Psicoterapie

MALATTIA MENTALE, SOFFERENZA PSICHICA E TERAPIA DELLA PAROLA                           

 

 Fino ad oggi non erano stati in alcun modo rilevabili le alterazioni neurologiche dovute a stati psicopatologici come l’angoscia e alla malattia mentale in genere. Ciò che di quei disturbi  si poteva vedere erano le manifestazioni esteriori, le conseguenze comportamentali ed espressive del disagio psichico, ma non si potevano identificare “neurologicamente” i processi mentali che presiedono e sviluppano le stranezze della parola e del comportamento nel malato di mente.

Il lavoro del terapeuta non aveva riscontri fisico-neurologici, come invece ha il chirurgo, l’ortopedico, il dentista,  il medico internista, etc.

Grazie al migliorare delle acquisizioni  delle neuroscienze che indagano sulle strutture e le funzioni cerebrali, oggi possiamo avere informazioni concrete  sulle strutture fisiologiche dei processi mentali, sui cambiamenti della cervello-mente, anche in relazioni alla malattia psichica e alla  psicoterapia.

Secondo E. R. Kandel  è possibile riscontrare cambiamenti a livello celebrale dovuti alla psicoterapia. L’Autore  afferma che si possono notare determinare modifiche a livello sinaptico dovute  all’apprendimento e, a tal proposito, ha osservato cambiamenti della architettura cerebrale in soggetti sottoposti a psicoterapia. 

L’esperienza psicoterapica può dare dunque  l’avvio a modificazioni della plasticità cerebrale.  Di converso, si può affermare che, avendosi cambiamenti nel pattern delle connessioni cellulari, l’apprendimento di comportamenti sociali distorti, gli stress psichici consistenti e continuativi, possono comportare la strutturazione e il mantenimento di alterazioni nelle funzioni cellulari che, assieme ad alterazioni genetiche e biochimiche, si rendono causa di  qualche malattia mentale.

Le neuroscienze hanno mostrato che la mente umana è un misto di fisiologia e psicologia: è il prodotto della eccitazione neurale,   il risultato della interazione tra processi neurofisiologici interne al cervello e l’acquisizione e l’elaborazione  di esperienze esterne, che costituiscono un patrimonio di notizie che determinano il funzionamento della mente, le sue scelte, il profilo personale del soggetto.

Anche i più complessi e astratti  processi mentali sono il prodotto di operazioni fisiologiche cerebrali, e quindi dipendono da una serie di funzioni che dipendono dalla materia  cerebrale.    

Grazie alle nuove tecniche di ricerca, studiando i processi mentali anche dal punto di vista biologico, è possibile raggiungere conoscenze abbastanza pertinenti sui meccanismi biologici che creano il funzionamento della mente.  

Il livello di indagine delle nuove tecniche di brain-imaging delle neuro scienze, consente di approfondire “neuro-fisio-biologicamente” i processi cerebrali. Con queste tecniche, per esempio,  si sono chiarite le basi biologiche della memoria.

In passato si pensava che ogni tipo di memoria avesse una sede precisa; con le nuove ricerche, grazie alla tecnologia PET, (tomografia ad emissione di positroni), si è potuto appurare che la memoria dipende da una fitta rete di neuroni che connettono siti cerebrali diversi e pertanto sono numerose le strutture e i sistemi  che contribuiscono ad incamerare ricordi e a riportarli alla memoria.    

Utilizzando la PET, ricercatori tra cui  James Flyn,  Howard  Gardner e altri, hanno constatato quali sono le zone del cervello attivate mentre il soggetto svolge diverse attività. Si è scoperto che vi sono aree del cervello che presiedono al linguaggio, altre all’orientamento spaziale, altre  al pensiero logico, alla musicalità e via dicendo.

Queste ricerche indicano che le capacità mentali dipendono da una vasta  interconnessione tra varie zone cerebrali e che vi possono essere delle specifiche capacità: linguistico verbale, logico matematica, musicale, cinestetica, spaziale, sociale,  ognuna delle quali è maggiormente presente in un individuo e meno in un altro. Si deve desumere che alcuni individui la cui sezione cerebrale si attiva maggiormente in concomitanza di un problema matematico, ma non  hanno però la medesima capacità per quanto riguarda la abilità sociale. 

