qualche secondo, vengono fuori le note di un motivetto nuziale, la cui durata è più o meno quella dell’intera cerimonia di nozze, vale a dire tre o quattro minuti in tutto. Nel municipio della Grande Mela, ogni giorno centinaia di coppie in jeans, con zainetto a tracolla e con in mano un mazzo di fiori preso in affitto, si presentano al delegato del sindaco, si sposano e via. E non solo a New York, ma anche nell’ex Unione Sovietica, nell’Australia, nell’Inghilterra, nella Polonia, nelle sale pubbliche dei municipi, oggi, coppie di giovani, dopo aver pagato la tassa di rito relativa alle nozze, attendono il turno senza particolare emozione.
L’impegno matrimoniale è diventato dunque sempre più superficiale? Questa forse la ragione per cui il sociologo Francis Fukuyama, ex analista del Dipartimento di Stato americano, nel suo saggio The End of Order[149], cercando di spiegare le cause della scarsa durata dei matrimoni odierni, e del conseguente aumento del numero di coniugi separati, afferma che il divorzio non è solo una prerogativa delle fasce sociali medio-alte ma è anche comune in quelle dai salari bassi, dove ormai anche le donne lavorano.
In Occidente, molti fattori minano l’antico caposaldo del matrimonio: si tende soprattutto alla conquista del potere, al prestigio personale, e a raggiungere una posizione sociale di rilievo.
Tuttavia malgrado le incongruenze, le contraddizioni che si riscontrano nel matrimonio, malgrado filosofi, pensatori e artisti ritengono che il sodalizio matrimoniale comporti disagi e incomprensioni, la maggior parte delle persone fonda ancora la propria vita sul matrimonio.
Aspetti positivi e negativi sono dunque mescolati indissolubilmente nell’istituzione matrimoniale. Privilegiare i primi e minimizzare i secondi è compito di ogni coppia.
Consultori familiari, centri di salute mentale, servizi sociali possono efficacemente aiutare i partner in difficoltà a gestire meglio il loro rapporto, e a trovare una intesa sul modo di proseguire l’unione ove ne sussistano i presupposti. Oppure, in caso contrario,(se risulta che i due partner non possono in nessun caso formare una coppia stabile, a causa dei pesanti contrasti psicologici, caratteriali e sociali), aiutarli ad interrompere il rapporto in maniera civile e nel modo più adeguato, in modo da procurare minori traumi possibili ai figli [150]
Se da un lato il poeta inglese Coventry Patmore, loda l’amore coniugale, dall’altro, il socialista Charles Fourier, sostiene che, per compiere un passo verso la maturità dei sentimenti non bisognerebbe sposarsi. Infatti, secondo Fourier molti coniugi restano bambini e non arrivano mai all’indipendenza psicologica. Molti di essi, sosteneva il socialista francese, procedono tutta la vita tenendosi per mano, motivo per cui non raggiungono la libera gestione della loro vita, e, in molti casi, c’è chi sfrutta il coniuge per diguazzare nel proprio egoismo.
Una variazione recente, la famiglia allargata, in certi casi costituisce un antidoto alle tragedie di certe coppie ‘chiuse’.[151]
Alcuni partner, dopo la separazione o il divorzio, continuano a frequentarsi e, in qualche modo, vivono una situazione di “famiglie allargate”, riuscendo a mantenere dignità nei rapporti molteplici e a gestirli in serenità e senza ricatti reciproci.
Quando «il nuovo marito che sta con la mamma» o «la nuova compagna del papà» sono apprezzati per le loro personalità, le sostituzioni possono essere abbastanza indolori e le relazioni diventano tollerabili più di quanto avvenga in quelle famiglie tradizionali nelle quali i rapporti sono fallimentari e palesemente conflittuali e in cui, però, i due coniugi “rimangono uniti” anche se tra loro si svolge una continua battaglia quotidiana.
In passato, quando c’erano incomprensioni tra i partner, o non si badava ad essi, oppure, poiché al rapporto psicologico tra i due era data scarsa rilevanza, gli screzi erano gestiti dai familiari, dalle suocere, dagli amici e dalle amiche, e ciò comportava pareri spesso contradditori che non facevano che aumentare lo stess e il disaccordo nella coppia. Dell’intimità della coppia il maschio faceva partecipe l’amico e i crucci della donna erano comunicati esclusivamente alle amiche: era quello considerato il grande momento della solidarietà femminile
Oggi, per mettere ordine in tutti questi tipi di rapporti, d’importanza fondamentale è l’intervento di professionisti competenti, nei consultori pubblici , e negli studi degli psicoterapeuti della coppia.
Strana vicenda questa della coppia umana. Lungi dall’essere formata esclusivamente dai due partner e dalle loro esclusive volontà, per la sua formazione e per la sua gestione contribuiscono anche altri soggetti. Nell’antichità su di essa è presente e determinante la volontà del pater familias. In seguito è il clan che si occupa della gestione della coppia, poi, dopo il Concilio di Trento, il matrimonio è inesistente senza la partecipazione attiva del ministro del culto.

L’ amore è sempre un sentimento libero?

A ben guardare, dunque, le scelte matrimoniali,al di là delle ingerenze sociali, non sono del tutto libere, anche perché la valutazione del partner è condizionata dalle idee e dai gusti della famiglia d’origine e dalle tradizioni. Aveva forse ragione Freud quando diceva che i partner non sono mai soli: nella coppia, affermava lo psichiatra viennese, sono sempre “virtualmente” presenti almeno altri due soggetti, il padre di lei e la madre di lui.
Osserva Elizabeth Martyn[152] che: «le nostre prime impressioni sul matrimonio si formano osservando il rapporto dei nostri genitori. Ciò che vediamo influenza inevitabilmente le nostre aspettative. Che piaccia o no, i genitori esercitano dunque una notevole influenza sulla scelta del partner. Sia che ci si sposi per sfuggire da loro, per far loro piacere, o per dimostrare la nostra ribellione scegliendo un compagno inaccettabile, e ciò dimostra che anche questa scelta non è che un soccombere al potere dell’opinione familiare».
Dello stesso parere è la psicanalista Silvia Di Lorenzo,[153] che sostiene che ogni innamoramento è fondato sulla proiezione di bisogni tranferenziali, i quali, se da un canto lo rendono più vivo e intenso, nel contempo impediscono che sia davvero una scelta libera e che si possa davvero conoscere la persona amata. Infatti, più è forte la costruzione fantasiosa, più si ama un fantasma, un transfert, e questo impedisce di vedere “attraverso il velo di Maya”[154] e capire davvero chi sia realmente la persona amata.
Se lo slancio passionale è frutto dell’elaborazione di ricordi d’infanzia e la simpatia verso il partner è sollecitata prevalentemente da somiglianze e da sensazioni passate (transfert), secondo Sigmund Freud, si determina un legame a rischio perché si basa troppo su aspettative infantili (edipismo).
Alcune persone vivono un ménage frutto “di fantasie”, con atteggiamenti piuttosto immaturi, e sperano di ritrovare nella relazione di coppia appagamenti propri dell’infanzia. In questi casi, quando sopravvengono delusioni, esse producono effetti devastanti. Infatti, le relazioni d’amore nevrotiche dipendono il più delle volte proprio dai transfert infantili, e creano tensioni narcisistiche, masochistiche o sadiche, che impediscono rapporti sereni tra i partner.
Solo se i partner sono maturi l’amore sorge per libera scelta, ma se si basa su un transfert o sulla necessità di soddisfare bisogni narcisistici, l’amore si costruisce su terreno molto fragile e non potrà mai risolvere le carenze affettive. Infatti, le tensioni che si creano nella coppia a tendenza “infantile” mettono in luce le sindromi nevrotiche dei partner. Per di più, la società, i media, la letteratura, fomentano romanticismi decadenti, ed esaltano passioni irragionevoli e stravaganti.
Una altro aspetto importante da esaminare a proposito del sentimento amoroso è il fatto che vi sono persone che utilizzano l’innamoramento come risposta all’insoddisfazione e alla malinconia. Ciò accade perché non sempre gli stati depressivi e i conflitti psichici vengono affrontati cercando di risolvere i problemi che sono alla base e così in qualche caso, la pulsione a innamorarsi è a ben guardare, una alternativa alla depressione. Ma il sentimento amoroso non cura la depressione, tutt’al più la “occulta” temporaneamente.
Infatti l’angoscia depressiva, “spostata” dalla sua forma originale, diventa angoscia d’amore. Ciò lo si deduce dal fatto che spesso i processi psicologici della malinconia stanno alla base delle angosce degli innamorati.
L’amore è invocato durante i periodi di maggiore scoramento: nell’adolescenza, costellata da smarrimenti, insicurezze e tristezze; nell’età adulta quando l’insuccesso lavorativo, il fallimento di coppia, l’esito sfavorevole di un progetto politico, artistico, sociale, appaiono come sconfitte cocenti che mettono a repentaglio l’autostima, e creano un’inquietudine depressiva con relativo bisogno d’amore “riparatore”.
Tuttavia, per la persona depressa, l’imbarcarsi in una prova amorosa può essere un rischio con risultati più negativi che positivi. Infatti il soggetto afflitto da depressione di solito non riesce a recuperare il buon umore attraverso l’amore, anzi in lui si innescano gelosie, conflittualità e tormenti, che finiscono col creare una situazione ingovernabile. Chi è già afflitto da paure infantili, sarà un partner gelosissimo, stizzoso, permaloso, molto più di quanto non lo sia qualsiasi partner che non soffra di turbe di abbandono. Sono molti gli esempi concreti che mostrano come in qualche caso l’amore è stato un bisogno “alternativo”.
Giosuè Carducci quando si sentiva “imbolognire” cioè quando era avvilito della vita piatta e scialba che conduceva a Bologna, cercava nell’avventura sentimentale una compensazione alla propria depressione. Pablo Picasso non riusciva a superare l’empasse della carenza di creatività se non s’innamorava. Franz Kafka, eternamente depresso, era sempre in cerca di una passione amorosa che lo salvasse dall’angoscia. Giacomo Leopardi, per guarire il suo complesso d’inferiorità, cercò sempre ma in vano di avviare un dialogo amoroso con una donna.
Tuttavia, se l’amore è utilizzato come alternativa all’angoscia, come espediente per compensare la malinconia, può divenire “un masso” capace di schiacciare più che di fortificare. È questa ragione per la quale le persone che utilizzano il bisogno d’amore come “riparatore della malinconia” affermano di non trovare in esso il conforto desiderato e finiscono col ritenerlo una esperienza poco fruttuosa. L’amore, utilizzato con questo obbiettivo, può diventare un problema se viene sperimentato nel periodo e nella maniera meno adatta, cioè durante una fase di depressione. Quando ci sono conflitti profondi e reconditi irrisolti, difficilmente è possibile fruire dei vantaggi dell’innamoramento. Infatti una personalità debole non sempre è in grado di affrontare gli ordinari travagli d’amore, e scivola nel terreno minato dei sentimenti. Non è infrequente infatti, che il bisogno di una relazione amorosa, paradossalmente, non dipenda da una esigenza di gioia solare, ma sia il campanello d’allarme di uno stato malinconico.

La mentalità maschilista

Sulla coppia, pesa come una cappa il maschilismo. Esso ha radici nella lunga storia della formazione delle società umane, esso si trova non solo nelle vecchie mitologie, ma è anche attuale e quotidiano.
Scrive T. Reik[155]: «La formazione del mito in cui Adamo mette al mondo Eva è il prodotto finale di un processo per mezzo del quale la sua origine da una madre [sia pur essa una]dea è negata nella maniera più energica».
Il maschio biblico per non dipendere dalla donna, escogitò d’essere colui che la genera tramite la propria costola!.
Lo psicoanalista Edward Stuken interpreta l’estrazione della donna da una costola maschile come una orgogliosa rivendicazione dell’uomo e Thorlief Borman[156] ricorda una leggenda nata in Groenlandia, secondo la quale la donna sarebbe stata creata dal dito pollice dell’uomo.
Leggende e tradizioni si ritrovano nel mito di Atena, che venne fuori dalla testa di Zeus e di Daksha che fu partorita dal pollice sinistro di Brahma.
La subalternità della donna, sancita sul piano mitologico fin dalla sua origine, trova conferma nella definizione della sua funzione prevalentemente ‘ricettiva’ e riproduttiva.
Nelle Eumenidi, Eschilo, per bocca di Apollo, afferma che la donna è nutrice e tutrice del seme che riceve, perché “conserva il germoglio” del maschio, l’unico in grado di generare. Concetto espresso anche dal Corano quando spiega che la donna è come la terra: riceve il seme che germoglierà, e come la terra, la donna, secondo il libro sacro dei Mussulmani, ha funzione di ricettacolo.
Per secoli queste convinzioni hanno impedito qualsiasi forma di emancipazione femminile. Al tempo della vita pastorale e nomade, infatti, mancando il culto del focolare, gli uomini non consideravano utili le donne. E solo quando si passò dal nomadismo alla vita sedentaria la donna ebbe un ruolo più importante, perché accudiva la dimora ove la famiglia trovava rifugio.
G. Maggie, B. Corsaro, J.A. Saggin [157] affermano: «Sin da tempi remoti la condizione della donna è completamente determinata dalla forma patriarcale della famiglia. E spesso la donna è stata considerata più che una persona una cosa».
La conseguenza è che molte donne sono state, per tutta la vita, unicamente “qualcosa di qualcuno”, e cioè la figlia di qualcuno, la moglie di qualcuno, la madre di qualcuno, senza essere veramente se stesse[158].
Significative appaiono le preghiere dei Greci, dei Persiani e dei Giudei con le quali il maschio ringraziava il proprio Dio di non averlo fatto nascere né donna né schiavo. Infatti era acclarata l’inferiorità della donna, considerata indegna di essere istruita alla comprensione della Legge; e i Saggi affermavano di preferire che la Torà si bruciasse, piuttosto che essere comunicata alle donne.
Nell’antica letteratura medica che si venne a formare nel XV e nel XVI secolo, si è insistito sulla fragilità psichica e fisica del mondo femminile, ritenendo altresì che la donna provocasse calamità, malattie veneree, disastri naturali ed economici, dando per scontato, in quest’ultima ipotesi, che le donne, vanitose e narcisiste, spingono gli uomini a dilapidare patrimoni. E non solo: la donna è stata accusata di diffondere la lussuria e di essere l’origine di risse e disordini pubblici.
Si può ben dire allora che il maschilismo affonda le radici nel pensiero di Tertulliano, scrittore latino cristiano del III secolo d.C., il quale sosteneva che le donne sono «la porta d’ingresso del Diavolo». Lo stesso Paolo di Tarso, che aveva convertito Tecla, una ragazza di nobili origini, all’ideale di castità e di verginità, poi, com’è narrato negli Atti apocrifi di Paolo, non la volle come compagna della sua predicazione itinerante, perché ritemeva pericoloso avere una donna al proprio fianco. Tecla, per dedicarsi alla predicazione, si tagliò i capelli e si fece passare per maschio. Ma alla fine, stanca, si ritirò in eremitaggio, scoraggiata dall’ostracismo verso le donne.[159]
Nell’Alto Medio Evo i Sassoni non davano alle mogli dei regnanti alcuna investitura regale[160]. Nel XVII secolo, l’ugonotto Florimond de Raemond scrisse, nella sua storia dei movimenti eretici che le donne hanno una maggiore propensione all’eresia.
Finalmente solo a metà dell’Ottocento l’economista francese Pierre-Joseph Proudhom, nel saggio Amour et Mariage, denunciò che molti studiosi ritenevano ancora erroneamente l’inferiorità della donna un dato scientifico. La storia è costellata di uomini, anche culturalmente e intellettualmente dotati, che tuttavia non hanno mai saputo valorizzare le donne e anche attualmente esistono forti resistenze ad emancipare del tutto la donna.

‘Meridionali’ e ‘Anglosassoni’

Secondo una diffusa interpretazione, probabilmente di origine psicoanalitica, il partner latino, forse più di qualunque altro maschio, cercherebbe nella propria donna le caratteristiche psicologiche della propria madre, perché vorrebbe riprodurre con la moglie o con la compagna un legame sulla falsariga di quello avuto con la genitrice. In altri termini, il latin lover, imbastendo un rapporto con la figura femminile simile a quello avuto nella prima età, si sente più “rassicurato” in quanto ricrea un tipo di legame che ha già sperimentato da bambino.
Tiziana Catalano[161], presidente dell’associazione Casa delle Donne Maltrattate, afferma che in genere gli uomini meridionali hanno la tendenza a non staccarsi dall’infanzia, proprio a causa di una certa immaturità nel rapporto con la donna che in loro permane anche quando hanno raggiunto l’età del matrimonio.
Il legame del latin lover con la partner è pertanto alquanto articolato: egli da un lato si mostra affettuoso e tenero con la donna, dall’altro però non rinunzia al ruolo di sultano. Questa ambiguità di sentimenti lo porta ad essere ossessivamente geloso e possessivo.
In quanto alle donne del Sud ancora oggi, anche se in minor misura di un tempo sono molto legate, forse più di quanto non lo siano normalmente le altre, al genitore di sesso maschile, figura spesso patriarcale e dominante, il quale sin da quando sono bambine diviene per le meridionali il punto di riferimento e il modello da ricercare nel partner col quale condividere in seguito la propria vita. Proprio per questa commistione della figura padre-marito, e per motivi socio-culturali, le donne meridionali di solito non manifestano all’esterno della famiglia le loro crisi matrimoniali. Esse in parte ancora preferiscono sopportare piuttosto che ribellarsi, così come da bambine subivano senza reagire le imposizioni paterne. Tuttavia non si immagini che le meridionali siano del tutto remissive: la psicologia della donna italiana ha radici profonde nella società romana imperiale, quando le matrone, che non avevano possibilità di avere alcun peso politico, stavano però “dietro” i loro partner e ne determinavano di successo anche se non apparivano mai come le artefici di esso. Il “filone” psicologico delle antiche matrone romane si ritrova ancora in quelle italiane che appaiono remissive ed arrendevoli, ma che in realtà adottano la strategia della “docilità” per non apparire “forti”, atteggiamento che consente loro, in qualche caso, anche di prevalere sul partner.
Per molti aspetti, dunque, nella nostra società, le donne, malgrado le apparenze, proprio come avveniva nella Roma dei Cesari, hanno dietro le quinte un peso determinante.
Diversa è la mentalità anglossassone. I nordici, permeati del temperamento calvinista, intransigente e inflessibile, da pragmatici affrontano con risolutezza i problemi della coppia. Nei paesi anglosassoni tuttavia non sono nemmeno tutte rose e fiori. In Germania nel 1847 Gross Hoffinger[162] portò a conoscenza dell’opinione pubblica, con una famosa e sorprendente inchiesta, che ben il 48 % delle coppie si dichiarava infelice, 36 % indifferenti, e solo il 15 % soddisfatte e felici. Uno shock per i nordici, perché furono messe a nudo certe ipocrisie “perbenistiche” che i drammi di Ibsen avevano bene rappresentato.
Tuttavia, forse c’è di buono nella mentalità degli anglosassoni che di solito sono banditi “ i sotterfugi”. A differenza del meridione, in cui si tende a tenere in piedi a qualsiasi costo il legame anche se impossibile da sanare, anche se ciò provoca enormi disagi e dolori, gli anglosassoni più schiettamente riconoscono quando c’è il fallimento del rapporto e prendono correttamente provvedimenti.

Verso una parità tra i sessi?

Ma al di là delle caratteristiche dei popoli del nord e di quelli meridionali, oggi le giovani generazioni mirano ad uno stile di rapporti aperti e paritari, dai quali emerge un modello dinamico, improntato a maggiore chiarezza.
Un archetipo questo suggerito sin dalla metà del XX Secolo, dal pensiero di vari scrittori, tra cui Fromm, Marcuse, Russell, Ginzburg, Sartre, Beauvoir, i quali criticarono le inibizioni e le ipocrisie di una società incapace di rigenerarsi.
Dalle pagine di Kerouac, di Ferlinghetti, di Erica Jong e di altri pensatori si delineò, l’esigenza di una più schietta concezione dei rapporti tra i sessi che hanno messo in crisi tabù e luoghi comuni del passato.[163]
Da tutto questo fermento di pensiero il rapporto di coppia ha perso le vecchie caratteristiche di un tempo quando, per un vecchio luogo comune, l’amicizia tra uomo e donna era considerata di secondaria importanza. Oggi si è invece compreso che è proprio l’amicizia a produrre l’armonia nella relazione.
La parità dei sessi ha consentito maggiori opportunità alle donne. E così una novità della seconda metà del XX secolo è i loro assalto donne alle roccaforti storicamente maschili. Esse si cimentano con i maschi in tutti i campi, da quello lavorativo a quello sportivo e persino nell’arte militare, per non dire della grinta, del coraggio, della forza e della sopportazione di sacrifici fisici, qualità per le quali le donne non si mostrano più, come un tempo, inferiori al maschio, e mostrano di voler essere a lui alla pari anche in tema di comportamento sessuale[164].
I maschi davanti a queste performance femminili avvertono un certo disagio. Inoltre, malgrado le garanzie costituzionali, la convivenza dei due sessi, in certi contesti come caserme, accampamenti misti etc., è spesso “a rischio” per le donne. Questo è uno dei tanti problemi molto delicati che le donne devono affrontare nel loro cammino verso la parità, come afferma Michèle Fitoussi[165], la quale ritiene che «l’avanzata delle donne in tutti i campi ha creato gravi stress e frustrazioni nel sesso forte». Il cammino verso la parità tra i sessi, così irto di difficoltà, non è purtroppo del tutto concluso.

Si può configurare una caratterologia di coppia?

Nei rapporti di coppia si possono trovare alcuni “schemi di lettura”, basandosi sia sulla personalità dei partner che sulla dinamica del ménage, i quali aiutano a decifrare comportamenti e caratteristiche distintive di una coppia.
Ben definito è il partner gregario, incapace di vivere da solo, psicodipendente, e sicuro solo se ha accanto un partner dominante. Il partner gregario è disposto a qualsiasi sacrificio pur di mantenere il legame. Non sempre sono le donne partner gregarie e quando gregario è un maschio, egli vuole essere accudito e coccolato. I gregari, maschi o femmine, soffrono di insufficiente autostima; paradossalmente, però, “strumentalizzano” gli altri ai propri bisogni.
Il partner prevalente è invece dotato di personalità che tende a sottomettere e a prevalere. Ma non sempre sono gli uomini prevalenti, non è affatto difficile trovare donne che assumono un ruolo materno e un atteggiamento dirigenziale.
Quando è la donna a prevalere, il suo atteggiamento dipende a volte da una inconscio risentimento verso il mondo maschile, rancore che fa scattare il vittimismo del gregario e origina un ménage sadomaso.
Anche personalità di rilievo, a volte, possono ricoprire, in seno alla coppia un ruolo gregario.
La coppia paritetica, invece, è formata da partner che non si prevaricano e non mostrano debolezze emotive. Nei partner paritetici prevale l’equilibrio e in questo genere di legame v’è reciproca amicizia e collaborazione e nessuna forma di invadenza né di prevaricazione. I paritetici si comportano senza tirannie e sono in grado di vivere la loro stagione amorosa senza sognare improbabili perfezioni, ed utilizzano invece il buon senso.
Ci si chiede se la coppia paritetica rappresenti un legame solido, a lungo termine, oppure in qualche caso arriva anche essa alla separazione. La risposta è che se sopraggiungono in seno ad essa avvenimenti che fanno cessare l’intesa tra i partner, i due, sulle prime cercano di eliminare le conflittualità, ma poi, se vedono esaurito ogni tentativo di riconciliazione, non s’intestardiscono a restare assieme e finiscono col separarsi.
Paradossalmente, invece, è difficile che si disgreghi il ménage in cui uno dei partner è nevroticamente succube dell’altro; o quello in cui il partner prevalente è impegnato a demolire la personalità del gregario, il quale, utilizzando spinte masochistiche, non riesce a riscattare la propria libertà e non si libera perciò della schiavitù di un rapporto di coppia che lo soffoca. Del resto, a volte persino il “grande amore”, se non è ben gestito, più essere un grosso rischio, perché può sfociare in opprimente gelosia, o in insistenti richieste infantili e maniacali bisogni affettivi.
La psichiatra Donatella Marazziti dell’Università di Pisa ha condotto una interessante inchiesta a tal proposito[166], notando che la passione amorosa, soprattutto nelle fiammate iniziali, con quell’insistere continuamente a pensare a una persona, può essere paragonato a un disturbo compulsivo ossessivo.
A riprova di tale ipotesi la Marazziti, ha trovato che il livello di serotonina negli “innamorati freschi” (ma solo per il breve periodo dello sfogo iniziale) è del 40% più basso della norma: in pratica gli innamorati avrebbero la stessa carenza che si riscontra analizzando i livelli di serotonina nelle persone affette da disturbi ossessivi compulsivi.
Ma c’è di più: secondo quanto emergerebbe dal congresso Sopsi del 2003, dal titolo “Dal disturbo alla malattia”[167], l’aspetto biologico dei sentimenti è stato studiato da vari punti di vista e si è potuto appurare che esso è regolato da meccanismi stimolati dalla serotonina e dall’ossitocina.
Secondo la Marazziti, infatti, l’ossitocina faciliterebbe l’attaccamento tra i partner. Ricerche condotte dalla neurobiologa dell’Università di Pisa hanno dimostrato che questo ormone sarebbe la causa principale della monogamia nei topi della prateria e in alcune specie di scimmie. La connessione ossitocina-monogamia sarebbe stata evidenziata anche da ricerche condotte negli Stati Uniti.