Studiando il cervello in maniera più appropriata si è potuto constatare che non esiste (come si riteneva)  “l’intelligenza” in senso globale, ma varie  forme di intelligenza, per cui  può accadere che persone che eccellono in un campo, mostrano sensibili inadeguatezze in un altro.  Vi possono essere geni in un campo, ma non significa che costoro lo siano in altri campi. A tal proposito c’è da rilevare che la stupidità ha in sé una forza che la rende coriacea e vincente e che porta alla sua diffusione. La stupidità è il cortocircuito della ragione, e spesso è proprio l’atteggiamento irrazionale che ha più presa perché, essendo un corto circuito, è più semplice da propagandare (e da accettare!).  L’essere umano è  portato ad escludere dal suo pensiero,  per vari motivi soprattutto emozionali,  quei ragionamenti  che definisce “freddamente logici”  e preferisce ciò che è suffragato  apparentemente dalla morale, dal buonismo, dall’umanitarismo e dalla religione.  Tutto questo comporta una  saccenza,  caratteristica principale della stupidità, e  teorie “politiche”  percepite come una sorta di intuizione morale,  salvifica, grazie alla quale si eviterebbero le “ingiustizie” e si avrebbe la felicità degli uomini. Che poi in realtà non possono essere  adottate non mette in crisi il credo di coloro che le abbracciato: l’essere umano è portato ad escludere dalla propria vista ciò che non collima con le proprie utopie e le “aspettative messianiche” (buona parte della gente è convinta dei poteri dei fenomeni paranormali e questa è una delle convinzioni così diffuse che si fa forza da sé ed è difficile da estirpare).

L’umanità dunque ha molte illusioni: spesso si tratta di convinzioni condivise dalla massa, e in questo caso è difficile dimostrare la loro falsità. Il delirio, invece, è una convinzione che ha un singolo individuo,  non condivisa dalla massa, una convinzione che  quasi nessuno condivide con chi ce l’ha, ma quando questa convinzione è presente in molte persone, è difficile poterla sradicare. 

Il cervello umano tende a vedere ciò che si aspetta di vedere  ma che in realtà non c’è e spesso tende a notare correlazioni che non esistono, come nel caso della fortuna o della sfortuna.

Quando la mente ha una ipotesi ingannevolmente plausibile, costruisce delle prove che ne attestano la veridicità. In questo caso, il soggetto ha una irrazionale fedeltà nelle proprie convinzioni e fa di tutto, accettando anche prove inconsistenti, per attestarne la veridicità, e rifiuta qualsiasi prova contraria!

L’incapacità di vedere ciò che è ovvio, le fantasiosi spiegazioni di avvenimenti,  sono il corollario che consegue alla fiducia, senza razionale dimostrazione, nelle proprie convinzioni.

Spesso il nostro cervello per restare fedele alle proprie  convinzioni, o per paura di trovare verità scomode,  schiva e scarta ogni prova contraria, elude ogni esperimento rigoroso e critico della realtà, arrivando all’appagante credenza di essere a confronto della verità.

Questo spiega perché è vano tentare di aprire gli occhi a persone che sono abbarbicate emotivamente nelle loro convinzioni.

Le argomentazioni “razionali” che tendono a smantellare il castello di illusioni che il soggetto si è creato, ricevono una fredda accoglienza,  i ragionamenti che sostengono il punto di vista contrario sono rilevati come pericolosi e fuorvianti.

Questa rigorosa censura e la necessità di non approfondire la veridicità della proprie  convinzioni comporta, in molta gente, il persistere di convinzioni, impressioni, opinioni che spesso nulla hanno a che vedere con la realtà. La gente ostenta una perniciosa sicurezza in attestazioni che non sono mai stata passate al vaglio della ragione, e che si sono formati nell’innocenza dell’infanzia o in preda all’emotività.

 

Il cervello dell’uomo e della donna

Con ricerche in campo neurobiologico si sono scoperte strutture cerebrali diverse tra uomini e donne, e si è appurato che questa distinzione mostra che il diverso modo di comportarsi dei due sessi deriva proprio da tali dissomiglianze nel funzionamento cerebrale. 

Si può  affermare che la diversità tra uomo e donna non deriva soltanto dagli orientamenti socio-culturali ma da significative differenze neurologiche.   

Non è, come si riteneva in passato, la differenza del peso cerebrale che distingue il comportamento e l’attività mentale della donna da quella  dell’uomo. Le diversità emotive e comportamentali, studiate con tecniche raffinatissime quali la risonanza magnetica funzionale e la tomografia ad emissioni di positroni, dipendono dalle differenziazione di strutture cerebrali e di funzionamenti neurologici nei due sessi.

Una forte asimmetria nei due emisferi nel cervello dell’uomo e una sensibilmente  minore asimmetria nella donna  porterebbe a pensare che la donna ha maggiore facilità di parola dal momento che nell’uomo l’area del linguaggio è sostanzialmente confinata nell’emisfero sinistro, mentre nella donna è più bilanciata tra emisfero destro e sinistro.

Se i maschi hanno una maggiore capacità spaziale questo dipende da una facoltà neuropsichica che si attiva maggiormente nella corteccia frontale: infatti quando si tratta di valutare misure  e requisiti spaziali, a differenza di quanto avviene nelle donne, l’uomo ha intuizioni più precise 

Le risposte allo stress, in genere diverse negli uomini e nelle donne, dipendono dalla struttura dell’ippocampo, difforme  nei due sessi. L’ippocampo femminile sopporta meglio gli stress di carattere cognitivo, mentre è più vulnerabile agli stress che riguardano l’umore.  La eterogeneità ormonale e la difforme funzionalità del sistema endocrino nei due sessi causano comportamenti e acquisizioni diversificate.

Il ruolo dei due emisferi cerebrali (il destro presiede alla conoscenza delle immagini e il sinistro al linguaggio)   è importante ai fini del coinvolgimento emotivo, del desiderio sessuale, del potere decisionale, dell’orientamento spaziale etc. etc.

Poiché i due emisferi hanno caratteristiche di funzionalità differenti nei due sessi, diverso è, di conseguenza, l’approccio di maschi e femmine nelle varie situazioni della vita. E questo indipendentemente dall’educazione e dalla condizioni sociali.

 

 

Possiamo fidarci del nostro cervello?

Purtroppo  diamo per scontato che i nostri giudizi e i nostri pensieri siano attendibili, ma  è sbagliato fidarsi tanto.  Ne  «Gli inganni della mente» dice la psichiatra Cordelia Fine che il cervello non  merita “fiducia”. Gran parte di quel che crediamo non è come sembra e la nostra mente non è affidabile.

A parte le difficoltà genetiche  e ontologico filosofiche,  l’essere umano è  vanesio e ritiene  che il proprio ragionamento sempre corretto. Purtroppo le nostre strategie mentali cercano di esorcizzare e di sminuire i nostri fallimenti,  affermando che le probabilità di successo erano poche; o che non ci siamo  essersi impegnati al massimo, ed è per tale motivo che  non sono riusciti.

Le emozioni falsano le decisioni. Spesso i ricordi, sono “memorie di fatti” che il cervello non ha  valuta realisticamente.

Il cervello è suggestionato da convinzioni sociali e religiose. La mente umana  ha una convinzione esagerata della obbiettività delle proprie credenze e crea anche prove  false a sostegno di esse.  

Le verità, non inquinate dall’interesse o dallo spirito di parte, sono  poche.

A volte  perseguiamo mete che l’inconscio ha innescato nella nostra mente, senza ce ne rendiamo conto e poiché questi obiettivi sono il prodotto di scopi che non consociamo nella loro  profondità inconscia, non possiamo fidarci che il giudizio  del cervello sia sempre obiettivo!

Tra le persone che danno la stessa valenza a un argomento, si crea una connivenza più o meno inconscia. In questi casi a nessuno importa sapere la verità, ognuno vede ciò che  vuole vedere.

 

La concretezza della verità, associa all’opinione della maggioranza

Sviluppata è la presunzione che ciò che sostiene a maggioranza, sia da considerare  l’opinione migliore. Conferire valore alla maggioranza ha il grave difetto  di accreditare la convinzione che il giusto e il vero  stiano supportati dalla quantità e non dalla qualità.

Se ciò risolve alcuni problemi pratici in campo politico, per esempio,  comporta una  grave diseducazione:  la convinzione che la ragionevolezza sia nella maggioranza a prescindere che sia o meno competente  a decidere  quel problema. Dando per scontato che  la quantità sia più vicina alla sensatezza, si fa discendere  la convinzione che è migliore l’opinione della maggioranza piuttosto che  quella di una minoranza più tecnica e più precisa. Le convinzioni supportate da un numero inferiore di persone  induce  i più a rifiutarle.

Di converso, nel campo scientifico, si seguono le persone più qualificate, e si accetta ciò che pensa la minoranza qualificata. 