Il conflitto nella coppia e le sue conseguenze

Il conflitto coniugale si manifesta quando cambiano le condizioni iniziali e sopravvengono situazioni che mutano la precedente dinamiche di coppia. A volte ciò accade quando affiorano in un partner delle psicopatologie, o malattie invalidanti, o vi sono tracolli economici, o stress. Oppure si verifica la fine della “maritalis affectio” fino a creare crisi esistenziali.
Quando il ménage non funziona più, ogni situazione sgradevole diventa oggetto di recriminazioni e un pretesto per nostalgie e paragoni col passato. Spesso una persona “sana” dopo una esperienza negativa intraprende rapporti più schietti. Tuttavia una facile tendenza alla separazione può talvolta nascondere una personalità viziata e narcisista con scarsa propensione al sacrificio. Vi sono persone che dopo aver cambiato partner si ritrovano invischiate nelle stesse pastoie del precedente rapporto. Egocentrismo, narcisismo e problemi emotivi si ripresentano nella nuova esperienza per un nuovo fallimento.
In molti casi però il divorzio fa maturare la personalità, anche se malinconia e solitudine fanno capolino a volte fino a mettere in crisi il nuovo equilibrio. Sono proprio i maschi quelli che più spesso cercano di ricostruire un nuovo ménage oppure ritornano a vivere nella famiglia d’origine. Le donne, invece, dopo un’esperienza poco edificante, preferiscono rimanere single.
Spesso la crisi della coppia non dipende “dalla sfortuna”, come si cerca di sbandierare, ma dipende dalla tecnica delle relazioni con gli altri, dal rispetto o meno per i sentimenti altrui, e anche dal tipo di educazione sentimentale ricevuta.
I motivi che possono portare la coppia alla crisi sono variegati e a volte anche i più strani. Un motivo molto ricorrente è la gelosia sessuale. Ma anche la competizione artistica è capace di spazzare via qualsiasi tenerezza.
Quando nella coppia vi è competizione, si produce una rivalità nevrotica e i successi del partner provocano dissapori e rendono sgradevole la relazione. Molte persone a causa dei successi del partner, diventano aggressive e intrattabili. La coppia formata da individui creativi, purtroppo, spesso va in crisi, perché in essi l’affermazione di sé, il più delle volte, è più forte dell’amore. Spesso anche il compromesso, cioè l’essere uniti per necessità o per opportunità, ma senza né simpatia né amore, corrode la coppia: infatti dal compromesso a volte, nascono drammi che corrodono i rapporti e fanno vivere nel grigiore. Nella maggior parte dei casi, una mancanza di sintonia produce una greve “sopportazione” che finisce col cancellare il sorriso e spegnere gli entusiasmi dei partner. Anche la mancanza di affiatamento sessuale finisce col rovinare il ménage. Il più delle volte dai partner non traspare questo tipo di disagio, né può essere individuato dall’esterno. Nemmeno le scienze sociali e la fenomenologia sono in grado di dare informazioni corrette sull’intimità di una coppia. Spesso i partner cercano d’apparire in società come se non avessero problemi di quel tipo, sicché è difficile, se non impossibile, interpretare ciò che accade nella loro intimità. Lo si viene a sapere solo quando i due pongono fine al rapporto.
La passione amorosa è un legame appagante; ma quando diventa una ossessione egocentrica può trasformarsi persino in odio, e provocare tragedie. Infatti non bisogna illudersi che il grande amore sia immune da defaillance. Anche gli affetti più teneri possono andare in frantumi, se non si sono instaurati legami schietti.
Paradossalmente, spesso per molte coppie le festività, le vacanze estive e le ferie lavorative spesso non sono occasione di relax ma più di frequente sono motivo di stress. J. P. Sartre nel romanzo La nausea, descrive in maniera emblematica la noia e l’incomunicabilità con cui spesso la coppia trascorre la domenica. Il tema della solitudine domenicale, inserito in una vicenda agrodolce, è anche quello tracciato da John Schlesinger nel film Domenica, maledetta domenica, affresco di vita borghese triste e malinconica, tra isolamento, perbenismo e nevrosi. Nella coppia male assortita, ma anche in quella più affiatata, molteplici sono i motivi che sollevano battibecchi e discussioni e ciò anche perché ogni partner possiede un proprio patrimonio di comportamenti e di convinzioni che non sempre è in sintonia con quello del compagno o della compagna. Un tempo il litigio tra coniugi era più ritualizzato, magari con alcune varianti poco significative. Tuttavia, non essendoci il divorzio, non c’erano molti rischi che si potesse arrivare ad una rottura completa. Così, poiché difficilmente era possibile pervenire alla strappo definitivo, gli alterchi erano anche aspri e duri, ma ciò non metteva a repentaglio la perdita dello status coniugale. A volte tra alcuni partner si manteneva per anni un duro scontro quotidiano, e ciò accadeva nella consapevolezza che qualsiasi dissapore non avrebbe potuto mettere fine al sodalizio. Oggi le unioni sono più instabili perché la società non ha il “controllo” della indissolubilità del matrimonio, e così persino una “ferita psicologica” può portare alla rottura. Di conseguenza i partner sono più cauti in fatto di litigi. Il conflitto esplode soprattutto quando nel vivere quotidiano si delinea una aperta opposizione tra le personali predilezioni dei partner, e ognuno di essi percepisce con “irritazione” la “mancanza di rispetto o di libertà individuale” che, col proprio modo di fare o di pensare, gli manifesta l’altro.

Separazioni e divorzi

Nessuno interrompe un’unione se non è convinto che non c’è più nulla da salvare. Però in alcuni casi, la relazione è tenuta in vita per inerzia e forse soddisfa inconsce spinte masochistiche o sadiche.
Secondo Cristiane Collange[168] poiché la fine del rapporto comporta un rituale scabroso e disagevole, sono molti quelli che trovano più comodo mantenere un legame sbrindellato piuttosto che incorrere in fastidi giuridici e sociali derivanti dalla separazione. Massimo Gramellini[169] scrive che le coppie che nascondono i conflitti dell’intimità, vivono nell’inferno e se non hanno la forza d’animo di separarsi tengono una illusoria facciata di concordia senza avere nessuna armonia , in un rapporto teso e alterato.
Il divorzio comporta una serie di problemi a volte devastanti. Ai conflitti psicologici e ai drammi non è possibile porre rimedio con una legge e in questi casi occorrere ricorrere alla psicoterapia.
Il film Kramer contro Kramer,[170] tratto dal best-seller di Avery Corman, dimostra quanto sgradevole può diventare la situazione dei divorziati soprattutto se gli ex-coniugi utilizzano i figli come macchine belliche per scatenare conflitti personali.

I “single” e le coppie di fatto

Nel Medio Evo o nell’età Moderna era impensabile una famiglia composta da un “single”. Allora erano in vita aggregati familiari che racchiudevano nel loro seno decine di persone, parenti più o meno stretti, e persino aiutanti e servitori. La famiglia “unipersonale”oggi è invece un fenomeno sempre più consistente[171].
Il più delle volte è formata da una donna. Vivere soli può essere una libera scelta, e in molti casi i single hanno una vita intensa, con esperienze vivaci. Per alcuni le esigenze di lavoro a volte prevalgono sul legame matrimoniale che avrebbe risvolti negativi per la carriera. In quanto alle vedove, divenute single per inevitabilità della sorte, molte di esse non vogliono “pesare” su gli altri componenti delle famiglie e preferiscono vivere sole.
Va sottolineato che i maschi, giovani e meno, se da un lato sentono l’esigenza di abitare da soli, dall’altro sono restii ad abbandonare la casa paterna per non perdere le comodità. Le ragazze, invece, quelle che hanno conquistato una certa indipendenza, continuano gli studi lontano dalla residenza dei genitori e non pensano al matrimonio. Spesso, il desiderio di essere libere da legami fornisce alle donne l’occasione per avanzare nella carriera.
Nonostante ciò, la donna che vive da sola, in certi strati sociali e in certe culture, è ritenuta irregolare e asociale. Ciò produce in alcune un “effetto emarginazione” dal momento che la comunità è maldisposta verso chi vive senza nucleo familiare.
Malgrado questo, molte le donne “ sole” si circondano di amiche, frequentano teatri e clubs con un attivismo che non avrebbero avuto se fossero state legate da esigenze familiari.
Bisogna notare però che vivono soli soprattutto gli individui ( maschi o femmine) che fanno parte delle fasce sociali più estreme: i più ricchi e i più poveri, e ciò per motivi diversi; i primi hanno un buon budget finanziario che gli da libertà sociale e giuridica che li rende autonomi, i secondi non hanno denaro a sufficienza per mettere su famiglia.[172]
Ma non sono solo vantaggi: i single spesso soffrono di solitudine, specialmente dopo il lavoro e durante le feste.

L’età contemporanea: cos’è cambiato nella coppia ?

A partire dai secoli XVIII e XIX, venuti meno alcuni tabù, la donna ha cominciato a rivendicare concreti diritti[173], ma solo nella seconda metà del secolo XX si è concretizzata una certa la libertà, essendo mutate le consuetudini relative all’amore e alla sessualità.
L’amore è diventato il simbolo di una raffinata esigenza psichica, e il matrimonio si è arricchito di feconde sfumature in proposito. Confrontando i costumi sessuali di diversi popoli, si constata che certe abitudini ritenute del tutto ovvie in alcune popolazioni, non lo sono in altre. Alcuni riti in voga nei paesi extraeuropei, da noi occidentali sono ritenuti strani. È arbitrario stabilire cosa sia corretto e cosa riprovevole e non sempre è facile stabilire se tutte le usanze ‘civili’ sono opportune. Che l’individuo sia il prodotto del suo passato individuale ma anche di quello collettivo, e che entrambi siano sempre presenti in ogni circostanza della vita lo afferma la psicoanalisi e l’antropologia.
Per una buona intesa di coppia oggi non basta più, come un tempo, restare sotto lo stesso tetto e portare avanti “la baracca”: si richiede un affiatamento, un’affinità di interessi, un’amicizia vera che vivacizzi il dialogo e la quotidianità.
Sperare che l’unione rimanga salda anche quando i partner non hanno più alcuna affinità tra di loro può essere un’utopia. Infatti, nella maggior parte dei casi, la mancanza di sintonia produce una sgradevole “sopportazione” che finisce con lo spegnere gli entusiasmi.
Dallo studio della storia dei costumi sessuali, emerge dunque che si è passati da abitudini abbastanza libere del periodo greco- romano fino al III° secolo d.C., documentate dagli storici del tempo, dalla letteratura, dalle arti figurative (non ultimi i rilevamenti di Pompei) al periodo Bizantino IV-VIII d.C., caratterizzato dal grande ritorno alla religiosità, a costumi castissimi, alla fuga dalla sessualità. Gli imperatori bizantini non ebbero la fama di gaudenti come quelli romani. Per di più essi erano dediti non solo alla politica, ma anche a riordinare le questioni teologiche nelle quali entravano a pieno titolo con la stessa autorità di un pontefice. In quanto autorità religiose, indicavano minuziosamente quale doveva essere l’uso “corretto” della sessualità, vale a dire il minimo indispensabile per la sopravvivenza della specie. In quel periodo erano i dibattiti religiosi quelli che tenevano banco ed erano così comuni e alla portata di tutti che non era difficile che se ne parlasse nelle osterie e nei mercati. In simili condizioni, alla sessualità si dedicava poca attenzione.
Precetti e divieti vennero meno col sopraggiungere delle invasioni barbariche del Nord Europa. In un periodo in cui la vita umana valeva pochissimo, e non c’era giorno in cui stupri, violenze e omicidi non lordassero la giornata, né c’era spazio per concetti come verginità, pudore, amore, bon ton.
Anche l’invasione Islamica apportò una certa liberalizzazione dopo i pesanti e circoscritti divieti imposti dal periodo bizantino. L’harem, l’utilizzo degli afrodisiaci, i precetti sessuali degli Arabi si diffusero fuori dai confini dell’Islam, e i cristiani vennero a conoscenza delle delizie del sesso vantate dalla civiltà islamica, cosa che fece serpeggiare in Occidente un desiderio edonistico che creò mutamenti fra le popolazioni.
Fu questo l’ambiente in cui per secoli s’andarono perdendo sempre più le ristrettezze imposte in Occidente dalla morale e dalla religione, e ciò fino alla paura catastrofica della fine del Mondo. Fu prendendo spunto da questo avvenimento che i grandi predicatori, andando di villaggio in villaggio, riuscirono con le loro prediche apocalittiche a indurre la popolazione ad abbandonare i piaceri della terra e a considerare l’imminente fine dell’umanità.
Ancora una volta, terrorizzate, le popolazioni fecero ricorso ad ogni sorta di privazione delle proprie esigenze intime nella speranza della salvezza.
Passata la paura della fine del mondo, la gente, quando si sentì sicura che nulla di apocalittico sarebbe più potuto accadere, si diede alla pazza gioia. Cessato il pericolo, dopo oltre un secolo di terrore, si aprì un periodo di speranze e di desideri di godersi la vita.
Ma ben presto, le forze della riflessione e della paura ripresero ad incombere sull’orizzonte medievale: il Duecento e il Trecento tornarono ad essere secoli di grande spiritualità e di conseguente disinteresse per il sesso. Fu il tempo delle grandi cattedrali, del fervore religioso, della fuga dal mondo e del rifugio nei monasteri. Il Quattrocento e il Cinquecento invece, fanno parte del ciclo dell’amore per la vita terrena e con essa torna il piacere per il lusso, per il corteggiamento, per i desideri della carne. Nelle corti i signori chiamarono grandi artisti, perché adornassero con opulenza le dimore. Persino nella pittura e nella scultura il corpo umano prese consistenza, e non fu più rappresentato in modo etereo, spirituale, come lo era stato nei secoli precedenti, ma in tutta la sua sostanziale sensualità. Banchetti, balli, grandi manifestazioni carnascialesche erano l’espressione più evidente di un rinato desiderio di godersi la vita.
Un desiderio che venne meno nel Seicento, secolo di grandi paure, di grandi meditazioni, di grandi misteri occulti. In esso la caccia alle streghe fu una delle espressioni, ma nemmeno la più rappresentativa, di un ritorno alla paura di soccombere alle forze del male. Sorse allora un orribile connubio che unì le donne, il sesso e il diavolo, in una miscela esplosiva prodotta dall’immaginario sessuofobico, e generò, nei tribunali inquisitori, migliaia di vittime.
Un secolo, dunque, il Seicento in cui si scatenarono tutte le preoccupazioni dell’aldilà, con la conseguenza di un ritorno al soffocamento dei più naturali bisogni dell’individuo, considerato solo sotto l’aspetto di peccatore e di penitente.
Un sospiro di sollievo, dopo i grandi processi di stregoneria, diede il Settecento, libertario, rivoluzionario, “patria” dei Casanova , dei Cagliostro, che insegnarono a ri-amare le raffinatezze della vita.
L’Ottocento, secolo dei Promessi Sposi, ritornò alla spiritualità e al “moralismo” puritano e pruriginoso dal quale a fatica s’era riscattato il Settecento. Il confronto tra Settecento e Ottocento è proprio l’esempio più classico di questa eterna alternanza tra naturalismo anticonformista e moralismo apocalittico.
Da questo confronto si deduce che certi risultati non sono affatto “stabilizzati”, e che si può benissimo passare dalla libertà di espressione a una costrizione delle libertà dell’individuo senza che con ciò si percepisca un regresso: anzi, a volte, questa “marcia indietro” non è stata considerata come una repressione, come una perdita dell’“avanzamento”culturale in precedenza raggiunto, ma come un “miglioramento”.
Il Novecento, in fine, è nettamente contrassegnato dallo spartiacque della Seconda guerra mondiale: fino al 1939 era preminente il gusto e la linea sociale ottocentesca. Il dopoguerra ha innescato un processo che lasciava sempre più spazio alla ricerca del benessere, del laicismo. Era un bisogno di vivere alla giornata e di dimenticare gli orrori del passato recente. Ma se da un lato la gente ha cercato di vivere senza pensieri, dall’altro, parallelamente si è sempre più sentita la esigenza di alternative spirituali, molte a carattere orientaleggiante, che hanno finito con l’innescare un sempre maggiore bisogno di “spiritualismo” .
I costumi sessuali hanno una ciclicità ricorrente. È possibile riscontare secoli in cui i movimenti spirituali, religiosi hanno la preminenza sui problemi della carne, a secoli in cui l’amore per la vita sociale, per i piaceri terreni, per la sensualità è preminente. Sicché non ha senso parlare di avanzamento o di regressione nei costumi.
La sua fuga dal mondo dell’anacoreta medievale non si può considerare un regresso rispetto alla mentalità gaudente dei romani, così come non è da considerare l’Illuminismo una tappa fondamentale, dal momento che la restaurazione ottocentesca ha contestato, negato e rigettato tutte le istanze libertarie che il ‘700 “illuminato dalla ragione” aveva innescato.
È possibile pertanto immaginare che anche nel XXI secolo e in quelli che seguiranno si avranno avvicendamenti nella “logica” dei costumi.

La prima parte del presente studio si trova edita in Rivista Formazione Psichiatrica, anno XXIV n 1-2 Gennaio Giugno 2003

La terza parte edita dalla Rivista Formazione Psichiatrica, anno XXIV n1-2 2004

UOMO E DONNA, UN LEGAME COMPLESSO

Parte Terza[174]

Amore ed eros nella letteratura e nelle arti figurative

Il rapporto maschio-femmina è documentato non solo dalle vicende sociali, ma anche dalla letteratura e dalla storia dell’arte. Anche i graffiti delle origini mostrano i molteplici rapporti tra l’uomo e la donna e come amore ed eros in ogni epoca siano stati vissuti in variegate versioni rappresentate nella mitologia e nelle varie forme d’arte.
Passione e sensualità sono descritte nella letteratura greca sin dal V° secolo a. C. e narrate anche in produzioni letterarie di altri Paesi[175], mentre il concetto di amore, nel senso attuale, con la coloritura romantica, ha origini culturali e letterarie recenti (soprattutto a partire dagli ultimi due secoli) anche se persino nella mitologia sono presenti alcuni spunti al riguardo.
La letteratura, l’arte visiva e la musica, documentano la evoluzione dei sentimenti tra maschio e femmina durante i secoli, segnalando gli aspetti sociali, l’immaginario collettivo, e le implicazioni psico-sociologiche delle varie epoche.
Leggendo “tra le righe” si può notare che per secoli gli scrittori hanno considerato le donne in maniera contraddittoria; ora esseri ingenui, circuibili e inarrivabili, ora avventuriere senza riscatto morale. Probabilmente, con ciò essi riportano l’idea che gli uomini hanno avuto da sempre nei confronti dell’universo femminile.
Uno dei primi scrittori che ha “giudicato” la donna è Omero. Egli presenta Elena ( ciò la donna) in maniera negativa: come un essere capace di scatenare gravi calamità. E nella Grecia antica, dopo Omero, gli autori di commedie esprimevano il senso di fastidio che aveva l’uomo medio nei confronti dell’altro sesso, al quale non erano di certo riconosciuti grandi impegni culturali e sociali, ma solo leziosaggini e adescamenti erotici. Seguendo questo filone, la letteratura del basso Medio Evo riteneva la donna un essere conturbante, che spingeva al peccato e dunque veicolo diretto dell’opera del diavolo.
È solo con Petrarca e Boccaccio, che la donna si stacca da “personaggio metafisico negativo” (cioè promotrice dei dolori, delle miserie,dei mali che flagellano il destino umano) e diventa, al pari dell’uomo, un essere che fa parte della commedia umana. E se l’uomo è stato considerato fino a quel tempo colui che promuove la storia, la letteratura del Cinquecento e del Seicento avverte che la realtà non può più prescindere dall’intervento della donna. Da quel momento in poi, inizia l’irruzione della presenza femminile nella letteratura.
Ma l’inconscia avversione medievale del maschio per la donna non si estinse facilmente. Nell’Ottocento gli scrittori di libretti d’opera hanno descritto spesso le interpreti femminili come esseri pericolosi, oltre che creature sopraffatte e sottomesse. In ogni caso, rimase a lungo l’idea della donna, mai alla pari con l’uomo, vista come perversa dominatrice o come asservita al maschio.