   Parlare di libertà in senso filosofico mi sembra, come dici bene, una impresa vana. In senso pratico è ancora peggio. Siamo modellati psichicamente e neuro-fisiologicamente da una lunga serie di esperienze, ed ogni esperienza altera i circuiti nervosi e li ricondiziona. L’esperienza memorizzata ora, per esempio, non solo comporta alterazioni neuronali (che si assomano ad altri condizionamenti neuro-fisiologici precedenti), ma condiziona la nostra vita  a partire da questo momento, comportando altre  “alterazioni” del comportamento, del gusto, dell’affettività etc. etc. e   dunque della libertà, alterazioni che non avremmo avuto senza questa ultima esperienza. Come è  mai possibile stabilire dunque  se un gesto “sia stato dettato dalla libertà”?! Diciamo allora  che  s’intende per libertà  l’ignoranza dei condizionamenti che hanno indotto quell’ atto.L’insigth  iniziale porta l’anatroccolo a seguire qualsiasi cosa si muova davanti a lui entro la prima mezz’ora della sua nascita. E da quella cosa che si muove danti a lui nella prima mezz’ora della sua vita sarà condizionato per la vita! L’essere umano ha una lunga serie di insight, che lo modellano per sempre. E allora come si può dire che il suo comportamento non è affatto condizionato, e cioè come si può  affermare che è assolutamente libero?  Ed anche a volere largheggiare: quando possiamo dire con certezza che un comportamento è libero e quando invece  non lo è? Il problema diventa insolubile nella “nebbia” di un  atto criminoso ed  in quel caso è del tutto  inutile parlare di capacità di intendere e volere, senza  fare “del pettolezzo” e nient’altro.   Anche ammesso che vi sia una confessione…chi dice che il soggetto sia stato “libero”, come lui afferma,  quando commise l’atto criminale? La giustizia non  può  che essere “approssimativa” per eccesso o per difetto. Per questo, giustamente, l’avvocato Calamandrei diceva che se veniva a sapere che avevano rubato il campanile di Giotto si dava alla latitanza. Quando poi si parla di giustizia in Italia, c’è da accapponare la pelle. Bellissimo, al riguardo e ti consiglio di leggerlo, “Il paese del pressapoco” di Raffaele Simone ( Garzanti). Una parola definitiva, detta con lo stile di Montanelli, e con la profondità di uno storico come l’Omodeo,  sull’Italia di ieri, di oggi e di domani.   

 

 

Cervello e comportamento

Ma siamo anche ingannati  della nostra struttura cerebrale: umori, passioni, paure, contentezze, predilezioni, rabbie sono in parte dovuti a sottili cambiamenti della chimica cerebrale. Invece  siamo convinti che le nostre scelte e i nostri gusti siano indipendenti dalla nostra struttura neurologica. A volte un insieme di  opinioni e di convinzioni  spesso sono dominate da fattori biochimici e fisiologici, e  da imprinting sociali  e libertà ce n’è ben poca! 

La mente funziona con diversi moduli, e ognuno di essi è collegato a funzioni che nel passato dell’umanità si sono dimostrate utili per la sopravvivenza della specie. Queste funzioni adattative del cervello hanno una grande importanza nelle scelte e nei nostri comportamenti.

Le nostre preferenze possono dipendere da processi mentali che a volte sono in conflitto tra loro. Osservando  lo schizofrenico notiamo che a volte si sente “indotto” a fare cose che un’altra parte del suo cervelIo non farebbe. Gli vengono in mente conclusioni e scelte che l’altra parte di Sé non accetta! 

Spesso le emozioni  paralizzano la libertà di pensiero del cervello che davanti alla pressione emotiva si “lascia convincere” a  fare cose che, senza l’emotività incombente,  non avrebbe  fatto.

Intelligenza e memoria non sono sempre egualmente efficienti.  Nella sindrome di savant che colpisce alcuni soggetti, la memoria in alcuni campi ( musicale, matematico etc.) è prodigiosa, sconfinata, ma ad essa non si associa pari  “capacità” nel campo sociale, affettivo, relazionale.

Le immagini digitali dell’encefalo di tali persona mostrano alcune anomalie strutturali: l’assenza o il rimpicciolimento del corpo calloso, il cervelletto piccolo e malformato, le sconnessure (fasci nervosi che collegano i due emisferi, anteriori  e posteriori) sono a volte minori della norma o  mancano del tutto. 

 

La razionalita’, gli schemi della mente e l’interpretazione del reale.  

 

Gli schemi mentali, cioè le categorie con le quali interpretiamo ciò che c’è e vive attorno a noi ,  aiutano a relazionarci nel presente,  velocizzando le esperienze attuali grazie ad una conoscenza, acquisita nel passato, che fa da  guida e rende più facile capire il presente, con le basi costruite dalla comprensione precedente. 

I neonati non avendo esperienze non hanno schemi mentali e  sono del tutto incapaci di riconoscere la realtà.

Vedono e non sanno dare un significato. I bambini cominciano a capire il mondo che li circonda quando imparano le  schematizzazioni mentali dai genitori. Ciò è un grosso vantaggio ai fini della sopravvivenza. Ma se questo procedimento ha il vantaggio di orientare l’individuo non solo  nella realtà quotidiana, ma anche in tutti i settori, dal campo filosofico e morale a quello del gusto e delle preferenze e dei sentimenti,  l’utilità di questi schemi dipende dallo loro flessibilità e modificabilità.

Se essi  sono troppo  rigidi e immutabili,  se vengono interiorizzano al punto che  non possono essere più cambiati,  essi regolano troppo  rigidamente l’interpretazione del presente, del proprio sé, dei fatto della vita, dei sentimenti e il modo di pensare,  in  maniera così   inflessibile da impedire di comprendere diversamente il mondo  se fosse più utile e ove ce ne fosse bisogno.  

In un primo tempo i bambini vanno avanti nella conoscenza grazie agli schemi mentali  appresi dai loro genitori. Anzi, poiché i genitori “premiano” i bambini che seguono i loro schemi essi si sottomettono con uno scarso  margine  personale di  interpretazione del reale.

Gli schemi mentali imposti in questo modo,  possono acquisire una specie di corazza  spessa, e limitare in maniera marcata la interpretazione e valutazione della realtà al punto da diventare una  “corazza del carattere” che impedisce al soggetto di accettare  liberamente altre  idee e altri  giudizi che non sia quelli inquadrati negli schemi mentali acquisisti in gioventù. 

Insomma questi schemi mentali possono diventare delle  lenti deformate che creano modi di penare, di sentire, di agire e di realizzare  che possono essere   in contrasto con esigenze di adeguatezza al reale. 

Più è alto il livello di rigidità dei modelli  della mente, più difficile è fruire serenamente  delle esperienze quotidiane  e ancor più rigido è  lo  stereotipo nel quale viene inquadrata ogni forma relazionale. 

Si creano così delle distorsioni che diventano a mano a mano  patologiche. Gli schemi rigidi prendono la forma di procedure  di interpretazione e di valutazione distorte della realtà e del proprio sé, perché sia la realtà che il proprio sé sono visti con le lenti deformanti  e interpretazioni psicopatologiche.

Quando gli schemi  diventano patologici  ingabbiano la vitalità, inibiscono, fanno distorcere al soggetto le proprie percezioni e i priori bisogni. 

Comincia la malattia psichica proprio  quando la spontaneità della decifrazione del reale è deformata. In questo caso infatti si ha una riduzione della esperienza, che comporta vari disagi, tra cui disturbi relazionali, mancanza di autenticità, incapacità di riconoscere e di seguire i propri bisogni.

Gli schemi mentali  si ritrovano nel cinema della“follia”. Il cinema utilizza molto gli schemi mentali.

La necessità che ha il cinema di usufruire di parametri e schemi precostituiti deriva dal fatto che essendo essenzialmente  una comunicazione visiva, deve utilizzare per essere meglio compreso comunicazioni e  messaggi a tutti noti. Un viso di uomo con sfregi, torvo e truce viene utilizzato, senza troppe lungaggini  per indicare che chi ha quell’aspetto è un individuo poco affidabile.  Tuttavia si tratta sempre  di  un preconcetto, di uno schema di comodo, fino a prova contraria.

Infatti può accadere che un soggetto che ci sembra inaffidabile a causa del suo immagine sia invece una persona dolce e tranquilla. Il gobbo di Parigi, nell’opera Notre Dame, sia pur dall’apparenza torva era una persona molto sensibile. In questo caso mostrare un soggetto dall’apparenza crudele per poi segnalarlo come persona sensibile aumenta l’impatto affettivo. L’inversione insomma ha anche essa un  effetto forte: sembrava cattivo invece è buono, anzi, in contrasto con la sua immagine è “molto più buono”.    Il  problema della rigidità degli schemi fu molto sentito nel teatro greco.  

Le maschere avevano una rigidità  espressiva che non consentiva modulazioni di umore. A spiegare che l’umore dell’attore era cambiato rispetto alla maschera che indossava ci pensava di solito il coro, il quale spiegava il perché dei cambiamenti. Ma un attore con una maschera truce restava con quella maschera anche se poi nella recitazione doveva piangere come un bambino, creando una certa discrepanza, proprio perché la maschera era uno schema che non aveva anche il concetto di pianto.

Per ovviare all’inconveniente, i greci a volte facevano rientrare dietro le quinte l’attore il quale indossava una maschera  consona a quel momento emotivo. Del resto i greci erano abituati a queste performance. Nella scena non c’erano mai più di tre o quattro personaggi e se doveva comparirne un quarto, uno degli attori,con una scusa plausibile, s’allontanava dalla azione teatrale,  andava dietro le scene, si cambiava e entrava inscena per rappresentare il nuovo personaggio.   