Dalla mitologia alla letteratura

Nei primi racconti di duemila e cinquecento anni addietro, gli esseri umani sono rappresentati in balìa degli dèi e dei demoni capricciosi.
Anche nei tempi moderni, il concetto di “destino”, non è dissimile da quello antico, e non è stato ripudiata l’antica interpretazione metafisica, che riteneva che gli dei dirigessero le vicende umane.
Tra le antiche vicende mitologiche romantiche troviamo lo sfortunato amore degli amanti Pìramo e Tisbe. La storia è riportata nelle leggende assire del secolo VII a.C., e nei racconti babilonesi.
Nella versione di Ovidio, a Pìramo e Tisbe, appartenenti a clan rivali, era stato vietato non solo di convolare a giuste nozze, ma persino di frequentarsi.
I due allora, non accettando le decisioni dei loro rispettivi parenti, aiutati da un amico programmarono una fuga a scopo matrimoniale. Ma, sfortunatamente, accadde che Tisbe, mentre si recava al luogo convenuto per incontrare il promesso sposo, venne inseguita da un leone, e, spaventata, fuggì via inseguita dalla belva. La fiera, nel tentativo di afferrare la ragazza con la zampa, agguantò il velo, graffiando il braccio della ragazza. Tisbe riuscì a fuggire, ma sul terreno cadde l’indumento insanguinato. Pìramo, arrivato poco dopo, vedendo il velo dell’amata e immaginando il peggio, disperato, si uccise. Quando la fanciulla tornò nel luogo dell’incontro, trovato l’amato morto, sgomenta, si tolse la vita.
Questa tragedia strappalacrime è ricordata per secoli, forse nella convinzione che il grande amore sia, per definizione, sfortunato. Di Pìramo e Tisbe si occupò lo scrittore seicentesco Marino; e la vicenda dei due assiri entusiasmò anche Shakespeare, che la riprese in Giulietta e Romeo.
Un altro sfortunato amore denso di significati allegorici è quello che unì Laudamia a Protesilao, l’eroe che tra i primi sbarcò sul suolo troiano e che morì nella guerra di Troia. Si narra che dopo la morte dell’amato, Laudamia avesse dipinto a memoria il ritratto del coniuge e che davanti ad esso giornalmente deponesse fiori e doni. Grazie all’intercessione di Ermes, che aveva garantito all’eroe la serenità dopo la morte, Protesilao poté tornare in vita per consumare un ultimo amplesso con la moglie. Dopo quel romantico incontro, Laudamia morì bruciata assieme al ritratto del marito.
Amore a lieto fine invece quello tra Alcesti e Admeto.
Ad Admeto Apollo aveva promesso che al momento della morte avrebbe potuto non cadere nell’Ade se qualcuno avesse voluto sostituirlo. Giunto il momento fatidico della morte, la bella Alcesti, a conoscenza della promessa fatta dal dio ad Admeto, accettò di morire al posto dell’amato. Persefone, commossa dal sacrificio di Alcesti, le fece grazia della vita e la riportò sulla terra.
Questo mito ripreso dai romantici esprime l’invito a sacrificarsi per la persona amata. La psicoanalista Silvia Di Lorenzo[176] afferma che il sacrifico d’amore come quello di Alcesti, solo in apparenza è un sentimento maturo; nella sostanza è una fantasia simbiotica infantile. In altri termini, spiega la Di Lorenzo, questo sacrificio non esalta l’amore di coppia, ma quello edipico.
Pure a lieto fine è la vicenda mitologica di Pigmalione, mitico re di Cipro, che s’innamorò della statua di Afrodite, che sposò e depose nel letto nuziale. La dea, commossa, premiò Pigmalione, facendo vivere la statua e rendendo possibili le nozze.
Nella Grecia classica, l’amore era “armonia”, e per i Greci non doveva essere “sprecato” nel gineceo, ove, secondo i sociologi del tempo, si concludeva con un banale amplesso.
Secondo Plutarco l’amore doveva poter essere tenuto sotto “controllo” e i filosofi greci invitavano a non ridurre l’amore alla semplice soddisfazione degli istinti, perché in quel caso s’involgarisce.
Intorno al 700 a.C., sempre in Grecia, Archiloco di Paro cantò con versi purissimi il suo amore per Neobule, fanciulla che conobbe appena, ma che infiammò la sua fantasia. Nello stesso periodo, Mimnermo di Colofone, suonatore di flauto, declamò rime bellissime per un’altra ragazza, Nannò, della quale aveva solo una vaga conoscenza.
Un secolo dopo, il poeta Alceo, cantò l’amore per donne che lo emozionavano con il loro dolce sorriso e con le quali, probabilmente, non aveva contatti. Per Saffo, poetessa che approfondì mirabilmente la psicologia amorosa, “la cosa più bella è quella che si ama”.
Paul Veyne[177] afferma che in Occidente il concetto di amore cominciò con la poesia: al di fuori di essa, nelle letterature classiche, greche e romane, era un sentimento che non aveva spessore nella narrazione scenica.
Nella Grecia antica, anzi, molte commedie denigravano in maniera farsesca l’amore coniugale. E nemmeno nella Roma classica e in quella imperiale, l’amore venne preso in considerazione.
Però vi furono delle eccezioni: la dirompente passione di Catullo e di Tibullo, stimolò il fiorire della poesia sentimentale e rivendicò l’amore come estasi e godimento universale. Catullo amò intensamente e romanticamente la giovane Lesbia, evento del tutto eccezionale, poiché a Roma, tra uomo e donna vi erano legami prevalentemente sessuali.
Afferma Veyne[178] che nelle società in cui uomini e donne vivono separati, come erano quelle greche e romane, la donna è “un essere misterioso ed enigmatico”. In queste culture la donna, figura ora soprannaturale, ora voluttuosa e funesta è simile a un dio o a un essere infernale, ma giammai è pari all’uomo.
Il poeta Catullo è invece sensibile ai sentimentalismi: egli analizzò ciò che prova l’animo quando “scoppia” d’amore ed approfondì il significato della gelosia e della depressione, che ritenne conseguenze della delusione d’amore.
Le indagini psicologiche condotte da Saffo e da Catullo possono ritenersi episodi isolati, perché, ai tempi in cui i due vissero, vi era una forte misoginia. E anche in seguito, malgrado autori come Lucrezio, Virgilio, Orazio e Ovidio, parlassero d’amore, i problemi di cuore furono ritenuti elementi marginali nella vita degli individui.
Nella letteratura cristiano-romana così come in quella medievale e islamica, non furono più accolte poesie d’amore né vennero narrate passioni se non quelle relative all’ardore dell’uomo per Dio, unico sentimento ritenuto capace di purificare gli animi, come si legge nell’Antico Testamento, nel Nuovo Testamento e nel Corano.
Fu solo verso il XII secolo che quel rigore mistico si attutì e comparve l’amore “terreno” e si riscoprirono i sentimenti gentili verso la donna; il sesso non fu più un rituale fisico, ma si colorò di sentimenti, divenendo complemento e non interesse principale nell’unione tra uomo e donna.
Le liriche di Guglielmo d’Aquitania, di Jaufré Rudel, e di Bernardo di Ventadon furono prime avvisaglie di tale cambiamento.
«Il secolo XII – scrive Amanda Guiducci[179] – passa come il secolo nel quale ha avuto luogo l’invenzione dell’amore, dell’amore trepidante di echi passionali e ricco di sfumature interiori, cioè dell’amore per così dire romantico. E a dotarlo d’interiorità fu la poesia».
Guglielmo d’Aquitania fu tra i primi ad abbandonare il latino per il lessico volgare, cioè il francese parlato, e in tale lingua scrisse poesie d’amore.
Nei confronti della donna non vennero più usati, come accadeva prima, toni salaci, allusioni da osteria, paragoni osceni e poco galanti. Il linguaggio letterario divenne aulico e la signora fu considerata creatura che “stava un gradino più in su”.
La donna angelicata è oggetto di contemplazione nelle liriche di Guido Guinizelli, di Guido Cavalcanti, di Cino da Pistoia e di altri cantori del tempo. Dalla tristezza di un amore che non poté realizzare, Petrarca sviluppò una profonda indagine psicologica che coinvolse ogni altra esperienza: egli considerò l’amore uno stato d’animo fondamentale che determina la qualità della vita. Il poeta incontrò Laura e la immortalò nel suo Canzoniere.
Ma l’amore può anche essere anche considerato un impulso irrazionale e bislacco, come nel caso dell’attrazione di Angelica per Medoro descritta da Ariosto.
Angelica, figlia di Galafrone, re del Cataio, a causa del suo rango elevato, era altezzosa d’animo. Ella aveva «tutto il mondo a sdegno» sicché «non le pareva che alcun fosse di lei degno»; cosicché, annoiata dall’amore che le offriva Orlando e stanca dei corteggiamenti di guerrieri nobilissimi quali Rinaldo, Sacripante e Agricane, si lasciò corteggiare da Medoro, fante saraceno, perché attratta dalla sua bellezza fisica al punto da farne il suo sposo.
Quando Orlando lo venne a sapere, disperato, perse il senno; e si può capire: infatti egli, per conquistare Angelica, aveva abbandonato l’esercito cattolico, tradendo Carlo Magno, per conquistare la figlia del nemico giurato dei cristiani. L’amore tra Angelica e Medoro è l’emblema della irrazionalità passionale: infatti, prima di Medoro, per entrare nelle grazie di Angelica, si erano battuti sovrani e paladini, spasimanti eccelsi, eroi d’alto rango, che per quella donna avevano compiuto gesta meravigliose. Eppure, Angelica così appetita dalla nobiltà cavalleresca, s’innamorò di un semplice e devoto servitore!
L’amore spirituale, non corrisposto, suscitò nel Petrarca il senso della labilità emotiva. Le pene d’amore sottolineano lo smarrimento, la tristezza del vivere e il dramma della morte. Laura è il centro dell’universo, così come lo è ogni donna per il suo spasimante. L’amore di Francesco per Laura, durò, tra esaltazione e disperazione, vent’anni, e cioè fino alla morte della donna. Esso fu un sentimento che andò avanti con picchi di esaltazione e abissi di disperazione, ed ebbe il merito di essere il carburante per l’ispirazione artistica del poeta.
Cosa abbia provato Laura per Francesco Petrarca, e come ella abbia accolto l’amore del poeta, si può solo immaginare. Laura, compiaciuta dall’insistenza con cui il Petrarca le offriva il suo amore, forse influenzata dall’idea cristiana di dare una mano agli afflitti, oscillò tra il diniego e la trasgressione. Ad un certo momento di quella vicenda sembrò che stesse per cedere alle lusinghe d’amore tant’è che i suoi sorrisi indussero il poeta ad osare di più e ad essere speranzoso.
Ma poi Laura, forse perché già maritata, impensierita dall’audacia dello spasimante, si ritrasse. Probabilmente fu anche un’altra ragione a frenare la donna amata da Petrarca: sebbene lusingata dalle profferte sentimentali del Poeta, ella non era attratta fisicamente dal suo spasimante, trovandolo goffo e di scarso fascino sensuale, motivi che inaridirono la schermaglia amorosa, rimasta pertanto senza un incontro.
Dal canto suo, il poeta, ben lontano dall’aver risolto la conflittualità interiore tra amore celestiale e necessità terrene, e malgrado divulgasse le pene d’amore per Laura, intrattenne durante gli anni di passione per Laura, anche varie relazioni con altre donne, dalle quali ebbe due figli naturali, Giovanni e Francesca. Questo dimostra che anche nelle persone sentimentali come il Petrarca si possono evidenziare i risvolti contraddittori dell’amore.
A volte il sentimento d’amore è tenero, a volte inizia con toni pacati e ingigantisce a poco a poco; in altri casi è subito dirompente come una forza cosmica, o assume colorazioni mistiche o impeti sensuali; a volte è ambiguo e contraddittorio.
L’amore comincia come una dolcezza che prende il cuore: «Amor e ‘l cor gentile sono una cosa» dice Dante Alighieri nella Vita nuova. Guido Guinizelli afferma: «Al cor gentile ripara sempre Amore». E Guido Cavalcanti rincara: «Io non pensava che lo cor giammai/ avesse di sospir tormento tanto».
Sono variegati i segnali che invitano ad amare: la dolcezza di un sorriso, un’occhiata furtiva e penetrante, parole passionali, un particolare tono della voce, gesti teneri e allusivi, e persino alcuni attraenti atteggiamenti del corpo spingono ai fremiti dell’animo.
Tra due persone talvolta vi è un’attrazione cutanea, che non ha motivi logici ma solo biologici, e che si esprime nel trasporto verso una persona sollecitato da un particolare tipo di pelle, da un odore, da uno sguardo, da un timbro di voce, da attraenti movenze; e tutto questo indipendentemente da una sintonia culturale o etnica.
Per i poeti, l’esperienza sentimentale è vita e la poesia diventa il diario delle passioni, ora malinconiche, ora esaltanti, ma mai frivole, perché l’amore è la cosa più seria della vita. La sofferenza amorosa provoca anche una tensione sessuale che chiede di essere soddisfatta affinché la bufera affettiva si calmi. Per alcuni è necessario separare l’amore dal desiderio, per altri questa operazione è frustrante: per questi ultimi solo quando si coniuga eros e sentimento si raggiunge l’estasi. Era convinto di ciò Giovanni Boccaccio, quando s’innamorò a prima vista della sposa di un nobile, Maria dei Conti D’Aquino, incontrata in una chiesa di Napoli, e, diversamente da quello che era capitato a Dante e a Petrarca, ne fece la sua amante.
Con il Boccaccio la donna-angelo, fonte di virtù, di purezza, di trepida adorazione e di bellezza irraggiungibile, assume una svolta terrena e l’amore non è più solo sentimento celestiale, ma anche passione sensuale.
Dal Quattrocento in poi i sentimenti e l’ars amandi si trovano nuovamente nella saggistica, nella novellistica, nelle poesie e nelle commedie e i temi ricorrenti sono le pene d’amore e la passione sensuale.
Pietro l’Aretino figura d’intellettuale tra le più singolari e importanti del Rinascimento, anticonformista per eccellenza, ma pieno di tenerezza sincera per le donne, raccontò, senza veli, anche l’amore terreno e sensuale.
La narrativa dell’Aretino non ha riscontri in altri scrittori del tempo. Uomo popolare e simpatico, soprattutto ai giovani, Pietro condusse vita brillante, fu un erudito. Tuttavia la sua originale concezione dell’amore è stata travisata, perché i moralisti non compresero lo spirito che animava le sue opere e tramandarono dell’Aretino, per sacro conformismo, un’immagine lussuriosa e demoniaca, tanto che critici come il Croce, De Sanctis e Bontempelli,[180] hanno bollato senza appello i suoi Ragionamenti.
Anche Francesco de’Vieri, filosofo e letterato fiorentino del secolo XVI, autore delle Lezioni d’amore, e assertore, come l’Aretino, di una concezione laica dell’amore, disquisì sul sesso come nessuno aveva osato fare prima[181].
Dedicò un’indagine psicologica ai meccanismi del desiderio e dell’amore Leone Ebreo, nato a Lisbona,[182] il cui vero nome era Jehudah Abarbanel, e i cui Dialoghi d’amore, pubblicati a Roma nel 1530, ebbero una vasta risonanza.
Sul finire del XV secolo l’ascetismo medioevale era definitivamente tramontato e venivano rivalutati sia l’amore che la figura della donna. Bisogna però intendere bene cosa significa il termine “fine” dell’ascetismo medievale. L’amore di cui si ragiona nel ’400 e nel ’500 non è, come è considerato oggi, un sentimento che si conclude col matrimonio.
Andrea Cappellano, scrittore cinquecentesco, sosteneva che tra coniugi non può sussistere l’amore, dal momento che i loro non sono rapporti liberi ma obbligati da un contratto commerciale tra due famiglie. Dello stesso avviso fu l’umanista Angelo Firenzuola il quale, nel suoi Ragionamenti[183], difese la donna dall’accusa di inferiorità intellettuale, e sostenne che la moglie ha diritto a non concedere al marito il proprio animo. Secondo il Firenzuola, il marito può ottenere dalla moglie solo prestazioni corporee, ma non può pretendere amore. Infatti, dice l’Autore, la natura stessa del matrimonio non lascia spazio a questo sentimento.
Nel trattato Della nobiltà delle donne, Ludovico Domenichi mise l’accento sul valore culturale e sociale della presenza femminile nella storia e nella letteratura. Stesso intento ebbe il Dialogo di amore dell’erudito padovano Sperone Speroni, che tratteggia, con intuito psicologico molto profondo, il “fenomeno” dell’amore.
Della natura dell’amore discute Giuseppe Benussi, anch’egli scrittore di quel periodo, nel suo Dialogo amoroso, che riporta una vasta casistica di “questioni amorose”.
Il Varchi, letterato e filosofo del ’500 in una commedia, La suocera, tracciò le situazioni familiari e i rapporti di coppia, sottolineando gli intrecci psicologici, le gelosie, i tentativi di prevaricazione, ma anche le circostanze amatorie di quel periodo.
Questa apertura ai problemi dell’amore venne improvvisamente bloccata dalla Controriforma, la quale, volendo restaurare l’antica concezione medievale, soffocò il diritto all’amore terreno e contrastò l’esigenza, squisitamente rinascimentale, delle “pari opportunità”.
Il conformismo delle corti e delle accademie soffocò i primi accenni di femminismo, duramente repressi, anche se, grazie alla costanza di molte femministe ante litteram, non venne meno il fervore teso a rivalutare la figura della donna e dell’amore.
Un maestro nel mescolare sentimenti e passioni è stato William Shakespeare, che, ne La bisbetica domata ha creato una figura di donna protagonista che si oppone allo straripante maschilismo del tempo. In Romeo e Giulietta, Shakespeare anticipa l’amore romantico, sentimento capace del sacrificio supremo.
Nel Settecento, lo scrittore Carlo Gozzi, riaffermando che le trame teatrali e le situazioni da commedia prendono spunto dagli intrecci della vita, scoprì che nel palcoscenico, come nella realtà, le vicende amorose sono il motivo dominante della quotidianità. A partire da quel periodo, la produzione letteraria è sempre più imperniata sulle pene d’amore, sulle gioie e i dolori degli amanti. E così, in tutte le vicende teatrali e letterarie, in un modo o nell’altro, il motore della trama è quasi sempre l’amore, visto sia come sentimento languido ed adolescenziale, sia come rapporto maturo.
Molière nella commedia L’amore medico, tracciò un sentimento malinconico, quello della figlia di Sganarello, che consuma psicologicamente e fisicamente chi ama, nell’attesa di trovare l’anima gemella.
Invece il commediografo Carlo Goldoni nell’opera teatrale Gli innamorati, scritta a metà del Settecento, dimostrò come la passione amorosa si può trasformare in bagarre.
Nelle sue Memorie[184], confessò d’aver composto l’opera perché aveva seguito una vicenda della quale egli stesso era stato testimone. «Avevo ascoltato – scrive l’Autore – più di una volta le loro liti, le loro grida, le loro disperazioni, i fazzoletti strappati, i vetri rotti, i coltelli lanciati». Particolari che portarono Giovanni Antonucci, nell’introduzione alla commedia di Goldoni[185], ad individuare nei due fidanzati capricciosi e rissosi, la figlia dell’abate Piero Poloni, del quale il Goldoni era stato ospite a Roma e il di lei fidanzato, tale Bartolomeo Pinto; due che, sebbene fossero una coppia bene assortita, vivevano un travaglio passionale che aveva aspetti comici e drammatici, umoristici e seri.

L’amore come tribolazione

A mano a amano che si procedeva nel chiarire i significati dell’amore, l’indagine s’andò allargando anche su luci e ombre della vita di coppia: Amore è il titolo di un interessante dramma dello scrittore tedesco Anton Wildgans. L’opera, scritta nei primi del Novecento, sottolinea l’aspetto più amaro della vita a due: le incomprensioni, i dissidi, i peccati di immaginazione e i tradimenti.
Wildgans però mostra di sperare nella coppia: infatti, dopo varie esperienze e tradimenti i protagonisti, Anna e Vito, tornano assieme, rifondando l’unione coniugale.
Un’amara versione della vita di coppia si trova in L’amore di Loredana, romanzo di Luciano Zuccoli, nel quale l’autore sottolinea le trasformazioni psicologiche dei due protagonisti. Il romanzo racconta di una certa Loredana de Carolis, figlia di una modesta famiglia veneta, che fugge col conte Filippo Vagli, che vuole sposarla. Ma il Vagli, osteggiato dalla famiglia e avvilito dal pettegolezzo della gente, percepisce la sua fuga d’amore come una convivenza immorale e, provando sempre più pesante il fardello della trasgressione, vorrebbe por fine a quel rapporto socialmente insopportabile.
Loredana avverte il fastidio dell’amante per la loro irregolare relazione e abbandona la città in compagnia di un amico. Il romanzo è una acre constatazione del fatto che, più dell’amore, a volte, prevalgono le convenzioni e i pregiudizi sociali.
Alcune opere di Antonio Fogazzaro, tra cui, in primo piano, Piccolo mondo antico, esprimono il conflitto realistico e quotidiano, tra la religiosità e la sensualità, tra la passione e le rinunce, tra l’eros e il misticismo, che sono presenti nell’area culturale cattolica dell’Ottocento.
Fogazzaro sottolinea così la contraddittorietà tra il richiamo dei sensi e i rigidi divieti della religione. In un altro romanzo, Il Santo[186], lo stesso Autore racconta come il protagonista, Piero Maironi, sperimenta il dissidio tra l’etica cattolica e la furia dei sensi.
L’Autore, che era un intellettuale cattolico, trasse ispirazione dal desiderio di conciliare religione, morale e pulsioni sessuali. Egli fu portavoce del dissenso cattolico, che avversava la parte più retriva della Chiesa. Ma il Vaticano fece mettere all’Indice Il Santo che venne considerata un’opera sospetta di eresia agli occhi delle gerarchie ecclesiastiche, le quali intravidero, in essa, il modernismo anticonformista che s’opponeva alla rigida osservanza cattolica. Secondo gli inquisitori, la passione di Piero Maironi, repressa e sublimata nella rinuncia al piacere, e la sofferenza erotica, sottile e senza speranza, della protagonista, Jeanne Dessalle, non erano che un esempio di lussuria repressa e bisognava assolutamente impedire che venisse letto.
La Chiesa di Pio IX, mostrando una intransigente preclusione nei confronti del pensiero moderno e un’insanabile conflittualità col pensiero dei modernisti, si oppose a qualsiasi cedimento alla modernità, a qualsiasi libertà, che condannò nel Sillabo del 1864.

La situazione umoristica nell’amore

Nella letteratura gli intrecci di coppia sono stati visti anche sotto l’aspetto umoristico. Come fece Georges Feydeau, il commediografo che, nel primo decennio del Secolo XX, in una serie di commedie, trattò il tema del matrimonio e del divorzio con tocco esilarante.
In Léonie è in anticipo, Feydeau sottolinea il tema dell’isteria femminile, raccontando la storia di una donna che è sempre al centro dell’attenzione perché è incinta, ma che, nella realtà, sta solo avendo una gravidanza isterica.
Nella esilarante commedia Non andare in giro tutta nuda l’Autore narra la vendetta di una moglie che, trascurata dal marito, un uomo politico narcisista, egocentrico ed ambizioso, mette in imbarazzo il coniuge, punendolo nel suo amor proprio col presentarsi in pubblico, durante una importante manifestazione, in abbigliamento succinto e scollacciato.
Accenti satirici sul matrimonio, sulla ossessività e banalità di genitori preoccupati e ansiosi riguardo alla prole, si trovano nella commedia Si purga il Bebé.
In Forse che sì, forse che no, D’Annunzio cercò di dimostrare che non è vero che in amore le donne subiscono l’imposizione degli uomini, ma che sono le donne a condurre il gioco.
L’Autore inizia con queste parole la narrazione del romanzo: “ – Forse – rispondeva la donna, quasi protendendo il sorriso contro il vento eroico della velocità (…) – Non forse, bisogna che sia, bisogna che sia! (…) E’ una crudeltà quasi brutale, un’offesa al corpo e all’anima, un disconoscimento inumano dell’amore e d’ogni bellezza e d’ogni gentilezza dell’amore, Isabella. Che volete fare di me? Volete rendermi più folle? – Forse – rispondeva la donna aguzzando il suo sorriso (…) – Ah, se l’amore fosse una creatura viva e avesse gli occhi, potreste voi guardarlo senza vergognarvi? – Non lo guardo. – Mi amate? – Non so. – Vi prendete gioco di me? – Tutto è gioco.”
Isabella Inghirami,la protagonista del romanzo di D’Annunzio, è egotista così come l’uomo che la corteggia. Secondo l’Autore, infatti, chi tira le fila della commedia dell’amore è sempre la donna.

L’amore sensuale

Ma, a parte queste divagazioni amene, l’amore è quasi sempre narrato come sentimento dai significati profondi e come esperienza importante della vita.
Bernard I. Murstein[187] sostiene che tutti cercano amore e sesso, ma che le personalità incapaci d’amore hanno meno probabilità di essere soddisfatte anche fisicamente.
Il primo Novecento, come già l’Ottocento romantico, andava ghiotto dei racconti che narravano l’incapacità di resistere ai sensi, che delineavano sia l’ingenuità femminile che le peripezie cui andavano incontro, a causa della triste realtà sociale, le ragazze madri.
In quei romanzi a fosche tinte era tracciata la spregiudicatezza del maschio, e in qualche caso la morte della creatura innocente metteva ordine alla “storia”. Ingredienti questi, utili a strappare le lacrime e a rendere “interessante “sia la rappresentazione scenica che la lettura.
Il dramma della condizione femminile è rappresentato dal romanzo Giacinta, di Luigi Capuana. La trama è lo specchio delle situazioni drammatiche che sfociavano dai pregiudizi, dalla irragionevolezza della passione e dalla fatalità. Lo scrittore siciliano lo imbastì prendendo spunto da una storia vera.
Una ragazzina che aveva subìto brutalità sessuali da parte di un cameriere perse per anni la memoria di quell’accaduto. Il dramma le ritorna in tutta la crudezza quando sta per sposarsi. La memoria della orribile vicenda rende consapevole Giacinta di non essere illibata. Sentendosi condannata dai pregiudizi sociali, non vuole profanare il sacro vincolo del matrimonio e ad Andrea, lo spasimante che l’adora e che ella stessa ama, propone di divenire la sua amante, ma non gli confessa il triste motivo per cui ricusa d’essere sua moglie legittima.
Nemmeno quando aspetta un figlio, Giacinta chiede ad Andrea di regolarizzare la loro posizione. La donna, orgogliosa, non pretende nulla dall’amante, però, per convenienza sociale, si sposa col vecchio conte Giulio, che aveva chiesto la sua mano. L’anziano marito finge di non capire che la donna è incinta e nel contempo, venuto a conoscenza di chi è il padre della creatura, accetta la presenza di Andrea a casa sua. A questo punto scatta il dramma: l’uomo, al quale è finita la passione dopo la nascita della bambina, non va più a trovare l’amante, né si prende cura di confortarla nemmeno quando muore la figlia. Giacinta disperata perde il senno e si suicida.
Se Giacinta sottolinea il dramma della femminilità delusa, il romanzo Il Lupo della steppa, di Hermann Hesse, al contrario sostiene che l’uomo, quando incontra la donna ed entra in contatto col mondo della sensualità, rinnega la propria razionalità, il proprio pensiero e il proprio Logos.
L’amore, in altri termini, secondo Hesse, renderebbe insensato l’uomo, cancellerebbe la sua ragione, alterando la sua morale e stravolgendo la coerenza intellettuale.
Una teoria, però, discutibile, dal momento che Hesse afferma che è solamente il maschio innamorato a perdere la razionalità, e non indica che l’amore e le passioni possono essere variazioni della follia anche per la donna. La sua teoria sarebbe stata più accettabile se Hesse avesse affermato che chiunque ama è un po’ matto. L’esperienza insegna che non solo gli uomini ma anche le donne, le quali forse amano più degli uomini, perdono spesso la ragione quando s’innamorano. Bisognerebbe dunque proprio ribaltare il pensiero di Hesse: e sostenere il contrario, proprio come scrive Robin Norwood, e cioè che la donna innamorata è un po’ matta, perché non avverte i messaggi negativi e continua ad amare anche quando il suo compagno è distratto[188].
Hesse, ponendo l’attenzione sulla evanescenza e sulla inconsistenza dell’amore, sostiene che chi ama è sempre deluso dalla persona amata, anche perché, così egli afferma, l’innamorato, avendo posseduta la persona amata, si stanca di lei e volge altrove il proprio interesse. Sempre secondo lo scrittore tedesco, è impossibile rimanere attratti per lungo tempo dall’oggetto amato: «Chi ha un gran desiderio d’amore, non può avere un unico amante, perché la meta dell’innamorato è l’amore in sé, non l’oggetto dell’amore e così, chi è assetato d’amore lo ritrova e lo rigenera in ogni nuovo partner».
Il contatto con la femminilità, sostiene Hesse, scatena nell’uomo uno stato di grazia che esalta i suoi sensi; ma tutto questo può capitare senza alcuna connessione con una donna in particolare.[189]
Il poeta tedesco Joseph Eichendorff sposò la tesi di Hesse e nel romanzo Dalla vita di un fannullone, raccontò di un grande amatore, che passava da un’avventura all’altra; e ogni volta che riusciva a conquistare una donna, subito dopo s’annoiava. Eichendorff afferma che amando in modo borghese, si perdono gli stimoli erotici, perché quel tipo di etica è un sonnifero per i sensi: e se induce all’affetto e alla stima, castra però la sensualità.
Nel romanzo Esercizi d’amore, di Alain Botton, un best-seller,[190] il problema dell’innamoramento è trattato con l’umorismo tipico degli anglosassoni. In esso, il protagonista, depresso, s’innamora in treno di una sconosciuta ma, finita la novità, torna ad annoiarsi e si lega a un’altra ragazza. E così via, passa la vita, nel tran tran urbano, che rende nevrotici. Quale morale ricavare da Alain Botton? Se l’innamoramento è una panacea, esso non è eterno e bisogna goderne fin che c’è. Botton trasmette questo messaggio: «Non ve la prendete troppo se un amore finisce, un altro è già dietro l’angolo».
Anche nel romanzo Sarabanda, di Carmen Llera,[191] i personaggi (le cui vicende sono un’enciclopedia delle relazioni d’amore), si lasciano andare a tutte le variazioni della sfera affettivo-sensuale, perché «nulla v’è di definitivo e di perfetto in questo campo».
La letteratura amorosa aveva imboccato la strada delle passioni più diverse e narrava ogni tipo di tribolazione d’amore e di predilezione sensuale. Già a metà Seicento, il romanzo di Nicholas Chorier, Satyra Sotadica, aveva rappresentato uno spaccato della omosessualità femminile del tempo, e narrava come in quel periodo le orge fossero all’ordine del giorno. In un primo tempo l’autore non ebbe il coraggio di firmarlo e lo spacciò come la fatica letteraria di una presunta dama spagnola, una certa Aloysia Sigea.
Andando avanti in quella direzione, nel Settecento, in Inghilterra, John Cleland scrisse Fanny Hill, il cui sottotitolo era Memorie di una donna di piacere, solo in apparenza una esercitazione pornografica, è in realtà un crogiolo di spunti e riflessioni di carattere psicologico e sociale.
Lo scrittore settecentesco Nicholas-Edme Restif de la Bretonne licenziò alle stampe vari volumi sull’argomento sesso: Pornographe, La paysanne pervertie, Les parisiennes e, in fine, Les contemporaines ou Aventure des plus jolies femmes de l’âge présent, che è una raccolta di novelle licenziose.
Lo scrittore americano Francis Fitzgerald in uno dei suoi racconti della raccolta Maschiette e filosofi,[192] Il Pirata del mare aperto, racconta la vicenda di una ragazza emancipata, Ardiata, che in amore rinnega ogni condizionamento e ogni tradizione. La protagonista è un personaggio conturbante e sconvolgente, che sceglie gli uomini secondo il capriccio del momento, e mette in discussione tutte le regole perbenistiche e morali della società di quel tempo, anticipando le idee dei giovani degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Se i personaggi di Fitzgerald hanno avuto tanto successo è perché i suoi romanzi prendevano spunto non solo dalla vita reale, ma anche e soprattutto dalle proiezioni fantastiche, dalle illusioni della gioventù, e dai sogni della gente.
Secondo Fitzgerald, si diventa gelosi, sensuali, oppressivi, romantici o passionali secondo le esperienze che la vita riserva. Ma se l’amore, così come fortifica, può anche distruggere e alienare, e diventare un serio impiccio alla libertà.