Il cinema non ha bisogno di questo stratagemma, ma utilizza le “maschere degli attori” per sintetizzare subito il personaggio e renderlo subito leggibile mal pubblico.

Tuttavia il cinema “soffre” di schemi mentali rigidi. Accanto alla rappresentazione corretta della malattia psichica , per motivi di spettacolo,  per esigenza di cassetta c’è una modalità di raffigurazione della follia nella cinematografia che crea una fuorviante disinformazione perché associa la  follia alla violenza selvaggia, la malattia mentale alla assoluta emarginazione, e determina una serie di pregiudizi  che portano alla incapacità di comprendere la situazione reale del malato di mente.   

 

L’incapacita ad uscire dagli schemi prestabiliti

Poiché si cerca l’approvazione degli altri, un eventuale  tentativo di liberarsi degli schemi  acquisiti – facendo temere con questa svolta  la disapprovazione degli altri – fa scaturire l’angoscia. Il bisogno di sicurezza allora impedisce la liberazione dagli schemi mentali rigidi, ma  pur rassicuranti. Il bisogno di sicurezza è maggiore del bisogno di libertà, sicché il libero pensiero difficilmente raggiunge la propria pienezza, perché il soggetto temendo la disapprovazione sociale, si sottomette per “motivi di sicurezza” agli stereotipi. Tutto ciò porta ad una rinunzia alla propria indipendenza, in favore di una sottomissione che comporta la certezza di non essere criticato ed emarginato.  Chi finisce con l’assumere come proprio lo status mentale di altre persone ( dei genitori in particolare) perde una parte del proprio dinamismo cognitivo.  A lungo andare così, la carenza di libertà crea una specie di soffocamento negli individui che sono  più propensi a cercare la emancipazione e al bisogno di non essere limitati dagli schemi. Di conseguenza in loro viene fuori una conflittualità che crea disagio e inquietudine.  Chi vorrebbe sviluppare spontaneamente la propria autentica natura e i propri autentici interessi, se non si libera “del passato” finisce col soffrire una dinamica conflittuale che lo porta all’angoscia e alla nevrosi. Questo individuo infatti  constata con sempre maggiore dolore la dissintonia tra ciò che vuole e ciò che gli è imposto. L’importanza di accordare il sociale col personale, gli schemi con la libera interpretazione soggettiva del reale, conduce, quando è possibile, ad  una mediazione, che arriva ad un compromesso e ad una condivisione non rigida tra il soggetto e l’ambiente. Se invece lo scontro è troppo radicalizzato, gli scambi dinamici tra il sé e il mondo esterno diventano problematici, e si sviluppa l’angoscia. Quando l’ambiente è troppo invalidante al soggetto non resta che sottomettersi o combatterlo. Nell’uno e nell’altro caso il prezzo che paga in termini di salute mentale può essere  alto.  In ogni caso si tratta di esperienza sfibranti e dolorose che comportano, oltre che un depauperamento della qualità delle capacità psicologiche, ad una marcata inibizione delle espressioni personali,   anche modificazioni biochimiche nel soggetto. Oggi si sa che precoci esperienze traumatizzanti sono anche  responsabili di alterazioni cerebrali.

 

La mancanza di logica, dipende da  inadeguati stati d’animo?

Quali sono le caratteristiche del pensiero razionale, di solito attribuito alla persona sana di mente e  quelle del pensiero irrazionale, di solito attribuito al malato mentale?

Una persona può commettere errori logici in una situazione emotiva, quando  è confusa, davanti ad  evento imprevedibile e coinvolgente. In questi casi il ragionamento può apparire irrazionale, ma la persona può non essere irrazionale.In certi casi un individuo può ragionane in modo inadeguato non perché è “irrazionale” ma  perché ignora alcuni principi, perché non conosce la storia o la psicologia, oppure perché propende a sviluppare illusioni oppure applica, per mancanza di cultura,  criteri inadeguati.In un  contesto un pensiero può essere “razionalmente adeguato” (per esempio nel contesto religioso)   ma  al di fuori di quell’ambito (nell’ambiente laico per esempio) esso  non fa parte delle convinzioni razionali.  Se un soggetto ha  una credenza “irrazionale” appresa attraverso un processo di suggestione, o  educativo, ciò  indica che il soggetto sia razionale? Quando può essere considerato un soggetto razionale,  quando i processi di formazione delle sue credenze  si sono sviluppati  liberamente e senza pressioni esterne?  Diceva Aristotele che la caratteristica precipua dell’essere umano è la razionalità; ma in determinate situazioni  (amore, paura, sentimenti, desideri, conflittualità, religiosità  etc. etc.) la maggior parte della gente “pensa” e fa scelte irrazionali.  A questo punto l’affermazione che gli uomini sono  razionali, deve essere ridotta  in ambiti particolari: in quello della scienza, della matematica, della tecnologia, nei quali “l’irrazionalità” salta subito all’occhio, perché se si procede in maniera irrazionale non si hanno risultati validi e funzionali.

Può accadere che una persona  in alcuni ambiti manifesti razionalità e in altri non lo sia? Una persona che nel campo economico si dimostri irragionevole: un esempio  è spendaccione, è poco accurato nel controllo dei propri averi, può essere razionale in altro campi?. Nel diritto, può accadere che un giudice – persona  ritenuta razionale – emetta una sentenza valutando un fatto, in materia di reati sessuali per esempio, sotto lo  stimolo di  supponenze che possiede in quel campo. Anche nel campo delle nevrosi e delle   malattie mentali  è possibile dividere ciò che è razionale dall’irrazionale? Prendiamo per esempio la “paura dell’aereo”. In teoria qualsiasi aereo è soggetto ad avere un  incidente. Le statistiche però assicurano che  è un evento remoto. Dimostrato, statistiche alla mano, che il pericolo di una catastrofe aerea è poco rilevante,  come definire chi ha paura di volare: prudente o irragionevole?

 

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Spesso le strategie più utili per convincere non sono quelle che utilizzano la  logica

La politica per esempio, è dominata più dalla emotività, e  dagli interessi che dalla ragionevolezza. Non c’è  motivo dunque che un  politico debba inserire nei suoi discorsi ” affermazioni  logiche”  che  non produrrebbero i risultati come quelli che producono gli stimoli emotivi.

La gente va avanti a suon di emotività, e, per trascinarla con sé, il politico deve usare mezzi idonei: la nebulosità delle affermazioni, lasciare intendere ad ognuno ciò che vuole intendere, far leva sul sentimentalismo e sull’illusione, sulle   aspettative piuttosto che sulle possibilità concrete.

Meno  la gente si rende conto della realtà, meglio può essere abbindolata. Il politico  usa strategie emozionali e chi meglio riesce a far breccia sulla  impressionabilità della gente, riceve più consensi. Tutto ciò che è nebuloso,  suggestivo e che non del tutto chiaro e dimostrabile, ha più effetto immaginifico.  L’esistenza di un più o meno larvato mistero spiega il successo della religione: la gente meno pensa  e più accetta. Lo stesso in  politica: se la gente avesse chiaro il quadro, trarrebbe conclusioni  più realistiche. Ma una banconota falsa, si spaccia meglio al buio, in fretta, e distogliendo l’attenzione di chi la riceve.

I politici  in parte, “sono costretti” ad operare con questi mezzi in caso contrario rimarrebbero fermi alla linea di partenza. Visto come stanno le cose, sono più soggetti  a perdere i politici che agli elettori fanno vedere motivi realistici e  logici.

 

L’insicurezza

L’insicurezza può essere uno stato obiettivo o soggettivo. In senso oggettivo l’insicurezza è precarietà, insufficiente ordine pubblico e una tale quantità di rischi, nella società, che non si possa vivere sereni. In senso soggettivo essa è, secondo un dizionario, una “condizione caratterizzata da dubbi su se stessi, dal timore di sbagliare e di non essere all’altezza della situazione”. Questa insicurezza è fonte di ansie o addirittura d’angosce. Per uscirne e per provare a se stesso il proprio valore, il soggetto tenta a volte di compiere miracoli: ma più spesso è paralizzato dalla paura e sopporta l’insicurezza come una sua croce personale.Radici dell’insicurezza e possibile soluzione del problemaLa prima ragione per avere “timore di sbagliare” è che, effettivamente, non si è all’altezza del compito. Una seconda e più frequente ragione è che non ci si reputa all’altezza di quei mirabolanti risultati che reputeremmo normali per noi, data la stima che abbiamo o vorremmo avere di noi stessi. Chi si rifiuta di affrontare un compito spesso fa ciò perché ha troppa paura di non riuscire come vorrebbe. Questo dipende a volte da un eccesso di lodi ricevute rispetto ai propri reali meriti. Un tempo, quando le ragazzine studiavano pianoforte, c’era l’eterna commedia delle famiglie che le invitavano pressantemente a suonare per gli ospiti e di loro che si rifiutavano con tutte le loro forze.