L’amore proibito

Il francese Marcel Proust, nel disperato tentativo di nascondere la propria omosessualità, raccontò la struggente tenerezza per il suo amante, descrivendo quel sentimento come se fosse rivolto ad una donna. Per motivi di opportunità, volendo parlare liberamente della propria passione innominabile, Proust, nel romanzo Dalla parte di Swann, falsificò il nome dell’uomo che egli amava, e ne fece una figura femminile. Lo scrittore ebbe così la possibilità di creare pagine bellissime cosparse di tenera passione, mascherando il suo sentimento per un uomo, e trasformandolo con quello “più socialmente accettabile” per una donna.
Più disinvolto di Proust, Thomas Mann affrontò le ipocrisie dell’epoca Liberty, manifestando la propria bisessualità, nel romanzo Morte a Venezia, ritenuto una sfrontata confessione di un amore omosessuale. A coloro che criticarono la sua scelta, Mann rispose: “L’omosessualità, nella vita come nel romanzo, è un genere che rientra nel copione della quotidianità e della storia del mondo”.
L’amore omosessuale si trovava già tra i canti d’amore più antichi. Omosessuale fu la già citata poetessa greca Saffo, che nell’isola di Lesbo, compose versi bellissimi sei secoli prima dell’Era cristiana; e omosessuale, duemila e cinquecento anni dopo Saffo, fu il poeta Genêt, che nelle sue opere celebrò il sesso gay.
Nato da genitori ignoti, Jean Genêt, fu abbandonato alla Maternité, e in seguito chiuso nella Colonia correzionale di Mattray, il cui ambiente corrotto segnò una svolta definitiva nella sua personalità: in quel posto divenne omosessuale. In seguito, fuggito dal riformatorio, si arruolò nella Legione straniera, ma disertò dopo qualche tempo e visse mendicando e rubando. Più volte arrestato, venne scarcerato sempre grazie ad amici influenti come Sartre e Cocteau.
Genêt, considerato antiborghese, controcorrente, e poeta maledetto, fu osteggiato per la sua “diversità”. Poiché negli anni Cinquanta l’omosessuale era considerato un criminale o un matto, Genêt, ribellandosi a quel luogo comune, e ponendosi contro ogni convenzione, rifiutò la società che lo ripudiava, e preferì passare per delinquente, piuttosto che per matto, posizione nella quale, invece, si rifugiavano gli scrittori omosessuali per non essere perseguitati.
Il maggior biografo di Genêt, Edmund White,[193] anch’egli omosessuale, professore di letteratura a Princeton, fu lo storico più accreditato dell’America gay[194] e, con i suoi romanzi diffuse il problema dell’omosessualità, mostrandone l’attualità e la drammaticità. Per uno di questi romanzi, La sinfonia degli addii, White, tacciato di immoralità e accusato di voler diffondere l’omosessualità, subì un processo.
Un altro tabù è ammettere che l’amore sia un trucco della natura umana per perpetuare la specie. I romantici, infatti, respingono la convinzione che la base degli ‘intrecci affettivi’ sia questo escamotage. Sebbene antropologi, sociologi e sessuologi siano convinti che l’amore serva a favorire la necessità biologica di riprodursi, la gente non accetta che l’amore venga analizzato in questi termini. Se ne rese ben conto il tedesco Frank Wedekind.
Wedekind col suo dramma Risveglio di primavera del 1891, suscitò un vespaio di critiche, perché mise sotto accusa la morale e l’educazione sessuale borghese, che, essendo, a suo dire, “innaturali” portano spesso a conseguenze disastrose.
Anche l’altro romanzo di Wedekind, Lo spirito della terra, scritto dopo il Risveglio di primavera, suscitò polemiche: in esso l’Autore narrò l’amore sensuale come forza elementare, primitiva. La protagonista, Lulù tutto istinto, affascinante simbolo di una femminilità perversa, domina l’uomo e da lui vuole, a sua volta, essere dominata.
Il dramma è un anelito alla libertà contro le catene della morale, ma la vicenda è anche pervasa da una maschilista concezione vampiresca delle donne, proprio come a quel tempo s’usava tratteggiare la femminilità.[195] Lulù rappresenta, nel contesto della società borghese in cui la sessualità è ritenuta il male per eccellenza, l’incarnazione della tentazione e della seduzione che portano alla perdizione.
Wedekind, nella vita, fu coerente con quanto andava affermando nelle sue opere. Il suo matrimonio fu una travolgente esperienza sensuale ma lo scrittore non disdegnò le “evasioni”; frequentò le prostitute – che allora si chiamavano cocotte – ed ebbe varie relazioni con donne dell’alta società e della borghesia, poi descritte come figure di donne amanti-mantidi.
Quando Wedekid morì, il suo funerale fece scandalo perché dietro la sua bara c’erano le entraîneuses che egli aveva amato e che aveva conosciuto nei locali notturni. A chi cercava di consolare la vedova per renderle meno acre la presenza di quelle femmine al funerale del marito, Tilly, attrice molto nota a quel tempo, rispose: «Al seguito di Frank ci sono più o meno lo stesso genere di persone come al funerale di qualsiasi altro distinto signore. Solo che nel caso del distinto defunto borghese, le donne che allietarono la vita del morto si mimetizzano. Il distinto defunto avrebbe temuto anche “lui” di mostrare in pubblico le sue conquiste, e sarebbe terrorizzato dalla loro presenza. Invece sono certa che Frank sarebbe orgoglioso se potesse vedere ciò che accade al suo funerale».
Anche Schopenhauer[196] – sul piano filosofico – sosteneva che l’amore è soprattutto una spinta fisio-psicologica, “un’astuzia della natura” per indurre a procreare: «L’uomo ha voluto spiritualizzarlo, ma questo non serve a niente. L’innamorato che scrive madrigali per la sua bella non fa niente di diverso, nella sostanza, del merlo che fischia sul ramo. Lo scopo, metafisicamente parlando è identico: perpetuare la specie». Il filosofo tedesco riteneva gli innamorati “ubriachi che non perdono mai la sbornia”, perché l’amore non può essere dominato dal ragionamento e “non ammette né ragione, né equilibrio”. Secondo Schopenhauer, dagli avvenimenti che condizionano l’esistenza non tutti sanno trarre insegnamento e non tutte le persone raggiungono la maturità, sicché anche l’innamoramento non serve a migliorare, né giovano le esperienze; molte persone, infatti, sosteneva il filosofo, se non sono allenate ad apprendere, nulla ricavano dalla vita e restano a volte grezze e primitive, qualsiasi genere di esperienza capiti loro.

L’amore pudico e misogino

E a volte anche chi affronta certi problemi, secondo l’angolatura con la quale li considera, può restarne poco coinvolto.
Un caso paradossale è quello di Alessandro Manzoni che scrisse i Promessi sposi – una storia centrata sulla vicenda di due innamorati ostacolati nel loro amore – ma cercò di parlare poco dell’amore stesso. Nelle susseguenti versioni dell’opera, scrive Vincenzo Di Benedetto,[197] l’Autore eliminò quasi sempre accenni diretti all’amore e tese sempre più ad attenuare qualsiasi riferimento erotico. E così ad esempio, se in Fermo e Lucia parlando di Geltrude, si diceva «il seno era succinto», nella versione del 1827 questa frase divenne «la vita era succinta», per finire, nel 1840, «era attillata». In Lucia sembra essere del tutto assente qualsiasi riferimento all’amore, alla tenerezza, al desiderio, come se questo genere di pensiero fosse non solo represso, ma del tutto eliminato; e Renzo, anche se è presentato come un normale rappresentante del sesso maschile, appare anche lui del tutto asessuato.
Il Manzoni pur dando “per scontato” che l’amore è un valore a cui tendono i due giovani promessi, tuttavia non gli dà alcuno spazio sul piano concreto.
Come coinvolta da “vichiani” corsi e ricorsi storici, la letteratura, dopo la ventata di femminismo, in qualche caso sembra ripiegare sul maschilismo medioevale, che considerava la femmina oggetto del demonio, essere conturbante che distrugge l’uomo.
Uno scrittore noto negli anni Venti, Francis Marion Crawford,[198] vissuto molti anni in Italia, narrò in For the Blood is the Life la storia di una ragazza calabra, “ bella creatura selvaggia, dagli occhi neri e dalle seducenti labbra rosse”, che seducendo gli uomini in modo vampiresco, approfittava di essi. Lo stesso autore trattò il tema della pericolosa seduzione femminile, in un altro romanzo, La Strega di Praga[199] nel quale narra di una donna, sessualmente disinibita, e proprio per questo considerata un essere malefico, fonte di tanti guai per gli uomini che l’avvicinano.
Può accadere che un personaggio sia inconsciamente ispirato, nell’opera d’arte, da un transfert reale dell’autore. Un esempio di transfert che condiziona l’opera letteraria è fornito da Strindberg, il quale descrisse spesso la donna come un vampiro che annienta l’uomo.
Nelle sue opere è manifesta la tragica, atavica misoginia che egli assimilò durante l’infanzia. Il drammaturgo svedese, descritto da qualche critico come figlio delle imposture culturali propagandate a cavallo tra l’800 e il ‘900, in realtà trattò il rapporto tra i sessi come una guerra, proprio a causa dei traumi infantili.
La sua concezione bigotta del rapporto uomo-donna, appresa nell’infanzia, e modellata dalla misoginia e dall’ossessivo senso del pudore del padre, gli fece vedere l’amore come una persecuzione. Strindberg, che da piccolo aveva vissuto la vita come un evento doloroso, da grande ebbe un carattere tormentato di persona delusa.
La relazione che Strindberg intrattenne con la bella Siri von Essen, moglie del Barone Wrangel, e che in seguito egli sposò, dopo avere divorziato dalla prima moglie, gli divenne presto insopportabile. In realtà Strindberg trasferì nei confronti della bella Siri il rancore e l’odio causati dalla misoginia appresa in adolescenza, che gli facevano ritenere inevitabili i dissapori in seno alla coppia.
Uno scrittore antifemminista, Joseph Conrad, nel romanzo Cuore di tenebra, descrisse la donna come essere della natura bruta e demoniaca, che sprigiona seduzioni mostruose.
E pure il romanzo Congo Song, di Stuart Cloete apparso nelle edicole nel 1943, quarant’anni dopo quello di Conrad, e venduto in oltre venti milioni di copie, considera la donna l’incarnazione del vampiro e racconta le molteplici avventure sessuali della protagonista, Olga le Blanc, considerata anch’essa una mantide.
Ed allora bisogna dire che il filone misogino, classico, medioevale, non si è spento: la donna turba ancora l’immaginario maschile, e l’aggressività diabolica rappresentata da Salomé, da Giuditta, da Astarte, da Lilith, si ripropone anche ai nostri giorni con personaggi femminili ai quali vengono attribuiti gli stessi significati deleteri che le furono affibbiati nel’antichità.
Lo spettro muliebre, indicato nel libro di Isaia (34, 14), è il demone della lussuria che ruba il seme agli uomini dormienti.

L’amore romantico, panacea della vita

Naturalmente esiste anche un modo diverso di narrare l’amore, che prende le distanze da Tolstoj e da Strindberg, ed è quello dello spirito romantico, che lo considera una panacea per i mali della vita. «Fu il Romanticismo l’epoca in cui l’amore ottenne una straordinaria promozione collettiva – scrive lo storico Joan Fuster[200] – e non è per ciò un caso che oggi l’amore venga definito romantico».
Il romanzo dell’Ottocento, le poesie d’amore di quel secolo, i feuilleton e le altre opere di teatro ebbero il compito di mettere a nudo tutte le sfaccettature delle situazioni amorose.
La letteratura ama spesso narrare tragici e struggenti amori. Tra questi, emblematici, l’amore che legò Carmen a Don Josè, brigadiere del reggimento di dragoni, e quello che unì Manon Lescaut al giovane Des Grieux.
La passione di Emma Bovary, moglie di un mediocre medico di campagna, per il giovane Rodolfo ha commosso il mondo intero. E un romanzesco lirismo si trova anche nella relazione che unisce Marguerite Gautier, La Signora delle Camelie, ad Armand Duval: resta immutata l’attrazione del pubblico per la vicenda sia letteraria che nella trasposizione musicale del personaggio di Violetta dell’opera di Verdi.
E a proposito di Manon Lescaut, la protagonista femminile del romanzo di Antoine Françoise Prevost d’Exiles, descritta come donna fatale, incostante, sensuale e perfino crudele, quando riceve l’imprimatur dell’arte, si trasforma da fille de joie in ancella dell’amore. Ella non è più donna volgare e crudele, come venne chiamata dall’amante, ma donna che ispira sentimenti di riverenza e di rispetto. L’opera che andò alle stampe nel 1752, fu letta avidamente e con scandalo. Trasformata in opera teatrale, porta gli spettatori ad applaudire e a commuoversi per una storia sentimentale. Ma se gli spettatori appurassero una vicenda consimile tra i propri vicini di quartiere, avrebbero molto da ridire sulla moralità di quei personaggi.
Anche un’avventura più o meno torbida come quelle citate, supportata dall’amore, è trasformata in un emblema di nobile sacrificio.
Il numero dei romanzi in cui entra in qualche modo l’amore è sterminato ed è impossibile accennare a tutti. Volendone segnalare alcuni, non si può che citare a caso: De l’amour di Stendhal, Adolphine di Constant, Luisa Miller di Schiller, Paolo e Virginia di Bernardin de Saint-Pierre, Madame Bovary di Flaubert, Malombra di Fogazzaro, René di Chateaubriand, Per chi suona la campana di Hemingway, Via col Vento di Mitchell, Come le foglie di Giocosa, La romana di Moravia, La prima moglie di Dafne du Maurier, Il Dottor Zivago di Pasternak, L’ereditiera di James, e così via.
Ma l’amore romantico ha risvolti non sempre positivi. Molte opere, pur veicolando inesauribili amori e grandi passioni, e pur essendo dal punto di vista letterario dei preziosi capolavori, sono pedagogicamente nocive. Goethe descrisse ne I dolori del giovane Werther una vicenda amorosa che coinvolse emotivamente tantissime persone le quali si identificarono col personaggio dolorante dell’innamorato senza speranza.
L’opera di Goethe, scritta nel 1774, ricca di poesia e di irrazionalità dirompenti, ha affascinato milioni di lettori. In essa si racconta di Werther, giovane pieno di passione, innamorato di Carlotta. La ragazza però è promessa sposa ad un altro uomo, scelto dai genitori della ragazza, e che, tra l’altro è amico dello stesso Werther. L’impossibilità di strappare la donna amata al destino che l’attende, induce l’innamorato al suicidio. Goethe aveva tristemente sperimentato in prima persona la pulsione suicida, quando amò inutilmente Charlotte Buff, la quale alla fine sposò il suo antico fidanzato, Johan Christian Kestner.
Fu appunto di questo triste amore che Goethe ha lasciato ampia testimonianza nelle Lettere a Lotte, disseminate di disperazione romantica.
Purtroppo, la pubblicazione de I dolori del giovane Werther, sconvolse la gioventù del tempo, e, all’epoca in cui vide la luce, fece aumentare i suicidi, a imitazione delle infelice storia raccontata dal grande scrittore tedesco.
Anche la lettura delle Ultime lettere di Jacopo Ortis del Foscolo, opera che riprese il tema del Werther di Goethe, incentivò i suicidi dei romantici giovani dell’800.
In seguito l’opera fu condannata dallo stesso autore, che nella sua maturità, la definì espressione di un romanticismo patologico. Ugo Foscolo, ritenne addirittura ‘malsano’ lo spirito che anima quell’opera, e temette che avrebbe potuto esercitare sui giovani un influsso pericoloso, tant’è che il poeta si augurò che fosse letta solo da gente matura ed equilibrata.
Il racconto, invece, fu “divorato” con passione da molte persone e fomentò l’elevata suggestione romantica, tipica di quel tempo. Esso esaltava l’amore eterno per una donna che, per un tragico destino, va sposa ad un altro uomo. Di stravaganze e di eccentrici rapporti è fatto il racconto di Stendhal nel romanzo Il rosso e il nero scritto nei primi decenni dell’Ottocento.
La vicenda è una saga di sentimenti ineluttabili e sconsiderati, che, pare, l’Autore abbia ricavato da una storia realmente accaduta. Al centro degli avvenimenti narrati, il giovane Giuliano Sorel e due donne, la signora di Rênal e la giovane Matilde Môle. Sorel ama, ricambiato, la signora Rênal del cui figlio egli è precettore. Ma la relazione che il giovane ha con la donna sposata, in quel piccolo centro, è ormai sulla bocca di tutti, sicché Sorel, per evitare l’imminente scandalo, va a Parigi.
Nella capitale francese il giovane è assunto come precettore e s’innamora di Matilde, figlia del suo ospite; solo che, quando Sorel sta per sposare la ragazza, la signora Rênal, ancora innamorata di lui, manda a monte il matrimonio rigurgitando veleno e discredito sulla moralità del giovane.
A quel punto, Sorel, venuto a conoscenza dell’intrigo che ha fatto fallire la sua unione con Matilde, impedendogli di entrare nell’alta società parigina, torna dalla vecchia fiamma per ucciderla, ma inesperto com’è la ferisce solamente. Per quel gesto, il giovane viene condannato a morte, e nemmeno le preghiere della stessa signora Rênal, ancora innamorata di Giuliano, ma oramai guarita e pentita, rivolte alla Corte, ottengono clemenza per il suo ex amante, che finisce comunque ghigliottinato.
Il romanzo ha appassionato ed esaltato la fantasia di generazioni e il suo successo è dovuto probabilmente alla vicenda permeata dall’irragionevolezza dell’amore. La signora di Rênal rappresenta l’insanabile contraddizione tra la sudditanza all’educazione religiosa, moraleggiante e sessuofobica, e l’inalienabile bisogno di libertà sessuale. Desiderio dell’amore libero e paura di violare il precetto religioso, passione e pudicizia sdegnosa, pericolosa miscela di reazioni infantili e di comportamenti irresponsabili, che fa perdere il lume alla moglie del signor Rênal. Del resto, Giuliano Sorel, decadente simbolo del sottile mal romantico, è sentimentalmente infelice e inquieto.
Personaggi come questi non sono insoliti nella letteratura; basta tenere presente i protagonisti dell’altro romanzo di Stendhal La Certosa di Parma, in cui Clelia Conti, la duchessa Sanseverina e Fabrizio danno vita ad una schermaglia contorta di affetti.
Nella tragedia Maria Maddalena che Chistian Friedrich Hebbel scrisse durante un suo soggiorno a Parigi nel 1843, la debole Clara, dopo aver ceduto alla volontà di Leonardo, si dibatte implorando la pietà divina, ma, ritenendo la sua condizione oramai senza via d’uscita, vive nell’ansia d’espiazione e della morte.
Un’altra Clara, il personaggio chiave del romanzo Il padrone delle ferriere di Georges Ohnet, scritto nel 1882, è stata amata da generazioni di lettrici, rapite dalla sorte di una donna, somigliante a molte di esse, sdegnosa, triste, convenzionale, sognatrice e forse anche un po’ vuota. Emblematico di un certo genere di amore romantico, fatto di sogni, di ricordi, di casti baci è quello di Eugenia Grandet, personaggio dell’omonimo romanzo di Balzac, che resterà “fedele” al ricordo incancellabile del cugino Carlo, e assurdamente, non vorrà disfarsi di quel sogno come se si trattasse del più prezioso dei suoi averi, e rinunzierà per sempre a qualsiasi altro legame “reale”.
A lettori dalla facile emotività, Carolina Invernizio, con i suoi romanzi d’appendice, da L’orfanella di Collegno a La vendetta di una pazza, scritti alla fine del secolo XIX, ha elargito personaggi ineffabili, preda di sortilegi amorosi e di agghiaccianti risvolti drammatico-passionali che hanno fatto, purtroppo, da modelli psicologici e comportamentali ad intere generazioni.
Né si può tacere della giovane ed inesperta Caterina e del vendicativo e fatale Heathcliff, che danno vita al romanzo di Emily Brontë Cime tempestose, scritto nel 1847; né dell’ammirata protagonista del romanzo L’ereditiera, scritto agli inizi del Novecento dallo statunitense Henry James, vittima dei sentimenti romantici.
I due protagonisti del romanzo sono un tenebroso e affascinante cacciatore di dote e una succube, ma dignitosa donna di squisita soavità, di sensibilità tormentosa, di devozione sublime, che una volta concesso il suo cuore, non smette d’amare nemmeno quando si rende conto che l’uomo è un ipocrita e un falso. Due protagonisti che, nelle vicende quotidiane del tempo, si potevano incontrare anche nella vita comune.
E un’altra Caterina, la Ivanova, personaggio principale dell’omonimo dramma scritto nel 1912 dal russo Leonid Andreev, è una donna descritta al centro di foschi adulteri, di passioni sentimentali e preda di impalpabili demoni che dirigono l’orchestra dei suoi sentimenti
Interessante ma certo educativamente poco ‘esemplare’ è il personaggio di Cirano di Bergerac, protagonista del famoso romanzo del poeta drammatico Edmond Rostand, che lo scrisse nel 1897: figura romantica, decadente, cavalleresca, che ha commosso e appassionato legioni di lettori per l’amore che il suo viso sgraziato e la sua timidezza non gli consentivano di esternare. Cirano, sensibile e delicato d’animo, può manifestare la sua carica erotica solo per interposta persona.
Questi personaggi passionali, innamorati dell’amore, hanno reso emblematici i grandi amori ed hanno condito le storie di risvolti esasperatamente romantici, non sempre positivi ed educativi per le giovani generazioni.
L’amore romantico, riedizione del legame affettivo medievale tra signora e trovatore, un tempo espresso dall’amore cortese, nell’Ottocento e nel Novecento si è colorato in opere, come quelle di Luciana Peverelli o di Liala, di sentimentalismi sdolcinati, che fecero da sfondo, per anni, agli amori e alle passioni delle signorine e dei giovanotti dell’epoca.
Più moderno delle due scrittrici ora citate, Leo Buscaglia,[201] per parte sua, ha tracciato in libri di successo un quadro insipido e improbabile dell’amore. Egli lo ha descritto nei suoi romanzi – pur di grande successo – come un eden zuccheroso, ma privo di spessore.
Pur tuttavia il fenomeno letterario dei racconti sentimentali è di portata universale ed ha contribuito a dilatare enormemente l’interesse per la lettura: ai romanzi d’amore si sono appassionati le giovani sarte, le commesse dei magazzini, il praticante barbiere, il commesso della farmacia, le signorine di buona famiglia, le cameriere, le studentesse delle medie, i ragazzi che cercavano in quelle pagine “la spiegazione della femminilità”, le signore che avendo superato una certa età sognavano ancora un’ultima avventura, quanto meno “virtuale”; insomma, tutti quelli, che in un modo o nell’altro avevano tante domande da porre sull’amore. Questa educazione alla lettura e alla meditazione sulla sfera affettiva, ha avuto però una contropartita: di solito, quel genere di romanzi non avevano niente di serio da insegnare, anzi, erano spesso vacui e diseducativi per le giovani generazioni.
A questo tipo di letteratura amorosa faceva peraltro eco un vasto repertorio di canzoni strappalacrime, cantate con enfasi romantica, così come oggi fanno eco le fiction televisive. Tutto questo ha comportato anni di sentimentalismi sdolcinati, di “amori che non sono davvero amori”, di esteriorità stucchevoli e di situazioni da romanticismo decadente. I ‘romanzi d’appendice’ – e più di recente, certi fotoromanzi e telenovele – hanno contagiato lettori e lettrici, trasmettendo loro il morbo di un romanticismo deteriore, e trasformando nelle loro menti la naturale sensualità in sterili sentimentalismi.
In calce a questa letteratura “liquorosa”si può collocare l’amore al tempo del fotoromanzo[202]. Si tratta di un genere di racconto sentimentale che ebbe inizio subito dopo la Seconda Guerra Europea, e vide la luce per primo in Italia. Malgrado questo tipo di narrazione in veste fotografica abbia ricevuto il biasimo degli intellettuali, essa è stata un vero successo editoriale.
Domenico Del Duca, il primo editore del fotoromanzo, lanciò in edicola, nel 1946, Grand Hotel ed ebbe subito un grande successo di vendita. La formula era indovinata: il racconto stuzzicava l’interesse delle casalinghe, dei giovani, delle persone in cerca dell’anima gemella. Inoltre si fondava su un mondo denso di amore, di contrasti sentimentali quasi tutti “a lieto fine” e in cui l’esistenza di rapporti sessuali era bandito o solo intuito.
Ciò rendeva gradita questa narrativa alla grande massa “borghese” la quale si fondava sull’idea che il sesso era una attività assolutamente indegna di essere raccontata. Così, mentre romanzi del tipo La Romana di Moravia erano biasimati e subivano l’ostracismo, erano lasciate indisturbate “dai depositari della morale corrente” testate come Grand Hotel, Bolero Film, Sogno, Tuttavia, per il clima eccessivamente perbenistico del tempo, chi comprava questi giornali era pur sempre considerato trasgressivo.
Malgrado raccontassero storie melense e poco realistiche, non si può ignorare, a distanza di tanti decenni, che i romanzi a fumetti misero a nudo uno spaccato sociale non privo d’interesse: il ritratto di un Paese, che uscendo dalle rovine della guerra, aveva iniziato la sua crescita verso il benessere.
Guardando in retrospettiva l’operazione commerciale del fotoromanzo non si può non notare che vi parteciparono attivamente molte “stelle crescenti” del firmamento cinematografico, della rivista e della televisione, tra cui Sofia Loren, Giorgio Albertazzi, Mike Bongiorno, Vittorio Gassman, Raffaella Carrà , Carla Gravina e molte tante.

L’amore contraddittorio e problematico

Luigi Pirandello, da un uomo realista e disincantato, dubitò della capacità della gente di far luce sui propri sentimenti e soprattutto sull’amore. Il drammaturgo siciliano sottolineò l’ambiguità contraddittoria dell’amore che produce effetti disastrosi.
Nei tre racconti dal titolo Amori senza amore, Pirandello descrive gli equivoci dovuti alla incapacità di capire il proprio Io. Ognuno dei tre racconti viviseziona un rapporto matrimoniale e mette a nudo il complicato intreccio di relazioni, condizionate da luoghi comuni, da regole imposte dal pudore e dai tabù, che alla fine conducono all’incomunicabilità.
Pirandello in Amori senza amore sembra precorrere il fallimento del proprio legame con Antonietta Portolano; il racconto sembra quasi un presentimento, dal momento che il drammaturgo lo scrisse proprio l’anno in cui prese moglie.
Nato e vissuto nell’ambiente piccolo-borghese della provincia meridionale, Pirandello intravide, negli interstizi delle relazioni umane, e in particolare quelle tra i sessi, le ambiguità e i cliché di un’epoca in cui le relazioni tra uomini e donne erano fondate soprattutto sulla misoginia e sulla misantropia. Un’epoca in cui l’ipocrita educazione sessuale rovinava la salute mentale, soprattutto quella femminile[203].
Abbandonati gli atteggiamenti sdolcinati – quelli che qualcuno chiamò “dell’epoca dei telefoni bianchi” – ed educati dalla Seconda Guerra Mondiale che mise i reali sentimenti a dura prova, la letteratura, il teatro e le canzoni “riscoprirono” che l’amore si compone anche di esigenze sensuali.
Ma l’operazione non si completò: ancora oggi, sebbene le trasgressioni, soprattutto quelle delle coppie celebri siano accettate, la gente giudica ancora con puritana ipocrisia i propri vicini di casa che si separano. Così le storie piccanti relative alle personalità della cultura, dei media, dell’arte, della moda, della politica sono viste con benevolenza, a volte persino con simpatia, mentre se il travet o la casalinga trasgrediscono vengono perseguitati dalla disistima sociale.
Il riferimento di questa contraddizione è legato a storie letterarie di tutti i tempi.
Quella di Paolo e Francesca è ritenuta una vicenda fascinosa e struggente, ma non è altro che un comune tradimento. Francesca da Rimini venne chiesta in moglie da Paolo Malatesta, per conto del fratello Gianciotto. Ma quell’incontro occasionale sprigionò nei due cognati il fuoco dell’amore e così, poco dopo il matrimonio, Gianciotto trovò la donna in intimità col fratello Paolo e li uccise senza batter ciglio. Il tradimento nei confronti di Gianciotto è passato come un evento trascurabile e i due amanti sono ancora ricordati come l’emblema del grande amore.
Se la vicenda fosse accaduta in una famiglia borghese, sarebbe stata una squallida storia di tradimento; essendo avvenuta tra nobili del passato, è considerata un caso letterario, una bellissima storia d’amore.
E nessuno si scandalizza se il prode Lancillotto ebbe a tradire il suo re, e ne sedusse la sposa, la regina Ginevra. Lancillotto non ebbe alcuna titubanza nel tradire il signore, né la donna esitò nel donarsi al bello e nobile eroe: entrambi non provarono alcun senso di colpa. Così come nessuno ha nulla da ridire sulle vicende di Tristano e Isotta, di Davide e Betsabea, di Rinaldo e Armida, di Angelica e Medoro, di Orlando e Angelica, di Eloisa e Abelardo, tutte storie di tradimenti e di passioni irregolari.
Dall’interesse che suscitano queste vicende, sembrerebbe che l’amore, per essere esaltante, debba essere frutto di una follia; del resto le passioni che terminano con un dramma o addirittura nel sangue, trovano più appassionati di quelle a lieto fine.
L’amore di Edipo e Giocasta, il cui incesto con relativa nascita di quattro figli avrebbe dovuto essere niente di più che una vicenda imbarazzante, è invece ricordata da più autori come una famosa seppur tremenda storia d’amore.

La pittura e l’amore

Così come la letteratura è testimone dei sentimenti, anche la pittura segnala storie d’amore: Raffaello Sanzio ritrasse più volte la bella popolana Margherita Luti, più comunemente conosciuta come fornarina, che egli amò teneramente e che ritrasse in molte opere: in un dipinto esposto nella Galleria Nazionale di Roma, nell’affresco del Parnaso in Vaticano, nel quale il pittore la ritrasse sotto le sembianze di Clio, la prima delle nove Muse, e nella Trasfigurazione che si trova nella Pinacoteca Vaticana.
E sembra che anche il Giorgione abbia dedicato un’opera, il ritratto intitolato Laura, ad un’amante della quale volle ricordare per sempre l’effige.
Intorno al 1630 Rembrandt pensò di illustrare il suo amore per Saskia nel quadro Rembrandt con Saskia seduta in grembo, dipinto durante un loro felice viaggio in Italia. In esso è raffigurato l’Autore, con la moglie sulle ginocchia, mentre bevono spensierati.[204]
Francisco José Goya y Lucientes compose splendide opere come la Maya desnuda e la Maya vestida perché era follemente innamorato di Maria del Pilar, XIIIa duchessa D’Alba, donna che il pittore ritrasse, nei due quadri ora citati, una volta nuda e una volta vestita.
Henri Toulouse-Lautrec disegnò giovanissimo il ritratto della pittrice Suzanne Valadonne della quale era innamorato, e Paul Gauguin immortalò nel 1890 nel quadro Ragazza di Tahiti la bella polinesiana che fu per qualche tempo la compagna della sua vita.
Degas, oltre che ai ricordi d’infanzia della propria mamma, s’ispirò a persone conosciute. Le sue creature pittoriche sono tratte dunque dal mondo reale, e tra esse vi sono anche donne che il pittore amò e che ritrasse con occhio disincantato, ma profondamente umano e con tratto poetico.
La coppia “ ideale” Paolo e Francesca è stata ritratta da molti pittori. Anselm Feuerbach, in un dipinto idilliaco, riprende i due giovani assorti nella lettura, prima del fatidico bacio. Anche Dante Gabriel Rossetti, nel 1855, ricordò l’episodio in un famoso acquerello. Jean A. D. Ingress ha inserito la figura del marito tradito nel suo Paolo e Francesca del 1834. Gaetano Previati racconta in maniera tragicamente “realistica” la coppia, unendo in un macabro abbraccio i due amanti trafitti dalla spada del coniuge tradito.
L’amore di Dante per Beatrice è raccontato da Gabriel Rossetti, nel suo Il sogno di Dante al tempo della morte di Beatrice (1848).
Il Trionfo dell’amore è più volte raffigurato in vari affreschi e quadri, tra cui quello di Apollonio di Giovanni (1470), Liberale da Verona (1450), Carlo Cignali ( 1679), Mattia Preti ( 1680).
Anche le vicende e i personaggi delle Novelle del Decamerone sono ricordati nell’arte pittorica. William Hogart (1759), Francesco Umbertini ( 1520), Bernando Mei (1650) hanno rievocato nei loro dipinti la novella di Ghismona, mentre la novella di Griselda è affrescata da Francesco di Stefano detto il Pesellino ( 1450), da un’opera della Scuola Lombarda ( 1450), da Angelica Kauffman (1766), dal “Maestro delle storie di Griselda” (1480).
La novella di Alatied è stata raffigurata da Apollonio Di Giovanni, (1450), Giuseppe Cades (1750.
Scene dal Decamerone le hanno ritratte Thomas Schmidt (1510), Maestro di Carlo Durazzo ( 1450), Vittore Carpaccio (1540), W.H.Hunt (1867) Gustave Moreau ( 1890), Francesco Podesti (1850).
Anche all’Orlando Furioso si sono ispirati molti pittori, tra cui Piter Paul Rubens (1628), Stefano Della bella (1637), Filippo Napoletano ( 1617), Giovanni Lanfranco ( 1616), Cecco Bravo (1640). J A.D. Ingres (1839), Eugène Delacroix (1860), Arnold Böcklin ( 1874). In particolare, Angelica e Medoro sono stati oggetto di grande interesse. Li hanno ritratti Gianni Lanfranco ( 1633), Jacques Blancard (1635), Giambattista Tiepolo (1757), Sebastiano Ricci (1729), Alberto Savinio ( 1931).
Anche le coppie che si trovano nella Gerusalemme Liberata sono state oggetto d’attenzione di molti pittori, tra cui Domenichino ( 1620), Antonio Van Dyck (1629), Nicolas Proussin ( 1628), Giuseppe Bottani ( 1766), Gian Antonio Guardi (1760), Guercino ( 1618), Tiepolo ( 1724)
Robert Reid nel suo Fleur de Lys, suggerisce l’immagine simbiotica della donna e dei fiori, e in quel quadro egli raffigurò la donna che amava in quel momento.
Sarebbe impossibile elencare tutte le opere pittoriche centrate sull’eros, ma va ricordato come il mezzo pittorico sia stato – prima dell’avvento della fotografia e della ripresa cinematografica – un canale privilegiato per rappresentare la passione e la relazione amorosa.
Emblematico il quadro di Giovan Battista Quadrone, “Ogni occasione è buona” del 1878, in cui c’è un pittore, il committente, al quale l’artista sta facendo il ritratto, e la moglie di questi. Nel quadro si vede che appena il committente è distratto, il ritrattista gli bacia la moglie.
Toulouse-Lautrec, testimone e protagonista della Parigi più sfrenata, dipinse vari quadri di contenuto erotico. In particolare pitturò una serie di tele per decorare le sale di una casa di piacere. Il bacio , del 1982, fa parte di questa collezione. Altrettanto erotiche sono alcune immagini di Gustave Courbet come L’origine del mondo. Pablo Picasso, assertore dell’amore sensuale, ha raffigurato anche immagini lascive, tra cui: “Baccanale” ; Lo scultore e la sua modella, Due donne a letto, Scene erotiche, I fratelli Matteo e Angelo Fernandez a letto con Anita.
Per Salvator Dalì l’erotismo è fondato sugli incubi. In molti quadri quando egli ritrae la donna la descrive come un fantasma divoratore che minaccia l’uomo.Erotismo e violenza si trovano spesso inscindibili nelle tele di Dalì. Dal subconscio il pittore spagnolo fa emergere una fantasia irrequieta, una creatività che si mostra sgomenta davanti alla natura così come lo è davanti alla donna.

La scultura, l’amore e l’eros

La scultura è stata una delle prime arti. La troviamo praticata sin dal Paleolitico superiore, detto anche periodo aurignacciano datato tra i 500.000 e i 15.000 anni fa. Soggetto ricorrente delle sculture ritrovate ad Aurignac è la figura umana femminile. Queste prime statue, denominate “veneri steatopige” (dalle grandi natiche), mostrano il notevole interesse per il corpo della donna, quasi un’adorazione per la figura muliebre, nella quale sono evidenti e marcati i caratteri sessuali (mammelle, ventre, fianchi, glutei), mentre sono poco accennati, quasi trascurati, i tratti del viso. Molto interessante è l’interesse appassionato per la figura femminile che l’autore sconosciuto mostra nella Venere di Willendorf, opera che si ritiene eseguita circa 22.000 anni fa.
In una roccia di Lausell (Dordogna) è stato trovato, sempre di quel periodo, un bassorilievo aurignacciano di donne con gli stessi caratteri delle “veneri”, in una scena a carattere sessuale.
Sebbene in seguito, nel periodo della cultura storica, la scultura abbia prodotto soprattutto statue e bassorilievi per magnificare personaggi famosi o eventi di grande rilievo storico, mitologico o biblico, o per ornare monumenti funebri, tuttavia la scultura in qualche caso ha anche interpretato il rapporto tra i due sessi e lo ha fatto in vario modo. In primo luogo mettendo in luce il corpo della donna, il quale è esaltato nell’Afrodite di Cndio (300 a.C. ) di Prassetene.
Pure leggiadramente sono raffigurate le fattezze femminili nell’ Afrodite del I secolo a.C. detta “dei Medici”, in Afrodite, avvenente statua di nudo femminile del 100 a.C., nella Venere Anadiomede, del 500 a.C, nella Venere Landolina del I sec d. C., opere queste ultime delle quali si ignorano gli autori.
Il fregio Nereidi e Tritoni, conservato nel museo Borghese, esprime una sorta di alleanza e deferenza tra maschi e femmine. Nereidi e Tritoni mostrano infatti la pacifica convivenza tra i due sessi. Ben altro è l’aspetto del rapporto tra maschi e femmine rappresentato dal Ratto delle Sabine, opera del XVI secolo del Giambologna. Si tratta di un episodio “molto caro” al maschilismo, più volte riprodotto anche su tela da pittori di varie epoche come Pietro da Corona, Nicolas Poussin, J.L.David.
Le tre grazie, scultura romana del III secolo d.C., conservata a Siena nella biblioteca Piccolomini è un gruppo statuario che realizza un’avvenente illustrazione delle fattezze femminili. Delicata e armoniosa è pure la statua che rappresenta Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini; più corporeo il rapporto tra uomo e donna nel Centauro che abbraccia una ninfa, di Antonio Canova.
Il genovese Francesco Maria Schiaffino, scultore tra il ‘600 e il ‘700, ci va un po’ pesante nella rappresentazione del Ratto di Proserpina in cui è descritto tutto l’orgoglio di conquista del maschio. Stesso tema trattato anche dal Bernini, e con pari sensualità, nel suo Ratto di Proserpina. Un tema che ha forse ossessionato l’immaginario maschile.
Adone coronato da Venere e Amore risveglia Psiche con un bacio, entrambe statue del Canova, raccontano invece con delicatezza e tenerezza l’incontro maschio-femmina. Altrettanto riguardoso è l’approccio, nei confronti del corpo femminile che ha lo scultore Aristide Maillot, sentimento espresso nelle sue Tre veneri come anche nel suo Nudo di donna, entrambi del primo ‘900. Pure di quel periodo è Il bacio di Auguste Rodin, opera che esprime, con armoniosa delicatezza l’affetto tra uomo e donna.
Sensuali invece e anzi decisamente carnali i bassorilievi che rappresentano rapporti tra maschio e femmina che si trovano nei tempi di Khajuraho in India.
Nei 20 templi indiani rimasti degli 80 fatti costruire dalla dinastia Chandola tra il X e XI secolo d.C., sono effigiate scene d’un erotismo descritto ed esposto apertamente e “innocentemente” tanto da non lasciare nulla all’immaginazione. In India la sensualità, nelle sue soluzioni estetiche e iconografiche fu una prerogativa del Brahmanesimo e dell’Induismo.
Del tutto diverso
Un misto di voyeurismo, ammirazione e sensualità si trova in alcuni scultori dei nostri giorni i quali si dedicano prevalentemente al nudo di donna. Tra essi Leonaldo Bistolfi e Mario Termini. Ma in particolare, è da prestare attenzione al tedesco Georg Viktor, che dal 1978 scolpisce in statue intere, in mezzo busti, in tronconi, il corpo femminile, o particolari di esso, impreziositi da un taglio artistico di notevole efficacia. Si tratta quasi di un ritorno, in chiave moderna, dei primi esempi di statue antropomorfe, quando era evidente lo stupore e l’adorazione per il corpo femminile depositario della fertilità. È, in un certo senso, l’interpretare in chiave plastica del punto di vista maschile sull’altro sesso. Peccato che non vi sia una “scuola” di scultrici che metta in risalto, a sua volta, il punto di vista femminile sull’immagine maschile.
Un certo tipo di scultura evidenzia ed esprime dunque le fantasie con le quali il maschio contemplato la donna. Ciò è fatto, a volte, in maniera personalissima, come la Venere di Milo a cassetti di Salvador Dalì versione si potrebbe dire “psicoanalitica” della bellezza muliebre, in cui i “cassetti” che compongono la statua rappresentano ciò che la donna nasconde e accoglie in sé. Il cassetto è uno stimolo per la curiosità e per la desiderio del maschio, diceva Dalì, commentando la statua, il quale è indotto ad “aprirlo”.
In conclusione come si è brevemente accennato anche nella scultura è possibile ritrovare, espresse con varie sfaccettature, la storia e la gamma dei rapporti tra i sessi.
Il rapporto tra i sessi nel melodramma lirico

Se vi è un ‘luogo’ della cultura in cui è possibile trovare sintetizzate tutte le tensioni, i risvolti psicopatologici, la misoginia e le ipocrisie sociali tipiche dalla classe borghese, questo è il melodramma (specie quello ottocentesco, che è il più noto al grande pubblico e su cui principalmente ci soffermeremo).
In vero, è proprio nella musica, e soprattutto nell’opera lirica, che la sensualità si sublima in sentimenti raffinati e può essere “gustata” con maggiore esenzione dai divieti morali.
Nel dramma in musica, la sensualità si trasforma in spiritualità, e l’eros, avendo perduto ciò che ha di carnale, di terreno e di materiale, diventa vibrazione dell’anima.
Nel melodramma dell’Ottocento il lirismo amoroso tocca vette sublimi, di pari passo con la concezione romantica dell’amore.
In esso però la cultura delle passioni, l’esaltazione dei sentimenti estremi, hanno finito non di rado col plasmare personaggi dai contorni stereotipati, facendone creature ridotte a simboli. Il risultato dell’opera di librettisti non sempre felici, è stato quello di tracciare dei tipi definiti senza alcuna possibilità di chiaroscuro, che rappresentano alcuni modelli tra le infinite sfumature della natura umana. Tra essi emergono il torturatore, la vittima, il despota, l’eroe, lo scellerato, il virtuoso, il tradito, il traditore.
E quando si passa alle figure femminili, esse diventano talvolta improbabili, perché maneggiate per lo più con ostinate idee maschiliste ed alimentate da una esasperante ed enfatica misoginia. La preoccupazione di rendere queste figure ‘deboli’, ‘esotiche’, ‘gracili’, ‘infantili’, o viceversa, decisamente ‘perverse’, ‘sfacciate’, ‘lubriche’, ha accentuato l’enfasi, come se si volesse arringare dal teatro la platea, per imporre, e non per suggerire, le debolezze o le virtù delle donne.
Persino Mozart – che tanto bene tradusse nella sua opera l’amore per le donne – nel 4° atto de Le nozze di Figaro, su libretto dell’abate Da Ponte, trova occasione per far declamare al protagonista qualche consiglio agli uomini riguardo le donne (che egli chiama ‘femmine’): uomini che definisce “incauti e sciocchi” al momento in cui frequentano le scellerate creature che i sensi ingannatori fanno vedere come Dee e che invece, sempre a detta di Figaro, non sono altro che delle streghe “che incantano per farci penare”, delle sirene “che ci fanno affogare”, delle civette che “ci allettano per farci perdere le piume”, delle comete “che brillano per toglierci il lume”.
Figaro, inoltre, nella sua lunga tiritera misogina, definisce le femmine come “rose spinose” “volpi vezzose”, “colombe maligne” “maestre d’inganni”, procacciatrici “di affanni”. Le donne, secondo il famoso personaggio, fingono e mentono amore, ma in realtà non hanno alcuna pietà degli uomini; e a questo punto Figaro sprona il sesso maschile ad aprire gli occhi e a vedere le femmine nella loro vera essenza.
Insomma, ce n’è per tutti i gusti e per tutte le salse e Figaro, che pure è un ottimo amante, mostra, interpretando la peggiore piega del pensiero maschile, una pessima opinione delle donne.
Le “eroine” del melodramma sono tutte disegnate da una “penna” maschile, tant’è che in esse si riversano le frustrazioni, l’antifemminismo e l’orgoglio degli uomini che vissero all’epoca delle grandi realizzazioni liriche.
Nel Lohengrin è una donna, la perfida Ortruda ad istigare il marito a formulare accuse infamanti; ma anche la protagonista Elsa, alla quale si richiede di essere un modello di virtù, di abnegazione e di fiducia nel marito, alla fine diventa una moglie perfida, in preda alla gelosia, che finirà col perdere il suo uomo. Infatti, poiché ella obbliga il marito a dichiarare pubblicamente chi egli è, poiché egli è Lohengrin, figlio di Parsifal, cioè uno dei cavaliere del sacro Graal, ormai scoperto il suo segreto, dopo che ha svelato la propria origine, dovrà fuggire per sempre dagli sguardi profani.
Ma nella lirica sono soprattutto i triangoli le situazioni amorose che più appassionano il pubblico, e il compositore Alfredo Catalani, interpretando tali gusti, in ben due sue opere, Edmea e Loreley, cantò queste situazioni: nella prima delineò la passione di due uomini per una donna, e nella seconda quella di un uomo per due donne.
Analizzando le trame dei lavori lirici più noti, salvo casi di particolare felicità espressiva e psicologica, salta subito all’occhio che, dal punto di vista sociale, morale e inconscio, il modello e il metro al quale si sono ispirati i compilatori dei libretti, non è lusinghiero nei confronti delle personalità femminili. .
Un caso tipico è quello dei Pagliacci, opera nella quale l’ansia del maschio di essere tradito appare, nel palcoscenico, sotto la doppia veste, quella della realtà e quella dell’azione teatrale. Infatti all’azione che si svolge come scena-reale dell’opera di Leoncavallo, al tradimento di Nedda, moglie del capocomico Canio, fa riscontro, nel secondo atto, il tradimento della “maschera” Colombina, recitata da Nedda, nei confronti di Pagliaccio, suo marito, impersonato da Canio. E così, Canio vive doppiamente l’angoscia del tradimento: una volta nella “realtà” e un’altra nella finzione.
Né poteva mancare, ovviamente, nelle opere liriche, il personaggio dell’Otello, quale emblema della paura che ossessiona il maschio d’essere tradito dalla propria donna. Un tema, questo del tradimento, che affligge quelli che avvertono in esso la pericolosità e la distruttività di un gesto che può annientare psicologicamente e fisicamente un individuo.
Semiramide, opera di Rossini molto apprezzata, narra del principe Assur, amante di Semiramide, che si sbarazza del marito di lei, avvelenandolo e tenta pure di uccidere il figlio della donna. Ma il giovane riesce a sfuggire, e tornato sotto le mentite spoglie di Arsace per uccidere l’omicida di suo padre, è colto di sorpresa da Assur, che ancora una volta cerca di sopprimerlo. A questo punto, Semiramide, frapponendosi tra i due, trova la morte difendendo la vita del figlio. La fine di Semiramide ristabilisce l’equilibrio morale preteso dal maschio: è la punizione per il tradimento matrimoniale della donna.
Di converso, proprio nelle opere liriche, i veri o supposti tradimenti del maschio sono quasi sempre assolti dalla penna dei librettisti, come nel caso di Norma, che continua ad amare il traditore fino a morire con lui. In alcuni casi, il maschio traditore è descritto come un vittima di un equivoco, come nella vicenda de I Puritani, in cui tutte le apparenze accusano Arturo di tradimento, mentre, alla fine, si scopre che la sua supposta colpa altro non è se non una fuga volta a salvare la prigioniera regina Enrichetta di Francia.
Tradimenti a parte, la donna, nell’immaginario maschile, è considerata anche sotto l’aspetto di musa adorabile ma irraggiungibile e dalla quale l’uomo è intimidito, colei che, in qualche modo, manipola il maschio a suo favore, tant’è che, in molti casi, dopo aver fatto innamorare di sé l’ingenuo ‘merlo’, lo strapazza, come fa Carmen nell’omonimo capolavoro di Bizet.
Il brigadiere José si illude che Carmen possa diventare la più splendida ragione della sua vita, ma l’amore di Carmen non è sincero né è eterno: ella concederà le sue grazie anche al toreador Escamillo, che in pratica ne farà un suo trofeo.
José, che ha tradito l’amore della pura fidanzata Micaela, è disperato, e quando Carmen, cinicamente lo irride, la uccide. Siamo dunque in un palese caso di manifesta frustrazione maschile; Carmen rappresenta, nell’immaginario maschile, l’affascinante e devastante donna dall’amore funesto, la cui passione è anche un profondo anelito alla libertà: una libertà, quella femminile, che il maschio geloso non può tollerare.
E così, tradimento, perfidia, insensibilità affettiva, e passionalità sono tipiche caratterizzazioni che rendono più desiderabile la donna, ma ne mostrano tutta la malvagità infernale. E così, la donna, essere bramato e temuto, è sempre in bilico tra la creatura celestiale ed asessuata e la fonte di rovina per gli uomini.
Le protagoniste di tante opere liriche sono presentate spesso come vittime di circostanze negative, ma nella sostanza risultano poi femmine la cui diabolicità le rende perverse e intrattabili.
Tutto questo, narrato con trame macchinose, con parole tenebrose, con avvenimenti pieni di intrighi, di tradimenti, come nel caso de La Gioconda di Ponchielli, in cui vengono resi manifesti i più frequenti luoghi comuni: la frustrazione del maschio, che è sottolineata dal fatto che il cantastorie Barnaba ama invano Gioconda ma non è accettato dalla donna che è una cantante. Nel lavoro di Ponchielli c’è anche un altro tema maschilista: l’inevitabile e dura punizione per il tradimento femminile: Laura, moglie di Alvise, è l’amante di Enzo, e, scoperta dal marito, riceve da questi un veleno affinché lo beva e sconti così la sua trasgressione.
Infine l’opera realizza un altro luogo comune, il sogno maschile della donna che si sacrifica per il proprio uomo. Difatti, la Gioconda promette di concedersi a Barnaba se costui salverà Enzo, l’uomo che ella ama e che suo marito Alvise ha incarcerato e sta per mandare a morte. Ma la protagonista, volendo restare onesta e pura, non mantiene fede all’impegno preso con Barnaba, e si suicida piuttosto che concedersi al suo aguzzino.
Il fatto che la Gioconda non si sia concessa a Barnaba, rassicura l’immaginario maschile. Il maschio di solito è preoccupato che alle donne, in fondo, piaccia concedersi e non solo per ‘sacrificio’. Uno stesso genere di finale simile a quello narrato nell’opera di Ponchielli lo si trova anche, come vedremo più avanti, in altre opere tra cui il Trovatore verdiano e Tosca pucciniana.
Insomma, non si può ignorare che, nella buona e nella cattiva sorte, i libretti delle opere liriche, sono stati il termometro dello stato d’animo maschile.
Prendiamo ad esempio La Traviata di Verdi. L’opera ha un titolo programmatico, cambiato rispetto a quello originale di Alessandro Dumas (La signora delle camelie),di cui abbiamo già parlato. In apparenza sembrerebbe che la protagonista abbia la comprensione del librettista, ma in pratica non è così: il Piave fa dire alla protagonista «sempre libera degg’io folleggiar di gioia in gioia» e altre frasi del genere, dalle quali emerge il profondo atteggiamento negativo verso la donna emancipata. Un disprezzo esplicitamente esposto dal padre di Germont, che con orgoglio tutto maschile fa capire a Violetta che non riconosce più suo figlio Alfredo da quando s’è legato a lei. Il signor Germont si permette di sentenziare sentimenti morali, affermando che la relazione tra suo figlio e lei non può essere benedetta da Dio, e dunque è proprio il Signore che, per bocca sua, chiede alla ‘traviata’ di lasciare il giovane amante, in nome di principi più alti. Uno di questi principi è che il figlio mantenga fede alle aspettative del genitore.
Calpestando ogni sentimento e diritto femminile, il padre di Germont esorta l’innamorata Violetta a lasciare l’amato perché la sorella di Alfredo, a causa della “vergogna infamante che tutta la famiglia ricava dalla relazione con Violetta”, non può sposarsi.
E così, il vecchio, volendo salvare l’immagine sociale di una donna onesta, non esita a distruggere l’esistenza della donna che considera disonesta, imponendole di mettere fine a quella relazione.
Come consolazione finale, consiglia a Violetta di darsi alla bella vita, assicurandole che se lascerà Alfredo farà un’opera buona. Violetta accetta sebbene a malincuore di rinunziare alla propria felicità per lasciare libero l’amante, in nome di “un ideale morale “, e “per un bene superiore”, che, ovviamente, non tiene conto dei suoi sentimenti di donna. A quel punto, ipocritamente, Germont le dice: «Generosa! E per voi che far poss’io?», fingendo apprezzamento per il sacrificio della donna. Poi, quando Violetta è in punto di morte a causa di una malattia aggravata dal dolore che egli le ha procurato, il signor Germont manifesta (o finge?) contrizione rendendosi conto di avere distrutto la vita della donna amata da suo figlio.
L’opera si ispira a un moralismo e a un conformismo tipico del tempo, anche se il librettista cerca di nascondere con atmosfere drammatiche le ipocrisie della società. Del resto Verdi aderì alla trama dell’opera affascinato proprio dal fatto che la trovava una metafora della vita della sua amante, Giuseppina Strepponi. Sottolinea Claudio Casini[205] che Violetta prese corpo nella mente di Giuseppe Verdi per un nesso inconscio che legava la protagonista della Traviata alla Strepponi. Secondo il biografo, il personaggio dell’opera, e l’amante di Verdi, si erano unificati nella mente dal musicista. Infatti la cantante era considerata dai bussetani “una donna traviata” poiché era ritenuta e una donna “troppo” libera, (cioè “perduta”), in quanto ella aveva avuto svariati intrecci e relazioni prima di Verdi e il musicista finì per considerare Violetta del tutto simile alla donna alla quale egli era legato.
La pressione ideologica, conformista e misogina, è comune alla presentazione di molte ‘eroine’ del melodramma. Anche la già citata Manon Lescaut – che presenta la donna ingorda, che ha voluto divertirsi e vivere nel lusso, e che viene addirittura incarcerata perché sorpresa a rubare i gioielli del suo ignaro amante – e Adina dell’L’elisir d’amore – donna frivola, la quale si concede in fine al suo timido innamorato, dopo averlo a lungo deriso e bistrattato, solo quando questi eredita ed è conteso da altre donne – non sono se non la “riprova” dell’asserto cantato spavaldamente dal duca di Mantova in Rigoletto: la donna «è mobile, qual piuma al vento»; oppure è una ladra, una spergiura, insomma un essere da temere.
E cos’altro rappresenta la tragica fine della Bohème se non, ancora una volta, la punizione nei confronti della donna che ha tentato di essere libera?
Anche se la questione è posta in toni patetici, pure Madama Butterfly è l’emblema della donna sciocca e poca accorta, che si lascia ingannare, e che masochisticamente si punisce.
La fatalità che punisce la donna perduta aleggia pure nell’opera Suor Angelica in cui la protagonista, una monaca peccatrice, si suicida per espiare le proprie colpe.
Né si può ignorare che Turandot è una figura emblematica, che rappresenta l’immagine forte e insensibile della donna, così come la vede il maschio frustrato e conformista: e cioè un essere insensibile tanto da far decapitare – nella simbologia psicanalitica, castrare – tutti i maschi che la desiderano. Una donna che però alla fine, perché trionfi il maschilismo, si innamora di Calaf.
Tenendo presente l’atteggiamento maschile nel periodo che va dall’Ottocento ai primi del Novecento è chiara la base delle opere liriche: l’idea preminente che il fascino femminile sia ambiguo e perverso.
Nell’Adriana Lecouvreur la principessa di Bouillon non esita ad avvelenare la rivale per impedire che mantenga la tresca con il principe Maurizio di Sassonia, suo ex amante.
Ne Il ballo in maschera, una pericolosa tentazione fu, per Riccardo, Amelia, la moglie del suo migliore amico. Nell’opera di Verdi, il protagonista è sconvolto dalla passione per una donna che egli non conosce profondamente e che rappresenta per lui solo un eccitante sogno di conquista. Ma sono anche forti il senso della punizione e delle pressioni moralistiche sociali e pertanto punizione e castigo non tardano a manifestarsi: Riccardo viene punito per avere violato la sacralità del matrimonio, avendo sedotto la moglie dell’amico.
Ancora una volta, la donna, croce e delizia, è la dannazione del maschio, il quale pecca trascinato dalla passione. E ancora una volta il messaggio è questo: le donne, l’amore, la passione, il sesso sono una sventura per l’uomo. Il mondo dei librettisti si è solo limitato a descrivere questa tematica: i personaggi dell’opera esprimono spesso grettezza d’animo e cinismo quando s’accostano alle donne, ritenute ingenue e circuibili, inarrivabili e avventuriere, ma sempre senza possibilità di riscatto morale. Probabilmente era questa l’idea corrente del maschio qualunquista nei confronti della donna: a parte un frivolo innamoramento, egli con lei non ha null’altro da condividere.
Gli scrittori di libretti d’opera si limitano a descrivere le interpreti femminili quali esseri pericolosi, ma anche creature sopraffatte e sottomesse. In ogni caso, la donna non è mai alla pari dell’uomo, essa è o perversa dominatrice, o creatura passiva e ingenua.
Anche donne dotate di personalità forti come Tosca, o come La fanciulla del West o circuibili e di facili costumi, come Manon, Butterfly, Suor Angelica, Maria dell’Edgar, e Mimì della Bohème non promettevano nulla di buono per il maschio.
E cos’altro è la femmina, nella mentalità maschile, se non un trofeo, come attestano Il Trovatore e Turandot? Nel primo caso, due uomini – Manrico e il Conte di Luna – si contendono la medesima donna, Eleonora, come una preda di caccia. E poiché ha la meglio il Conte di Luna, mentre la donna è innamorata di Manrico, per salvare quest’ultimo, la protagonista non ha nulla di meglio da offrire al vincitore – pur con la remora mentale del suicidio – che il proprio corpo, perché sia clemente con lo sconfitto.
Questo leit-motiv della donna disposta a donare il proprio corpo al nemico pur di salvare l’uomo che ama, oltre che ne Il Trovatore si trova – come si è visto – in Gioconda e ancora in Tosca di Puccini e nell’Andrea Chénier di Giordano. In Tosca, la protagonista, amante del pittore Cavaradossi, promette di concedersi al ministro della polizia, in cambio del salvacondotto che faccia fuggire il “suo” Mario e sé stessa; nell’Andrea Chénier, la nobile Maddalena s’innamora a prima vista del poeta Andrea Chénier, il quale ricambia i sentimenti della giovane, con una poesia che è un sublime inno d’amore. Quando il poeta-patriota sta per andare al patibolo, Maddalena promette il proprio corpo a Carlo Gérard, colui che ha accusato Chénier, se lo farà fuggire. Ma poiché non c’è più tempo per salvare il poeta, Maddalena si avvia a morire con lui.
Nella Turandot, è la donna stessa che si pone come corpo-trofeo: ella sarà la ricompensa di chi supera alcune prove.
La belliniana Sonnambula, che, improvvisamente, di notte, compare nella stanza di uno scapolo forestiero – il quale ‘generosamente’ non ne approfitta – pare soddisfare i desideri più nascosti e inconfessati del maschio: trovare nella propria stanza da letto una purissima e fragrante fanciulla.
Inoltre, il desiderio infantile di onnipotenza fa sì che il maschio ad ogni rifiuto della donna senta aprirsi una ferita narcisistica. Il maschio puerile e timido, prova verso il personaggio femminile una forte dipendenza, ma fa di tutto per negarlo. Spesso per negare la propria dipendenza psicologica dalla donna, il maschio esterna vanagloria e narcisismo e si ‘cala’ nell’immagine del gaudente ‘play boy’ come fa Gabriele, protagonista dell’ Edgar.
Una contraddittorietà di sentimenti, questa, che spinge il maschio che si sente “dipendente dalla donna” ad essere crudele con le “più facili”. Infatti Gabriele manifesta tutto la sua scarsa considerazione nei confronti della estroversa e sensuale Delacreze. Ma quando il maschio prende una vera cotta, viene fuori tutta la sua timidezza, come accade a Nemorino, protagonista de L’elisir d’amore, quando s’innamora di Adina, ricca e capricciosa, che non vuole dargli ascolto.
Come da bambino dipendeva dalla madre, così da adulto il maschio si sente subordinato alla donna, e per fronteggiare questo sentimento di inferiorità, non trova di meglio che esser crudele con chi lo conturba.
Questo il motivo per cui la dipendenza verso la madre-donna si trasforma in disprezzo e aggressività verso il sesso debole.
Nemorino, mostra tutta l’insicurezza che ha il genere maschile nei confronti del genere femminile, e cerca con patetici tentativi di farsi apprezzare. Ma il suo disagio può essere confortato solo grazie ad “un filtro magico”, l’unico – secondo il protagonista – che può piegare la donna.
La vicenda di Turandot, donna arcigna e misantropa, rappresenta la inconscia speranza maschile di vedere punita la donna che disprezza l’uomo che la corteggia. Calaf è soddisfatto di ferire la donna nel suo orgoglio, tant’è che, in un primo tempo, egli ‘grazia’ Turandot: lui che è vincitore del trofeo, magnanimamente le concede di non mantenere fede all’impegno di sposare il vincitore. Ma “la guerra dei sessi” non finisce qui: il librettista con orgoglio maschile punisce Turandot la quale subisce una metamorfosi: se ella in un primo tempo fu restìa al matrimonio e al sesso, in seguito arriva addirittura a mendicare l’amore di Calaf. È ciò che molti uomini sognano: una donna che li supplica di stare con lei.
La belliniana Norma rappresenta la metafora, ancora una volta tutta maschile, di cui tanti esempi ‘reali’ abbiamo visto nei capitoli precedenti, dell’uomo che non è più soddisfatto della compagna, e che desidera conquistare un’altra donna più giovane.
Norma, amante di Pollione, dal quale ha avuto diversi figli, viene abbandonata dal suo uomo, che si è invaghito della giovane sacerdotessa Adalgisa. L’angoscia del tradimento annichilisce Norma, che, simile a Medea, sulle prime medita addirittura di sopprimere i propri figli, ma poi – e qui entra in giuoco l’immaginario maschile del librettista, desideroso di un salvacondotto che gli consenta di tenere più donne contemporaneamente – sebbene ingannata dall’amante, generosamente si commuove davanti alla rivale Adalgisa.
Non c’è dubbio che anche il finale è sulla stessa linea: una penna femminile forse avrebbe fatto andare da solo al rogo il fedifrago, per punirlo del tradimento. Ma la narcisistica immaginazione maschile, non solo assolve Pollione del tradimento, ma lo ritiene degno di essere accompagnato nella morte proprio da colei che egli aveva tradito e abbandonata.
E tuttavia, malgrado i suoi eroismi e le sue ingenuità, la donna è pur sempre considerata colei che fa dannare l’uomo.
Mefistofele, Faust non sono che metafore di questo tormento. Per rimanere giovani e per continuare a conquistare le donne, gli uomini sono disposti a vendere l’anima al diavolo: ma Margherita pagherà il suo amore con il sacrificio della sua maternità.
Anche questo è un motivo caro all’immaginario maschile: le fantasie di virilità dell’anziano fanno sì che il maschio, come nel caso del Falstaff, non solo non si rassegni alla decadenza, ma speri anche di ottenere l’amore addirittura da due donne: Alice e Meg. Nell’opera verdiana il desiderio del vecchio Falstaff non va a buon fine, e tuttavia il librettista Arrigo Boito trova modo, nel finale, di sottolineare l’insipienza delle donne, e in particolare delle ragazze, riferendo che l’insensata figlia di Alice, Nannetta, preferisce sposare un pessimo partito, piuttosto che il decoroso dottor Cajus.
Non si può non osservare che sebbene ciò che più rende valida l’opera sia il godimento delle musiche, tuttavia il successo di certi libretti, era dovuto anche al fatto che essi risultavano in sintonia con i temi e i modelli culturali del tempo. Le trame descrivevano i sentimenti correnti nel periodo in cui l’opera veniva alla luce. I libretti era infarciti di maschilismo, così come lo era la cultura dominante del tempo, e pertanto gli spettatori non giudicavano severamente personaggi e contenuti dei libretti, a volte così insulsi e indegni, perché erano in linea con la “tipologia” amata dall’immaginario sociale del tempo.

Il cinema e l’amore

Oltre alla letteratura, alla pittura e all’opera lirica, anche la cinematografia affronta, ora superficialmente, ora in maniera approfondita tutta la gamma delle situazioni d’amore, dalle più idilliache a quelle più deleterie.
Il cinema infatti racconta il rapporto tra i sessi in tutte le tonalità: dall’aspetto cupo dell’inganno a quello più spensierato ed erotico. Nessuna indagine, né letteraria, né antropologica o sociale tratta il problema in maniera così semplice e nel contempo realista, vasta e minuziosa.
La difficoltà sta nel fatto che, così come per la letteratura, anche per la cinematografia è impossibile ricordare in modo esauriente la smisurata produzione sull’amore e i sentimenti ad esso connessi.
Si può solo dire che in ogni film, sia esso poliziesco, di guerra, umoristico o drammatico, c’è sempre un amore: o dolce, o tempestoso, o sentimentale o sensuale, o timido, o brutale e violento.
Il tema della malvagità e della seduzione femminile è affrontato dal film A Fool There Was,( C’era una volta uno sciocco) del 1914, in cui un uomo d’affari, marito esemplare e pilastro della comunità viene travolto fino a perdere la propria dignità, il proprio lavoro e la propria famiglia dalla lusinghe di una donna calcolatrice e vampiresca. L’attrice cinematografica Theda Bara (Theodosia Goodman) interprete femminile del film, assume i panni della donna fatale e perversa, cioè della donna com’era considerata, nell’immaginario maschile, a cavallo tra XIX e XX Secolo anche con un altro film Unchastened Woman ( Una donna impura) del 1925.
Il tema della vamp, seduttrice e aggressiva, si trova in tanti film, uno di questi è Gilda, di Charles Vidor, nel quale il protagonista, Glenn Ford, cerca di domare una bisbetica di alta classe, interpretata da Rita Hayworth. Un altro è L’ Angelo azzurro di Josef Sternberg in cui la conturbante e sensuale cantante di cabaret Lola fa perdutamente innamorare di sé un ingenuo e anziano professore.
Duello al sole, di King Vidor, che ha come protagonisti Jennifer Jones, Gregory Peck e Joseph Cotten, racconta la vicenda della sensuale meticcia Pearl, amata da due uomini, un gentiluomo (J. Cotten) e un ardito e cinico conquistatore (G. Peck). Per quest’ultimo, Pearl sente una passione torbida e distruttiva, che assume esagerazioni melodrammatiche e granguignolesche, fino al truculento e fatale scontro finale che incantò le platee. La Guerra dei Roses è l’esempio più efferato dell’amore-odio che scatena l’inferno dei sentimenti, sino alla soluzione finale.
Ambiguità, avventura e senso della fatalità dell’amore, sono le caratteristiche del film L’anno scorso a Marienbad, di Alain Resnais, che mette in luce l’ineffabile mondo immaginifico dei sentimenti, e fa vedere che ogni innamorato interpreta a suo modo il misterioso mondo dell’amore. Un’atmosfera condivisa da Gabriella Turnaturi,[206] secondo la quale l’amore vive di fantasmi psicologici impalpabili e imprevedibili, proprio come quelli che aleggiano nella storia raccontata da Resnais Il romanticismo deteriore caro all’Ottocento, è presente ne L’amore è una cosa meravigliosa di Henry King, in cui i due protagonisti, gli attori Jennifer Jones e William Golden, abbozzano un idilliaco rapporto, melenso e realistico, che fa commuovere le platee. Il trionfo dell’amore, nell’alta società occupata solo a far soldi, è descritto dal film Sabrina di Billy Wilder, in cui una deliziosa “plebea” (Audrey Hepburn) finisce con lo sposare il serioso e ricchissimo magnate (Humphrey Bogart) il quale, da personaggio ‘duro’ è trasformato dall’amore per la ragazza in un appassionato e tenero innamorato.
Il diavolo in corpo, di Claude Autant-Lara, sviluppa il tema dell’amore sbilanciato: un giovane, immaturo e debole, scandalizza la società per il suo amore con una donna sposata, molto più grande di lui. Tema trattato anche da Louis Malle in Les amants in cui si racconta di una donna annoiata dalla relazione col marito, che vive una sensuale stagione d’amore con un giovane. Su questo motivo anche Un bellissimo novembre di Mauro Bolognini narra una passione “sbilanciata” tra un giovane diciassettenne e una zia annoiata e sensuale.
L’amore tra persone di razza diversa è il tema del film di Stanley Kramer Indovina chi viene a cena?, opera che affronta la complessa situazione emotiva di due genitori bianchi la cui figlia si è innamorata di un uomo di colore. Il film del 1967 mette in discussione una tematica scottante in quei Paesi, come gli Usa, in cui il problema ha rilevenza quotidiana.
Amanti perduti, di Marcel Carné, evidenzia invece l’irraggiungibilità della felicità in amore. Più possibilista, invece, Letto matrimoniale di Irving Reis, che mostra tutto il repertorio matrimoniale: delusioni e sconfitte, ma anche affetto sincero e profondo.
L’amore che sana il passato e fa dimenticare le amarezze di un rapporto mal riuscito è il tema di Amanti del sogno di William Dieterle. Il triangolo amoroso, e l’incapacità angosciante di guidare la propria vita, vengono bene evidenziati da L’amante immortale di Otto Preminger, che è anche un film sulla incomunicabilità e l’isolamento psicologico.
L’inutilità della speranza e l’inevitabilità del destino, in amore, è ben rappresentato da Valerio Zurlini col suo amaro La prima notte di quiete che poi è quella nella quale il protagonista muore per un incidente. Il film racconta di un tormentato quanto trasandato supplente di lettere, l’attore Alain Delon, innamorato di una giovane allieva ma confuso per una serie di legami che non riesce a sciogliere: come dice il titolo, solo la morte ridarà pace al travagliato amante.
La pendolare di Gérad Pirès racconta come il logorio della vita moderna possa mettere in crisi una coppia al punto da indurre i due partner a separarsi. Una situazione eroticamente complessa è quella che narra il film Je t’aime, moi non plus, di Serge Gainsbourg, che racconta l’amore di un omosessuale per una donna androgina, con la quale egli riesce ad avere solo rapporti anali. Su questa scia, La moglie del soldato di Neil Jordan narra come, per una serie di equivoci, un terrorista, dopo la morte di un soldato inglese, va a trovare come aveva promesso all’amico in punto di morte, la donna del militare, se ne innamora, e poi scopre che si tratta di un travestito. A completare la serie, c’è l’ambiguo Belle al Bar di Alessandro Benvenuti, in cui il protagonista s’innamora d’una donna, che poi risulta essere invece un uomo, un suo cugino, il quale, senza che l’altro lo sapesse, ha preso una nuova identità, quella femminile.
La crisi della coppia è ribadita ne La Notte di Michelangelo Antonioni in cui si assiste al lento dissolversi nella noia matrimoniale di uno scrittore, (interpretato dall’attore Marcello Mastroianni), e di sua moglie, (Jeanne Moreau) con vaghezze, ambiguità, temporanei ritorni di fiamma, il tutto condito da uno squallido panorama esistenziale.
Un altro genere di crisi coniugale è analizzata dal film di Ulu Grosbard, Innamorarsi, che narra la vicenda di Frank e Molly (impersonati dagli attori De Niro e Meryl Streep), entrambi felicemente sposati con altre persone, che casualmente fanno conoscenza, iniziano a frequentarsi e che piano piano, inevitabilmente, s’innamorano l’uno dell’altra.
La grande fiamma di Jules Dassin affronta il problema dell’amore e della guerra durante il secondo conflitto mondiale. Un tema questo, trattato, dopo la fine di quella guerra, dalla cinematografia americana ed europea, in varie angolature, da quella drammatica a quella eroicomica, da una grande quantità di cineasti, tanto che si possono segnalare solo alcuni titoli a mo’ di campione ma che non danno nemmeno lontanamente l’idea della vasta produzione al riguardo: L’ultima volta che vidi Parigi, di Richard Brooks, Frida l’amante straniera di Basil Dearden, La guerra è finita di Alain Resnais, Guerra amore e fuga di Jack Smight, Roma Città aperta di Roberto Rossellini, La guerra privata del maggiore Benson, di Jerry Hopper, I migliori anni della nostra vita di William Wyler, Tragico ritorno di Pier Luigi Faraldo, Il giardino dei Finzi-Contini, di Vittorio De Sica.
Infine è possibile individuare, sull’argomento amore e sesso, anche titoli ameni, come l’emblematico e provocatorio Tutto quello che avreste voluto saper sul sesso ma non avete mai osato chiedere di Woody Allen, commedia divertente, condotta ad episodi, che affronta in tono ‘leggero’, ma profondo al tempo stesso, la storia dei rapporti tra uomini e donne.
Ovviamente, il panorama della cinematografia mondiale non si esaurisce qui. Non sono state riportate, per esempio, le centinaia di opere che ogni anno sono prodotte dall’India, la maggior parte delle quali sono incentrate sul problema della coppia e dell’amore, problema che come s’è visto è centrale in quasi tutte le cinematografie mondiali. Il ché sta a significare quanto siano sentite le faccende di cuore e come si ritenga proficuo riportarle in tutte le loro sfaccettature in ogni forma dell’arte.

Conclusioni

Dallo studio della storia dei costumi sessuali soprattutto di quelli occidentali appare chiaro che non sempre essi dipendono da spontanei comportamenti naturali, ma spesso sono influenzati da sollecitazioni dovute a varie culture e a convinzioni etico-religiose sorte nel corso dei secoli. Sono inoltre notevoli le influenze culturali, letterarie, filosofiche che hanno condizionato la sessualità nei vari periodi storici.
Prima delle grandi religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo), per esempio, nessuna civiltà (né quella cinese, né mesopotama, né egizia, né greca o romana), associò mai la sessualità ad aspetti di impurità e di colpa; anzi queste civiltà accettavano l’eros come complemento essenziale dell’esistenza; tant’è che il sesso era ritenuto divino, piacevole e misterioso.
Si può rilevare altresì che i costumi occidentali seguono un andamento ciclico, nel senso che ogni volta che è stata raggiunta una maggiore elasticità in seguito è sopraggiunta la necessità di chiudersi in più severi costumi.
Più spontanei appaiono, in fine, i comportamenti sessuali nelle popolazioni primitive o extraeuropee, ove si riscontrano comportamenti ed abitudini più naturali e pacati di quelli adottati nella vecchia Europa. Fu analizzando gli effetti di questi ultimi nelle sintomatologie patologiche, che Sigmund Freud, tra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900, riscontrò l’esistenza di uno stretto nesso tra il modo di vivere la sessualità infantile ( e di conseguenza anche quella dell’età più matura) e il manifestarsi di nevrosi e perversioni in età adulta.
Oggi le nevrosi sessuali riscontrate da Freud e dovute per lo più alla repressione sociale del periodo in cui egli visse, non si manifestano più come un tempo.
Una recente ricerca del sociologo Franco Garelli[207] mostra che i giovani contemporanei mirano più al sesso che all’amore, pur continuando a credere a quest’ultimo come valore ideale. Al tempo stesso essi affermano di ritenere la sessualità il mezzo di comunicazione più idoneo per comprendere il partner, per migliorare la propria sensibilità umana e sociale nei confronti dell’altro sesso.
Un mutamento profondo si è dunque verificato a proposito delle relazioni tra i sessi, rispetto agli ultimi due secoli nei quali l’educazione sentimentale era ispirata a ben altro tipo di relazioni.
Da diversi decenni i rapporti tra i sessi si vanno sempre più caratterizzando per la mancanza di pregiudizi, per l’abbandono dei luoghi comuni e delle consuetudini precedenti. Un cambiamento culturale che è ormai abbastanza generalizzato in gran parte del mondo.
La rottura delle connessioni col passato è avvenuta in qualche caso anche in modo traumatico. Tuttavia, se da un lato certi vecchi modelli di comportamento sono stati stravolti, dall’altro l’inadeguatezza di alcuni nuovi principi e le ripercussioni negative che essi hanno prodotto sul piano emotivo, hanno frenato il cambiamento di talune delle predenti regoli e hanno lasciato in vita alcuni degli antichi comportamenti.

Fine della terza e ultima parte

Le parti prima e seconda sono stampate rispettivamente:
La prima nella Rivista Formazione Psichiatrica anno XXIV n. 1-2 Gennaio – Giugno 2003 e La seconda nella Rivista Formazione psichiatrica anno XXIV, n 3-4 2004,

RIASSUNTO
Lo studio dei costumi sessuali rileva le notevoli influenze culturali, letterarie, filosofiche che li hanno condizionati.
La civiltà cinese, la mesopotama, l’egizia, la greca e la romana, ritenevano l’eros un essenziale atto divino. In seguito, Ebraismo, Cristianesimo, e Islamismo associarono alla sessualità impurità e colpa. I predicatori cristiani condannarono l’amore nella coppia, per evitare che si amasse con ardore un essere diverso da Dio.
In seguito, in Europa, tra il XV e il XVII secolo si ebbe più permissività,ma questa venne meno tra il secolo XVII e gli inizi del XVIII secolo. Nella seconda metà del 900 si è invece avuto un certo riequilibrio in materia di sessualità. I costumi sessuali degli occidentali hanno avuto dunque un andamento ciclico; a forti proibizioni si sono succeduti più elastici costumi, e poi di nuovo proibizioni, e così via secondo le culture del tempo. Più spontanee appaiono in questa materia le popolazioni primitive o extraeuropee, passate o presenti, con abitudini più schiettamente naturali di quelle della vecchia Europa.
Sigmund Freud rilevò nell’Occidente un nesso tra il modo di vivere la sessualità, soffocata e densa di proibizioni e il manifestarsi di nevrosi e perversioni. La letteratura, l’arte visiva e la musica documentano la evoluzione dei sentimenti tra maschio e femmina, segnalando gli aspetti sociali, l’immaginario collettivo, e le implicazioni psico-sociologiche. Nelle letterature antiche la donna è ora soprannaturale, ora voluttuosa e funesta, ora simile a un dio. Nella letteratura cristiano-romana, in quella medievale e islamica, non vennero accolte poesie d’amore, come invece accadeva in Grecia e a Roma.
Col XIII° secolo il rigore mistico si attutì e comparve l’amore “terreno”. Poeti, e romanzieri narrarono l’esperienza sentimentale con significati profondi, come esperienza importante della vita.
Naturalmente esiste anche un modo diverso di narrare l’amore. Nella letteratura gli intrecci di coppia sono stati visti anche sotto l’aspetto umoristico.
Pirandello descrisse gli equivoci dovuti alla incapacità di capire il proprio Io e di conseguenza quello degli altri. Lo scrittore siciliano mise a nudo il complicato intreccio di relazioni, luoghi comuni, regole del pudore e tabù, che generano l’incomunicabilità.
Una parte della letteratura vede la donna come un angelo, un’altra mostra tutta la sua malvagità “infernale”. La donna, bramata e temuta, è in bilico tra la creatura celestiale e asessuata e la fonte di rovina per gli uomini.
Oggi un mutamento profondo si è verificato. Vi è, tra i sessi, una maggiore consapevolezza, un maggior rispetto e una più realista visione della vita.

Summary
The study of sexual practices reveals cultural, literary, and phylosophical
influences. The Chinese, Mesopotamic, Egiptian, Greek and Roman
civilizations believed that sexual practices were essentially a divine act.
The following civilizations including the Hebraic, the Christian, and the
Islamic ones linked sexual practices with guilt and “impurity”. Christian
authorities condemned love between two individuals in order to avoid that
one would feel love for an entitity other than God. In Europe, between the
XV and XVII century, there was a greater relaxation of the costumes, but
this returned to earlier and more strickt practices during the XVII and the
beginning of XVIII centuries. Finally. during the second half of the ‘900,
sexual matters were approached with greater balance.
Hence, the sexual practices and attitudes in the Western world have had a
cyclic pattern: strong prohibitions were followed by more relaxed costumes,
and so on according to the “zeitgeist”. More spontaneous appear to have been
in this regard the so-called primitive or extraeuropean populations, past
and present, which showed more natural practices compared to the practices
of the old continent.
Freud noticed a connection between the way people lived their sexuality and
the development of neurosis and perversions in the Western world. The
liberal arts often document the evolution of the feelings between Woman and
Man highlighting social aspects, collective imagination, and social and
psychological implications. In the ancient literature, the Woman is
portrayed either as supernatural, voluptuous and morbid, or, on the contrary
resembling a God. In the Christian-Roman and in the Medieval and Islamic
literatures there were no love poems, found instead in the Greek and Roman
ones. In the XIII century the mistic rigor lessened and a love became
accepted as a literary topic. Poets and narrators described the amorous
experience as made of profound meanings and as an important component in
human life.
There have been also humoristic ways to narrate marital life. Pirandello
described the misunderstandings derived from the inability to comprehend
one’s own Self or somebody else’s. The Sicilian writer enumerated the
complicated network of relationships, common places, taboos, and politically
correctness that cause a couple’s inability to communicate. A part of
literature has described the Woman as an angel, and another part as a
creature of great evil. The Woman, desired and feared, is always on the edge
of being considered a celestial and asexual creature or cause of ruin of all
Men.
Nowadays a profound change is observed. Between sexes there is a great
understanding, a greater respect and a more realistic view of life.

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[1] G. Florio, Orientamenti educativi, in Sessualità nella storia e nella Bibbia, Cittadella Editrice, Assisi 1984 (pp. 132-139, passim)
[2] E. Scabini, V. Cigoli, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Cortina, Milano 2000, p. 9.
[3] C. Cardia, Memoria, possibilità, futuro, in Memoria o futuro della famiglia, Giuffrè, Milano 2000 (p. 11-14 passim)
[4]W. Reich, La funzione dell’orgasmo, Sugarco, Varese, 1961.
[5]J. L. Flandrin, Il sesso e l’Occidente, Mondadori, Milano, 1983.
[6] G.Minois, Storia dell’ateismo,Editori Riuniti, Roma, 2000
[7]C. Rivière, Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna, 1995.
[8]H. Schelsky, Il sesso e la società, Garzanti, Milano, 1960.
[9]B. Geremek, La pietà e la forca, Laterza, Bari, 1988.
[10]C. G. Jung, Nuove vie della psicologia, in Psicologia e psichiatria, Newton, Roma, 1972
[11]S. Freud, Saggi sull’arte, Opere vol. I, Boringhieri, Torino, 1968.
[12]S. Freud, Lettera a A. Zweig, 15 luglio 1934.
[13]C. G. Jung, op. cit
[14]P. Tuttobene, Giudizi e pregiudizi, Ed. Ferdinandea, Napoli, 1992.
[15] T.Parsons, Sistema politico e struttura sociale, Giuffrè, Milano 1975
[16] J. J. Bachofen, Introduzione al diritto materno, Editori Riuniti, Roma, 1983.
[17] Citato in: R. Pennarola, Li fece maschio e femmina, T. Pironti, Roma, 1987.
[18] R. Fox, Le condizioni dell’evoluzione sessuale, in I comportamenti sessuali, Einaudi, Torino, 1983, (pag. 13).
[19] J. Viorst, Distacchi, Frassinelli, Milano, 1996.
[20] L. Benshof e R. Thornhill, The evolution of Monogamy and Concealed Ovulation in Humans, in Journal of Social and Biological Structures, vol II, 1979.
[21] D. Morris, L’animale uomo, Mondadori, Milano, 1994.
[22] S. H. Blaffer, The woman that never evolved, Harvard Press, Cambridge, M. A, 1981, in Shaw E.& Darling J., Accoppiarsi che spasso, Mondadori, Milano, 1987.
[23] R. Fox, Le condizioni dell’evoluzione sessuale, in I comportamenti sessuali, Einaudi, Torino, 1983, (pag. 8).
[24] N. Burley, The Evolution of Concealed Ovulation, in The American Naturist, n° 114, 1979. (in Shaw e Darling, op.cit.).
[25] Shaw E. & Darling J., Accoppiarsi che spasso, Mondadori, Milano, 1987.
[26] D. Morris, La scimmia nuda, Bompiani, Milano, 1968.
[27] R. D. Alexander e K. Noonan, in Shaw e Darling, (op.cit.).
[28] F. Galvano, La donna è fedele per 4 anni, La Stampa, 29.11.99
[29] A. H. L. Fischer, Storia d’Europa, Laterza, Bari,1961
[30] R. Eilser, Il piacere è sacro, Frassinelli, Milano, 1996.
[31] Platone, Leggi, I, 636, c., Opere, Vol. III, Rizzoli, Milano, 1964.
[32] Platone, Repubblica, III, 403 a., Opere, Vol. II, Rizzoli, Milano, 1964.
[33] Strabone, (Geografia, II,14,16).
[34] Claudio Eliano, Historia varia, e altre opere, a cura di R. Hercher, Berlino, 1864 (citato in: F. Henriquez, La prostituzione nel mondo antico, classico e orientale, Edizioni “Storia sconosciuta”. Stella Alpina, Novara, 1966).
[35] F. Henriquez, La prostituzione nel mondo antico, classico e orientale, Edizioni “Storia Sconosciuta”, Stella Alpina, Novara, 1966.
[36] S. Agostino, La città di Dio, Libro IV, 10, Rusconi , Milano, 1984.
[37] F. Henriquez, La prostituzione nel mondo antico etc., op.cit.
[38] F. Cumont, The Oriental Religions in Roman Paganism, Hill, Chicago, 1911.
[39] F. Henriquez, (op cit.).
[40] S. Kramrisch, Il tempio indù, Luni, Milano, 1999.
S. Kramirsch, La presenza di Siva, Adelphi, Milano, 1999.
[41] Abhinavagupta, Tantraloka, Adelphi, Milano, 1997.
M. Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, vol 2°, Sansoni, Firenze, 1990.
[42] F. Saba Sardi, Sesso e mito, Vol I, Longanesi, Milano, 1974.
[43] E. Bresciani, Ramesse II, Giunti, Firenze, 1998.
[44] Levitico, 18,7-18: Non scoprirai le nudità di tua sorella…e non prenderai la figlia di tua figlia…»
[45] Omero, Odissea, 1, 152. Vol. I, Mondadori, Milano, 1986.
[46] Havelock Ellis, L’educazione sessuale e psicologica del sesso, Newton, Roma,1971
[47] R. Flacelière, Amore e Matrimonio, in L’amore in Grecia a cura di C. Calame, Laterza, Bari, 1983.
[48] Matrimonio, Treccani, Diz.Encicl. Italiano Vol. VII, Roma 1970
[49] R. Flacelière, L’amour en Grèce, Hachette, Parigi, 1978.
[50] AA.VV. Misoginia e maschilismo in Grecia e a Roma, Istituto Medievistica, Genova, 1981.
[51] F. Lasserre, Eros nei sofisti e nei comici in L’amore in Grecia, a cura di C. Calame, Laterza, Bari, 1983.
[52] E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Editori Riuniti, Roma, 1985.
[53] Terenzio P. Afro, Eunuchus, Marietti, Genova,1975; Tertulliano, De spectaculis, La Nuova Italia, Firenze, 1973.
[54] E. Cantarella, E la matrona romana scoprì l’Eros, La Stampa, 24. 4. 1995.
[55] Dopo quest’opera, Ovidio scrisse altri due libri che completano l’Ars amandi, I Remedia amoris, in cui l’Autore consiglia come evitare la passione amorosa, e i Medicamina faciei, vero e proprio manuale di cosmesi.
[56] Tacito, Dialogus de oratoribus, Ciranna, Roma, 1971.
[57] G. Antonelli, Clodia, Terenzia, Fulvia, Newton, Roma,1996.
[58] G. Antonelli,( op.cit.).
[59] R. Vacca, La via della ragione, Bompiani, Milano, 1993.
[60] J. L. Flandrin, La vita sessuale dei coniugi, in I comportamenti sessuali, Einaudi, Torino, 1983.; J. Huizinga, L’autunno del Medioevo, Newton, Roma, 1992.
[61] A Guiducci, Perdute nella storia. Storia delle donne dal I al VII Secolo d.C., Sansoni, Firenze, 1989.
[62] E.Pagels, I Vangeli gnostici, Mondadori, Milano, 1981.
[63] W. A. Meeks, History of Religions, London, 1974.
[64]Temkin, Soranus’ Gynecology, Baltimora, 1956, in A. Rousselle, Sesso e società, op.cit.
[65] Sozòmeno, La Storia a cura di R. Hussey, Oxford, 1860.
[66] Burcardo, Il Guaritore, si trova in originale in: Wasserschieben, Die Bussordnungen der abendländischer Kirke, nebst einer Rechtsgeschichte Einleitung, Halle, 1851, e riportato in sunto da E.Pognon, La vita quotidiana nell’anno Mille, Fabbri, Milano, 1997.
[67] J. Huizinga, L’Autunno del Medioevo, Newton, Roma, 1992.
[68] M. Amari, Storia dei Mussulmani di Sicilia, Giannotta, Catania, 1983.
[69] A. Rousselle, Sesso e società alle origini dell’Era cristiana, Laterza Bari, 1984.
[70] In: A Giardina, Istituzioni, ceti, economie, Laterza, Bari, ibidem, saggio di Franca Consolino: Modelli di comportamento e modi di santificazione per l’aristocrazia femminile d’Occidente.
[71] G. Duby, Il cavaliere, la donna, il prete, Laterza, Roma – Bari, 1983.
[72] J. C. M. Viguer, Storie di ordinaria trasgressione, in Medioevo, Gennaio, 1997.
[73] S. Ambrogio, Esortazione alla verginità, a cura di J. Zycha, Ed. CSEL, Parigi, 1900 (citato in Rousselle, (op.cit. pag. 189)
[74] J. Le Goff, Quelle malattie maledette dalla Chiesa, in Storia e Dossier, anno XI, n. 111, dicembre, 1996, Giunti.
[75] A. Barlucchi, I luoghi del piacere, in Medioevo, Gennaio, 1997.
[76] B. Geremek, Mandicanti e miserabili nell’Europa moderna, Laterza, Bari 1989.
[77] Sponsale in Treccani, Dizion.Encicl.Italiano, Vol. XI, Roma, 1970
[78] L. M. De Berbardis, Fidanzamento, in Utet, Grande Diz. Encicl., Vol.VII, Torino, 1968.
[79] Matrimonio in Treccani, Dizion.Encicl.Italiano, Vol.VII, Roma, 1970
[80] L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra ‘500 e’ 800, Einaudi, Torino, 1983.
[81] De Matteis M. C., (a cura di) in Donna nel Medioevo (J. Verdon, Le fonti per la storia della donna) Pàtron, Bologna, 1993.
[82] R. R. Bezzola, Les origines et la formation de la littérature courtoise en Occident, Bibl. École Des Hautes Études, Parigi, 1966.
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[84] M. L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori, Einaudi, Torino, 1987.
[85] F.Cuomo, Quando la coppia scoppia. Le assise delle donne per dirimere le questioni di cuore, in: Medioevo, Luglio, 2000, Rizzoli; A.Cappellano, De amore, Guanta, Milano, 1990; J. Nostredame, Vite dei più celebri e antichi poeti provenzali, in Gr. Diz. Encicl. Utet, Vol XIII, Torino,1970.
[86] V. Bo, La religione sommersa, Rizzoli, Milano, 1986.
[87] M. V. Malvano,La letteratura Provenzale, Arnaut de Maruelh, UTET, II, Torino, 1969. ( pag. 216)
[88] U. A. Canello, La vita e le opere del trovatore Arnaldo Daniello, Halle, 1883, in UTET II, Torino, 1969. (pag. 216)
[89] R. Nelli, Scrittori anticonformisti del Medioevo provenzale. Le donne gli amori, Ed. Luni, Milano – Trento 1993.
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[93] S. Pepys, Diario (brani tradotti da M. Dandolo), Bompiani, Milano, 1982.
[94] J. Boswell, Diario londinese, UTET, Torino, 1954.
[95] L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra ‘500 e ‘800, Einaudi, Torino, 1983.
[96] L. Stone, (op.cit),.( pag. 641).
[97] L. Stone, (op.cit.), (pag. 349).
[98] R. Lewinsohn, Storia dei costumi sessuali, Sugar , Varese, 1963.
[99] G. Duby , Il potere delle donne nel Medioevo, Laterza, Bari, 1996.
[100] D. Olivieri, Dizionario etimologico, Ceschina, Milano, 1961.
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[102] J. L. Flandrin, Il sesso e l’Occidente, Mondadori, Milano, 1981.
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[106] B. Malinowski, Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Boringhieri, Torino, 1969
[107] P. Dibie, Storia della camera da letto, Rusconi, Milano, 1998.
[108] G. Algreve, Costumi sessuali nel Medio Oriente. Edizioni Mediterranee, Roma 1960; H. Lewandowski, Costumi sessuali dei popoli extraeuropei, Edizioni Mediterranee, Roma, 1960; A. Tullmann, Costumi sessuali dei popoli primitivi, Edizioni Mediterranee, Roma, 1961.
[109] J. G. Frazer, Il ramo d’oro, Newton, Roma, 1992.
[110] E. Brocca, Viaggio tra gliIndi, 2 Voll., Consiglio Nazionale Ricerche, Roma, 1965.
[111] L. Rancier, L’universo del sesso, Aneddoti, curiosità e stranezze sui costumi sessuali dei popoli nel mondo, Pan, Milano, 1999.
[112] F. Henriques, Love in Action, Tillghith, Londra 1959.
[113] F. Henriques, Storia sconosciuta, Stella Alpina, Novara, 1966.
[114] E. Brocca, Viaggio tra gli Indi, 2 voll, Consiglio Nazionale Ricerche, Roma 1965.
[115] E. Brocca, Viaggio tra gli Indi, (op.cit.)
[116] M. Sahlins, Isole di storia. Società e mito nei mari del Sud, Einaudi, Torino.
[117] L. Rancier , (op. cit.)
[118] R. Bleichsteiner, Popoli turchi, in H. A. Bernatzik, Popoli e razze, Vol. II°, Casini, La Spezia, 1954.
[119] T. Korner, Indonesia in H. A. Bernatzik, Popoli e razze, Vol. II°, Casini, La Spezia, 1954.
[120] P. Dibie, Storia della camera da letto, Rusconi, Milano, 1998.
[121] I “Veda”, sono detti e raccolte di inni, preghiere, formule sacrificali, magiche ed augurali, che potremmo dire hanno l’autorità che in Occidente ha la Bibbia e che la popolazione ariana di pelle bianca introdusse nel continente indiano.
[122] P. Dibie, Storia della camera da letto, (op. cit)
[123] La prima parte è edita in Formazione Psichiatrica, n° 1-2, anno XXIV,Gen/Giugn 2003
[124] Viviana Kasam, Rivista Riza psicosomatica, Luglio 1995, (pag. 18).
[125] M. Mead, Sesso e temperamento, Mondadori, Milano, 1967.
[126] H. Ellis, Amore e tabù sessuali, Newton, Roma, 1964.
[127] J.G. Frazer, Il ramo d’oro, (op. cit.)
[128] Documentario proposto su Tele+3 il 24.8.1995.
[129] C. La Rocca, Donne al Potere, Dossier, Giunti, Firenze 1998.
[130] RAI 3, agosto, 1995.
[131] A. McLaren, Gentiluomini e canaglie, Carocci, Roma 1999.
[132] L. Ballabio, La coppia flessibile, Franco Angeli, Milano, 1997.
[133] A. Carotenuto, Amare tradire, Bompiani, Milano, 1988.
[134] G. Schelotto, Il sesso, probabilmente, Mondadori, Milano, 1996.
[135] L. Mangulis & D. Sagan, La danza misteriosa, Mondadori, Milano,1992.
[136] W. Reich, La rivoluzione sessuale, Feltrinelli, Milano, 1972.
[137] C. R. Rogers, Partners, il matrimonio e le sue alternative, Astrolabio, Roma, 1974.
[138] J. Baldaro Verde, Lo spazio dell’illusione: viaggio intorno alla coppia, Raffaello Cortina, Milano, 1990.
[139] S. Di Lorenzo, Il teatro della copia, Pratiche, Parma,2000
[140] H. Fisher, Anatomia dell’Amore, Longanesi, Milano, 1986.
[141] D. Nastasi , “Si al sesso in ufficio”, Class, settembre 1995.
[142] Nell’antica Roma il matrimonio era valido fin tanto che i coniugi provavano affetto l’uno per l’altro.
[143] R. Corso, Matrimonio, Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, 1970; voce Matrimonio, Dizionario Enciclopedico Italiano, vol. VII, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma, 1970, (pag. 500).
[144] R. Corso, Matrimonio, (op. cit.)
[145] G. Duby, J. Le Goff, Famiglia e parentela nell’Italia medievale, Il Mulino, Bologna, 1981; D.Herlihy, La Famiglia nel Medioevo, Laterza, Bari, 1994
[146] Poiché erano molto frequenti i matrimoni contratti senza alcuna formalità, in mancanza di qualsiasi forma esteriore e di testimonianze ( i testimoni per esempio allora non erano ritenuti ancora necessari) era difficile accertare la validità o la nullità di quel legame.
[147] C. G. Jung, Psicoanalisi o psicologia analitica?, Intervista di Evans a Jung, Newton, Roma, 1974.
[148] R. Terranova Cecchini, M. Tognetti Bordogna, Le coppie bi-culturali: nuove coppie del nostro tessuto sociale, in La Coppia, nuove realtà, nuovi valori, nuovi problemi, 2 voll., Franco Angeli, Milano, 1999.
[149] F. Fukuyama, The End of Order, Social Market Foundation, London, 1996.
[150] Sul complesso argomento, la cui trattazione esula dagli scopi di questo testo, si vedano tra gli altri: R. Ardone e S. Mazzoni , La mediazione familiare, Giuffrè , Milano 1994; M. Malagodi Togliatti e G. Montanari, Famiglie divise, Franco Angeli, Milano, 1995; J. M. Haynes e L. Buzzi, Introduzione alla mediazione familiare, Giuffré, Milano, 1996; V.Cigoli, G. Gulotta, G. Santi, Separazione, divorzio e affidamento dei figli, Giuffré, Milano, 1997; V. Cigoli, Psicologia della separazione e del divorzio, Il Mulino, Bologna 1998.
[151] L. Ballabio, ( op.cit.).
[152]E. Martyn, Divorziare oggi, Edizioni Meb, Gruppo Editoriale Muzzio, Padova, 1990.
[153] S. Di Lorenzo, Il teatro della coppia, Pratiche, Parma, 2000.
[154] Il filosofo Arthur Schopenhauer affermava che non è possibile vedere la realtà, sempre nascosta ai nostri occhi dal velo di Maya. Maya è, nel “Riveda indiano”, il potere magico che impedisce di vedere la realtà e lascia solo spazio ad una ingannevole “illusione cosmica” .
[155] T. Reik, Psicoanalisi della Bibbia, Garzanti, Milano, 1969.
[156] T. Borman, Das Hebräische denken im Vergleich mit dem Griechischem, Gottinga, 1952.
[157] G. Maggie, B. Corsaro, J. A. Saggin, Dizionario Biblico, Feltrinelli, Milano, 1968.
[158] G. Paradiso, Vittime ed eroine, EPC, Catania, 1996.
[159] Jo Ann Kay Mc Namara, Sorelle in armi. 2000 anni di storia dell’esercito femminile di Dio, Piemme, Casale Monferrato,1999.
[160] G. Paradiso, Vittime ed Eroine, EPC, Catania, 1966
[161] F. Amabile, Uomini, analfabeti dei sentimenti, in La Stampa, 14.2.1998.
[162] A. Morali-Daninos, Storia della sessualità, Newton, Roma, 1994.
[163] G. Paradiso, Prigionieri dell’infanzia, Bonanno, Acireale, 1996.
[164] G. Paradiso, Vittime ed Eroine, EPC, Catania, 1998.
[165] M. Fitoussi, Superdonne, Garzanti/Vallardi, Milano, 1988.
[166] Intervistata da Piero Angela, in Quark, Rai 1, febbraio, 2002.
[167] La notizia è stata divulgata al pubblico tramite la stampa tra l’altro anche da Margherita de Bac, con una corrispondenza sul Corriere della sera del 3.03.03, dal titolo “Trovato il filtro d’amore”.
[168] C. Collange, Vivere il divorzio, Mondadori, Milano, 1983.
[169] M. Gramellini, Per cambiare ci vuole fegato, in Specchio del 16.12.2000.
[170] Kramer contro Kramer, di Robert Benton, USA, 1979.
[171] T. Parsons, R. F. Bales, Famiglia e socializzazione, Mondadori, Milano, 1974; A.L. Zanatta, Le nuove famiglie, Il Mulino, Bologna 1997.
[172]A. Giddens, La trasformazione dell’intimità.Il Mulino, Bologna, 1995.
[173] C. Covato, Sapere e pregiudizio. L’educazione delle donne tra ‘700 e ‘800, Archivio Izzi, Roma, 1991.
[174] La prima parte è edita in Rivista Formazione Psichiatrica, n° 1-2, Gen/Giugno 2003
La seconda parte in Rivista Formazione Psichiatrica, n° ….., …….
[175] Vătsyăyana Mallanăga , Aforismi sull’amore sessuale (Kamasutra), secolo IV-V d. C.
[176] S. Di Lorenzo, Il teatro della coppia, Pratiche, Parma, 1999
[177] P. Veyne, La poesia, l’amore, l’Occidente. L’elegia erotica romana, Il Mulino, Bologna,1985
[178] P. Veyne, I misteri del gineceo, Laterza, Roma-Bari, 2000.
[179] A. Guiducci, Medioevo inquieto, Storia delle donne dal VI al XI Secolo, Sansoni, Firenze, 1990.
[180] voce: Ragionamenti, Il Dizionario delle opere, Bompiani, Milano, 1946, pag. 92.
[181] F. De’ Vieri, Discorso della grandezza e felice fortuna d’una gentilissima e graziosissima donna, Firenze, 1580 (in T. Bozza, Scrittori italiani dal 1550 al 1650, Roma, 1949)
[182] M. Pozzi, (a cura di), Trattati d’amore del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari, 1980.
[183] A. Firenzuola, Opere, a cura di A. Seroni, Firenze, 1958.
[184] C. Goldoni, Memorie, a cura di P.Bosisio, Mondadori, Milano, 1993.
[185]A. Antonucci, Introduzione a Gli innamorati di C. Goldoni, Newton, Roma 1994.
[186] A. Fogazzaro, Il Santo, Opportunity Book, Milano, 1995.
[187] B. I. Murstein, in: La psicologia dell’Amore a cura di R. J. Sternberg e M. L. Barnes. op.cit.
[188] R. Norwood, Donne che amano troppo, Feltrinelli,, Milano, 1989.
[189] H. Hesse, Sull’amore, Mondadori, Milano, 1985
[190] A. Botton, Esercizi d’amore, Guanda, Parma, 1995.
[191] C. Llera Moravia, Sarabanda, Bompiani, Milano, 1997.
[192] F. Fitzgerald, Maschiette e filosofi, Newton, Roma, 1996.
[193] E. White, Ladro di stile. Le diverse vite di Jean Genêt, Il Saggiatore, Milano, 1998.
[194] E. White, Stati del desiderio, Ed. Zoe, Forlì 1996.
[195] D. Dijkstra, Perfide sorelle, Garzanti, Milano, 1997.
[196] A. Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale, Rizzoli, Milano, 1994.
[197] V. Di Benedetto, Guida ai Promessi sposi, Rizzoli, Milano, 1998
[198] B. Dijkstra, op. cit.
[199] F. M. Crawford, La Strega di Praga, Studio Tesi, Pordenone, 1987.
[200] Joan Fuster, Dizionario per oziosi, Pironti, Napoli,1994.
[201] L. Buscaglia, La coppia amorosa, Mondadori, Milano, 1990.
[202] A. Bravo, Il fotoromanzo, Il Mulino, Bologna, 2001.
[203] G. Paradiso, Pirandello psicoanalitico, E.P.C., 1996, Catania
[204] D. Cecchi, Rembrandt pittore solitario, in Storia Illustrata, Novembre 1997.
[205] C. Casini, Verdi Rusconi, Milano, 1994.
[206] G. Turnaturi, Tradimenti. L’imprevedibilità delle relazioni umane, Feltrinelli, Milano, 2000
[207] F. Garelli, I giovani, il sesso, l’amore, trent’anni dopo la ribellione dei padri. Il Mulino, Bologna 2000.
C’E’ UN’ETA’ PER AMARE?

Esiste una età oltre la quale è necessario rinunciare all’eros?
È un luogo comune, che gli affetti, i sogni e i sentimenti d’amore, siano retaggio della giovinezza?
In passato molti uomini, dopo aver corso la cavallina, quando erano ormai anziani e ricchi, sposavano belle ragazze, date loro in matrimonio da padri avidi di denaro. E queste giovani a volte trovavano anche un buon compagno nel marito più vecchio di loro. I mariti maturi, spesso si mostravano affettuosi e premurosi con le giovani mogli.
Anche le donne di una certa età, se rifiutano l’idea sociale che le ritiene “pensionate dell’amore”, anche se non sono in grado più di generare figli, sono pur sempre capaci d’amare. Tra cinquanta anni gli italiani saranno il dieci per cento in meno e in media saranno molto più vecchi di oggi: lo rivela l’ultimo studio dell’Istat sulla popolazione residente, cui solo la dinamica immigratoria provvederà nei prossimi decenni ad evitare un rovinoso crollo demografico.
Cresce l’«indice di vecchiaia», con aspettative impensabili. L’età avanza, ma la questione è: siamo in condizioni di saper andare psicologicamente in maniera serena incontro alla vecchiaia?
Un tempo la mezza età cominciava intorno ai quarant’anni, oggi a questa età si è considerati giovanotti esordienti o fanciulle in fiore.
Questi adolescenti/quarantenni sono simili ai giovanissimi di un tempo. Perciò bisognerebbe almeno provare a riformulare la scansione delle stagioni umane: infanzia, giovinezza, maturità, e vecchiaia. Il crescere dell’«indice di vecchiaia», come lo chiamano. gli esperti, non è il semplice dilatarsi dell’ultima età, è una periodizzazione diversa, più articolata.
Fra la giovinezza e l’età matura bisognerebbe trovare un nome a questa età “acerba” che non può più definirsi «matura» perché si sono dilatati i tempi della età di mezzo. Forse sarà invecchiare non solo insieme ai propri figli e ai nipoti, ma anche ai pronipoti.
Giorgio Abraham,[1] docente di Psichiatria all’Università di Ginevra ed eminente sessuologo, sostiene che le persone anziane in buona salute possono usufruire della sessualità in modo soddisfacente.
Considerare vergognose, ad una certa età, le pulsioni erotiche significa rinunziare alla vita afferma James Hilmann, psicoanalista junghiano fra i più noti, che ha recentemente scritto un libro per spiegare quanta prestanza trova l’anziano se è in buone condizioni fisiche.
Persino uno spirito duro e arcigno come Machiavelli, in età matura soffrì pene d’amore. Machiavelli cercò l’amore anche a tarda età. Autore teatrale alquanto disinibito, nelle trame teatrali che imbastì, quali ad esempio La Mandragola, non mancò di tratteggiare l’amore e l’eros. In un saggio, l’Erotica,[2] disse che la passione e l’amore possono far perdere l’equilibrio anche alla persona più seriosa.
Tuttavia, per una consolidata ipocrisia , proprio la diversità generazionale è quella che crea più imbarazzo, e persino l’irrisione.
Il film l’Angelo Azzurro di J. von Sternberg, racconta le peripezie di un vecchio e ingenuo professore, invaghito di una conturbante e sensuale vedette, che si coprì di ridicolo.
Unioni condannate e messe in berlina sono dunque quelle tra anziani e quelle tra anziani e giovani. Tuttavia, vecchio è chi non ha più interessi, chi non ha più desideri, chi non s’innamora più di una idea, di qualcosa o di qualcuno. Di questi vecchi ce ne sono che hanno solo venti o trent’anni.
Gli anziani che cercano di mantenere il più a lungo possibile le loro capacità lavorative, sociali, creative, sono quelli che hanno più a lungo un’attività amatoria.[3]
Voltaire divenne più audace nella vecchiaia. Wagner, che non si rassegnava alla vecchiaia, continuò ad amare fino a tarda età. Bertrand Russell a ottantanove anni era ancora desideroso d’amare. Non si sentiva vecchia la settantenne marchesa Anne Marie du Deffand quando s’innamorò del quarantottenne politico inglese Horace Walpole. Tra lei e Walpole s’instaurò una lunga relazione amorosa che durò almeno quindici anni.
In quanto alle donne, secondo lo storico Lawrence Stone,[4] l’ipocrisia sociale darebbe per scontato che la gravidanza sia il loro principale dovere. Ma molti uomini e molte donne non si lasciano trarre in inganno da simili pregiudizi sociali e continuano ad amoreggiare.[5] Questo li mette al riparo dal massiccio e traumatico calo dell’umore, di cui soffrono coloro che si sono arresi.
L’ottantenne Alberto Sordi, all’Associazione per la Terza età, nel novembre del 1998, discutendo, sul tema “Il bisogno d’amore per gli over 60” ha spiegato che il desiderio d’affetto è presente anche nell’anziano «Vivere a lungo non deve essere una condanna, bensì un vantaggio».
Simone de Beauvoir[6] ha narrato che agli inizi del Novecento molte giapponesi per avere una vecchiaia serena, divorziavano. E Bertold Brecht, ne La vecchia signora indegna, racconta di una settantenne che, con grande scandalo della famiglia, si ribella alla vita piatta condotta fino a quel momento, ipoteca tutto, casa e averi, e con i soldi ricavati, si va a divertire.
Quando la creatività è attiva, sono utilizzate al meglio le possibilità fisiologiche, psicologiche e sessuali. Chi invece va “psicologicamente” in pensione, si intristisce e affretta il proprio decadimento fisico e mentale.
Quando Totò incontrò Franca Faldini, lui aveva 54 anni e lei 21, e pure la coppia cementò subito e i due si amarono tenerament. L’attrice Giuliana De Sio conobbe il regista Elio Petri a 20 anni. Lui ne aveva quasi cinquanta. Purtroppo il ménage venne stroncato dalla morte del regista.
Jean-Paul Belmondo, ha avuto molte storie d’amore. In una intervista ha ammesso di sentirsi vitale grazie all’entusiasmo per il lavoro, e all’immutata esaltazione che gli dà l’amore.
Politici, artisti, creativi, personalità socialmente impegnate, se continuano ad agire come hanno sempre fatto, senza mollare, mantengono fino all’età senile una grande vitalità. L’attore Renato Cucciolla, ha affermato che dedicare uno spazio all’amore quando si è anziani è una ricetta per non deprimersi. Fred Astaire a 81 anni sposò una ragazza di 35 anni, Robyn Smith la quale disse che Fred era così giovanile che lei non notava alcuna disparità tra lei e il marito.
Marlon Brando a settantuno anni ha avuto il dodicesimo figlio. Anthony Quinn divenne a settant’anni ancora una volta padre. L’attore Ernesto Calindri, ultranovantenne, dichiarò, in un’intervista[7] che per lui l’attività più esaltante era stare in compagnia di donne. Il filosofo e scrittore Stefano Zecchi che si è sposato a 54 anni con la ventiseienne Sara Fioretta.
Lo chansonnier Leo Ferrè ebbe un figlio a 62 anni, Charlie Chaplin divenne padre a 73 anni, e l’attore americano John Wayne a 60 anni. L’attrice Paola Borboni sposò a settantadue anni un trentenne. A settanta anni Bette Davis s’innamorò perdutamente del suo giovane segretario; Simone de Beauvoir, a sessant’anni, ebbe una relazione con un giovane col quale era legata da interessi intellettuali.
La soprano Lina Cavalieri, dopo tre matrimoni, aprì la famosa maison de beauté, ed ebbe diverse relazioni fino a tarda età? Cléo de Mérode, ballerina di Chez Maxim, fino a tarda era considerata divoratrice di uomini.
Produttività lavorativa, arguzia mentale e ars amandi sono aspetti di un’unica forza vitale che scaturisce dall’interesse per la vita. I longevi nel campo dell’arte, della politica, del lavoro e delle scienze sono anche efficienti in amore.
Victor Hugo, a sessanta anni si legò alla giovanissima Juliette Douret. Wolfhang Goethe a cinquantotto anni s’innamorò della diciannovenne Minna Herzlieb. Raccontò di questa donnanella figura di Ottilia, protagonista de Le affinità elettive.[8] Goethe non cessò mai d’amare: a settantatré anni chiese la mano della diciannovenne Ulrike Levetzow.
Il musicista Giuseppe Verdi fu un longevo spirito creativo: compose il Falstaff quando aveva 80 anni, e fu un infaticabile amante fino agli ultimi anni della sua vita.
Guglielmo Marconi non smise mai d’amare le donne nemmeno a tarda età. Il compassato e distaccato Premio Nobel, s’innamorò di una ventenne che egli chiamava affettuosamente Nene.
Il pittore Marc Chagall morì a novantasette anni in piena attività lavorativa ed erotica. Il generale austriaco Radetzky al ragguardevole traguardo degli ottanta anni, quando combatté la decisiva battaglia di Novara, fu ancora grande amatore; Hannah, la fida governante quarantenne, gli stava vicino, anche in camera da letto.
Lo statista Otto Bismarck‑Schonhausen abbandonò la politica attiva all’età di 75 anni. Nel ritiro di Friedrichsruh, gli fece compagnia una donna che aveva trent’anni meno di lui, e che fu sua tenera amante.
Purtroppo, donne e uomini arrivati ad una certa età, a causa del pregiudizio sociale, perdono interesse per la vita. La sessuologa Emma Chiaia[9] spiega che fortunatamente non sempre la situazione è così deleteria.
Sono molte le sessantenni che non si sentono affatto «pensionate sessuali»
Il mensile Le Temps Retrouvé ha condotto un’inchiesta su 500 persone tra i sessanta e settanta anni, di entrambi i sessi. Gli intervistati hanno affermato che fare all’amore dopo un certa età non è problematico se si è efficienti.
Non si può negare che esistano limiti derivanti da infermità dovuti all’età. Ma a volte alcuni problemi dipendono da una negativa disposizione psicologica condizionata dai pregiudizi sociali. Quelli che non mantengono ritmi di vita sostenuti “vanno in pensione” prima e si sentono finiti. Ne consegue una grave depressione.

Differenze d’età nei legami amorosi

In passato, nell’antichità, all’età sbilanciata dei partner non si faceva alcun caso. Le coppie di questo genere erano quasi la regola, anche se spesso si trattava di unioni di convenienza. Le ragazze giovani andavano di buon grado spose a vecchi signori, perché avevano la speranza, dal momento che la vita media era molto bassa, di restare presto vedove e restare libere di avere nuove unioni.
In passato inoltre non solo era consueto vedere un anziano accompagnarsi ad una giovane, ma anche in qualche caso una anziana andare sposa a un ragazzo.
Nel Quattrocento, secondo una indagine condotta da Henri Bresc[10], l’età del matrimonio delle donne siciliane era intorno ai dodici anni, e comunque non superiore ai diciotto. In Sicilia, nella cittadina di Paceco, secondo Benigno[11] tra il Seicento e il Settecento, le donne si sposavano tra i sedici e i diciannove anni. Marzio Barbagli[12] riferisce che in Puglia nel secoli XVI e XVII l’età media del matrimonio delle donne era al di sotto dei venti anni; anzi in alcune zone non superava i quindici. Eugenio Azimonti[13], ha potuto individuare che nei primi del Novecento, in Basilicata, le donne andavano spose intorno ai sedici anni.
Il carisma della persona di successo, affermata, è coinvolgente. Galileo Galilei, sebbene pieno d’acciacchi, conservò una tempra vivacissima, tanto che a sessantasei anni s’innamorò della trentenne Alessandra Bocchineri Buonamici, donna intelligente e colta.
Gaspare Gozzi s’unì alla poetessa dell’Arcadia, Luigia Bergalli (in arte Irminda Partenide), di dieci anni più anziana di lui[14]. A metà del ‘700, Benjamin Franklin nel suo saggio Advice to a Young Man enunciava alcune “buone ragioni” per scegliere una donna matura. Secondo l’autore il sesso con una donna d’età è appagante, perché «le donne mature sono più affettuose e riconoscenti».
Una passione travolgente unì il cinquantaseienne filosofo Voltaire all’adolescente nipotina Denis, affascinata dalla vivacità intellettuale del filosofo.
Il sessantacinquenne Francisco Goya y Lucientes si sentì rinnovato quando s’innamorò della giovane e bella Leocadilla Zorilla, che strappò al legittimo coniuge . E con lei visse gli ultimi anni della sua vita [15]. Nei Demoni, Dostoevskij racconta l’amore e l’attrazione fisica del maturo protagonista, per una ragazzina. Che è la trasposizione letteraria di una vicenda vissuta dallo stesso Fëdor, e precisamente l’innamoramento che ebbe per la giovanissima scrittrice, Anna Korvin Krukovskaija.
Il quarantenne compositore Bela Bartok, sposò l’allieva Marta Ziegler che aveva appena sedici anni. E quando divorziò da Marta, sposò la pianista Ditta Pàsztory, altra sua alunna, anch’essa di sedici anni.
Lo scultore Auguste Rodin a sessantatre anni iniziò una relazione con la ventisettenne pittrice Gwen John[16]. L’attore e regista Charles Chaplin, sposò la sedicenne Mildred Harris. Quando conobbe la ventenne Paulette Goddard, aveva quarantatré anni e, manco a dirlo, se ne innamorò pazzamente. L’attore, che non conosceva soste, a 54 anni visse la felice vicenda con Oona, giovane figlia del drammaturgo Eugenio O’Neill, la quale era trentacinque anni più giovane di lui.
Il sessantanovenne scrittore Carlo Cassola sposò in terze nozze Paola Natali, un’infermiera che aveva trentacinque anni meno di lui. E un amore senile legò anche il sessantenne Pasternak alla trentenne Olga Ivinskaja, dalla quale ebbe una figlia, Irina Emilianova. Olga ispirò allo scrittore la figura di Lara, protagonista del romanzo Il dottor Zivago.
Esaltante la passione che unì il cinquantatreenne fotografo Alfred Stieglits alla trentenne pittrice Georgia O’Keeffe, sua musa ispiratrice. Anche il comico Totò ebbe alcune relazioni “sbilanciate” quanto ad età.
Le più conosciute sono due. La prima, quando l’attore aveva trentatre anni e lavorava per l’impresario Maresca, in una tournée a Firenze, incontrò la bellissima sedicenne, Diana Bandini Lucchesini Rogliani, figlia di un marchese, verso la quale provò una passione a prima vista. La ragazza fuggì col comico e i due convissero fino al raggiungimento della maggiore età di Diana. A quel punto si sposarono e dall’unione nacque Liliana. Tre anni dopo il matrimonio, Totò e Diana divorziarono, ma continuarono a vivere sotto lo stesso tetto, onde evitare traumi alla figlia.
L’altra relazione sbilanciata fu quella che Totò ebbe con Franca Faldini, con la quale l’attore visse fino alla morte. Quando il principe De Curtis conobbe Franca aveva già cinquantaquattro anni e lei ventuno. Anche questa volta fu amore a prima vista e i due si misero subito assieme, ma, a causa delle differenza d’età, il comico affermò che non l’avrebbe voluta legare definitivamente a sé, tant’è che i due non si sposarono mai.
Un altro comico, Renato Rascel, sposò, in terze nozze, la soubrette Giuditta Saltarini, che aveva trent’anni meno di lui. Malgrado tanta differenza d’età, il matrimonio tra Renato e Giuditta fu esemplare.
Storie analoghe per i famosi ‘tre tenori’: Placido Domingo a cinquantasei anni, dopo venticinque anni di matrimonio con la soprano Marta Ornelas, è andato a convivere con la ventenne rumena Alessandra Duller. Il cinquantenne José Carreras si è separato dalla moglie, essendosi innamorato di una ventottenne, Petra Schlapp. Luciano Pavarotti a sessanta anni, ha lasciato moglie e s’è unito alla sua segretaria, la ventisettenne Nicoletta Mantovani.
L’anziano scrittore Jorge Luis Borges sposò la trentasettenne Maria Kadama, sua ex allieva e simpatizzante. L’attore Carlo Croccolo, a settantacinque anni, in terze nozze, sposò una trentasettenne. Il sessantenne attore Warren Beatty, si è sposato con la venticinquenne Annette Bening, dalla quale ha avuto tre figlie.
Il cancelliere tedesco Willy Brandt, a settant’anni, sposò una sua collaboratrice Brigitte Seebacher che era trentatré anni più giovane di lui L’ottantenne Alberto Moravia si legò alla trentenne scrittrice spagnola Carmen Llera.
Archibald Alexander Leach – cioè l’attore Gary Grant – sposò in quinte nozze Barbara Harris, di quaranta anni più giovane di lui. Lo scrittore Norman Mailer, sposò in seste nozze Norris, che aveva trentacinque anni meno di lui. Il novantacinquenne architetto, scrittore e regista Luis Tranker, ha avuto un figlio dalla sua governante, la trentaduenne Martina Holler. L’ultrasettantenne narratore Erskine Caldwell, al suo quarto matrimonio sposò una donna che aveva trent’anni meno di lui.
A ottantatre anni, Giovanni Malagodi, leader dei liberali volle sposare la trentacinquenne Elena Iannotta. Arturo Toscanini, oltre ad una infaticabile vivacità creativa aveva anche una travolgente esuberanza erotica[17]. A 66 anni si legò alla pianista Ada Colleoni Mainardi, moglie del violoncellista Enrico Mainardi, con una affettuosa amicizia che durò sette anni. E l’esuberante Pablo Picasso, a sessantacinque anni s’innamorò di una giovane liceale, Geneviève Laporte che lo aveva intervistato per scrivere su di lui un articolo nel giornale del Liceo Fénelon.
Da quegli incontri nacquero vari capolavori: “Geneviève”, “Un’odalisca in nudo” e altre tele sublimi. La relazione durò tre anni, durante i quali entrambi furono travolti da un intenso e appassionato amore spirituale e sessuale.
La giornalista Barbara Gordon[18] riferisce che alcune giovani donne si legano a uomini maturi con grande passione. Si tratta di una febbre sensuale (La febbre di Jennifer[19]) che spinge la rampante Jennifer a farsi guidare da un uomo che ha più esperienza nella scalata sociale. E «gli individui di mezza età – conclude l’Autrice – desiderano donne giovani che gli fanno da afrodisiaco».
Saul Bellow, che nel 1976 ebbe il Premio Nobel per la Letteratura, ad 84 anni, ha avuto un figlio dalla quarantenne moglie Janis Freedman.
Non sempre è l’uomo il più anziano della coppia. La cantante californiana, cinquantatreenne, Cherylin Sarksian, in arte Cher, è stata in coppia con uomini più giovani di lei; l’ultimo è il ventottenne Toby Astis, attore inglese noto nelle soap opera.
Spesso un ragazzo convive con una donna adulta o molto matura. Secondo i dati Istat, il fenomeno sta crescendo. Tanto per fare degli esempi, l’attrice Ornella Muti (45) è legata a Stefano Piccolo (37), Irene Pivetti (37) è sposata con Alberto Brambilla (27), Alessandra La Capria, figlia dello scrittore, ha 33 anni ed è legata la figlio di Venditti, Francesco, che ha 23 anni. L’attrice Barbara de Rossi, quarantenne, sta con il ballerino Branko Tasanovic, di 29 anni.
A New York, alla fine di dicembre 1999, la trentacinquenne Carmen Valentin, divorziata e già nonna, ha avuto un figlio, dopo un anno di convivenza con un ragazzo di quattordici anni. A Seattle la professoressa Mary Kay Le Tourneau, una trentacinquenne madre di quattro figli, s’è innamorata d’un tredicenne, suo alunno, ed è rimasta incinta di lui.
Il fenomeno delle donne adulte che amano ragazzi, è, come si vede, abbastanza diffuso. Questi legami sono sempre più frequenti in Francia, in Svezia, e in altri paesi occidentali; e tra donne d’una certa età e giovani s’intrecciano passioni a volte davvero travolgenti.
Nel 1996, un’insegnante di scuola media, la trentaquattrenne Mary Kay Letourneau, ha lasciato marito e quattro figli per Vili Faulau, un suo allievo tredicenne. La donna, che aveva avuto una bambina, Audrey, dal suo giovane amante, è finita in carcere. Sebbene condannata a non rivedere più l’innamorato, Mary, scontato un anno di carcere, ha continuato a frequentare il “suo”Vili, col quale ha scritto persino un libro, Un solo crimine: l’amore.
Purtroppo però può accadere che chi è giovane, scelga una persona matura, per calcolo.
Pupella Maggio, la grande attrice napoletana, ha confessato “la fesseria di prendere per marito uno che ha l’età di sua figlia”, alludendo a Luigi Dell’Isola che era ventidue anni più giovane di lei ma che si dimostrò un cacciatore di dote. L’attrice lo fece diventare direttore del teatro di Eduardo, gli donò case e terreni, ma si accorse troppo tardi che quel giovane era solo attratto dal denaro dell’attrice.
Spesso la pressione sociale rende invivibile il ménage sbilanciato per età.
Ma in tantissimi casi nemmeno il discredito sociale ha cancellato il buon esito di unioni tra persone anziane e giovani.
[1]G. Abraham, D. Bourquine, C. Stampi, Al di là della medicina psicosomatica, Sei, Torino, 1989.
[2]N. Machiavelli, Erotica,Dall’Oglio, Milano, 1964.
[3] C. Laicardi & L. Pezzuti, Psicologia dell’invecchiamento e della longevità, Il Mulino, Bologna, 2000.
[4]Shaw – Darling, op. cit, pag. 124.
[5]B. N. Butler, Sessualità in forma in tutte le età, Sperling e Kupfer, Milano, 1998.
[6] S.de Bauvoir, La terza età, Einaudi, Torino, 1988
[7]O. Guerrieri, La mia felicità le donne, La Stampa 2.10.1995.
[8] G. Necco, Ottilia in: Personaggi, Dizionario Letterario Bompiani, Milano, 1950.
[9]E. Chiaia, Eva e la mela matura. Sessualità e amore nella seconda metà della vita, Sonzogno, Milano, 1995.
[10]H. Bresc, Un monde méditerranéen. Economie et société en Sicile, Ecole Française de Rome, 1986.
[11]F. Benigno, Ricerche su Paceco, nel Sei e Settecento, Coop. Univ. Editr. Catanese Magistero, Catania 1985.
[12]M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, Il Mulino, Bologna, 1988.
[13]E. Azimonti, Inchiesta parlamentare nella Sicilia e nella Basilicata, Tipografia Nazionale Berbero, Roma, 1909.
[14]N. Mangini, G. Gozzi, in Grande Dizionario Enciclopedico, vol. IX pag. 351, UTET, Torino, 1969.
[15] Art-Book Goya, a cura di Paola Rapelli, Leonardo Arte, 1997.
[16] V. Griffin, L’amante. Storia e segreti dell’infedeltà, Mondadori, Milano, 2000.
[17]S. Cappelletto, I furori di Toscanini, in La Stampa, 4.06.1998.
[18]B. Gordon, La vita è una gara di ballo, Frassinelli, Milano,1990.
[19]B. Gordon, La febbre di Jennifer, Frassinelli, Milano, 1989.