Come mai? Semplicemente perché le famiglie esageravano con le loro lodi mentre le ragazzine, oltre al naturale fastidio dell’esibirsi, avevano la coscienza della propria mediocrità, nata dai rimproveri del maestro di piano. Per questo si sottraevano con la fuga ad una prova che le esponeva al rischio del ridicolo.Le lodi sono pericolose perché abbiamo tendenza a prenderle sul serio. Tutti vorremmo essere i migliori e proprio per questo crediamo facilmente di esserlo. Il bambino non si stupisce affatto se qualcuno gli dice che è il più bello del mondo. La realtà però c’infligge una tale quantità di frustrazioni e umiliazioni che crescendo di solito siamo costretti ad uscire dai nostri sogni. Se però qualcuno coltiva le nostre naturali propensioni, ricoprendoci di lodi e rassicurandoci sulle nostre superiori qualità, rimaniamo nella nostra illusione infantile ma chi ci apprezza troppo non ci fa per nulla un favore: infatti finiremo con l’aspettarci da noi stessi prestazioni di cui siamo incapaci. Saremo ovviamente frustrati e ci rifiuteremo d’apprendere dalla realtà il nostro vero valore. L’insicuro è qualcuno cui è stato detto che vale dieci, che ama pensare di valere dieci, ma al quale le precedenti esperienze hanno troppo spesso detto che vale tre. O forse due. Anche se questo non è sufficiente a fargli cambiare opinione. Più si ha stima di sé, più è facile essere delusi di se stessi. Mentre il disprezzo ingiustificato è a volte il prologo di una favola a lieto fine, le lodi ingiustificate sono il prologo d’una tragedia.Il primo passo verso la soluzione del problema dell’insicurezza è la conoscenza dei dati di fatto, perché quando non si hanno elementi concreti su cui fondare il proprio giudizio, l’insicurezza è addirittura doverosa. Se qualcuno è chiamato a sostenere un esame di storia senza che gli sia stato comunicato il programma, per quanto colto sia, non potrà non soffrire di insicurezza. Da un lato bisogna spendere una vita per avere un’infarinatura della storia universale, dall’altro essa non è sufficiente se poi l’esame verte esclusivamente sul processo a Girolamo Savonarola. Viceversa, se un individuo vuole ignorare quali compiti è effettivamente in grado d’affrontare, la sua insicurezza sarà per così dire volontaria. A volte infatti i dati sono facilmente conoscibili o addirittura evidenti. Se un giovane ha ottenuto buoni voti in un compiacente istituto privato e poi ha paura degli esami di Stato, non soffre di un’insicurezza caratteriale ma dalla coscienza che i suoi voti precedenti sono stati fasulli. Non è insicuro: è impreparato. Non soffre d’amnesia, soffre d’ignoranza. Dovrà solo mettersi a studiare sul serio, per la prossima occasione. L’accettazione della realtà è un dovere ineliminabile, quale che ne sia il costo. Se un giovane brutto è insicuro perché ha il dubbio d’essere brutto, la soluzione è dirgli che non deve avere nessun dubbio, è effettivamente brutto. Sia pure aggiungendo che non è una tragedia. Avrà certo più difficoltà della media, nella vita e con l’altro sesso: ma c’è modo di cavarsela. Alla lunga potrebbe anche essere più felice dei belli. Ciò che si può star certi non sia la soluzione è negare il fatto che sia brutto.Non vanno negati neppure i piccoli difetti dei più dotati. Se una bella ragazza è insicura perché ha le gambe troppo magre, è inutile negarlo lodando la sua bellezza complessiva. Bisogna innanzi tutto riconoscere che le sue gambe sono effettivamente troppo magre, per poi dirle che lo sanno tutti e tutti la considerano una bella ragazza lo stesso. Dopo di questo, se la giovane continua ad essere insicura, è perché l’hanno tanto lodata, soprattutto da bambina, che ella considera la perfezione come un minimo sotto il quale non si sente assolutamente di scendere. In tutti i casi il primo passo è il riconoscimento della realtà. All’uomo di bassa statura è inutile dire che anche Napoleone era piccolino. L’interessato non è Napoleone e se una donna non accetta la sua corte perché è basso, non può certo dirle: “Bada che anche Napoleone era un tappo”. Tuttavia al mondo c’è posto anche per gli uomini di bassa statura e, per quanto riguarda le donne, basta pensare al successo d’un donnaiolo brutto e pelato come D’Annunzio.Il primo rimedio contro l’insicurezza è la conoscenza e l’accettazione della realtà. Essa può essere terribile come può essere consolante: ma è risolutiva. Ecco perché la cosa peggiore che si possa fare è rassicurare una persona cara con bugie. Esse rendono doloroso ed insolubile il problema dell’insicurezza. Dinanzi alle esitazioni dell’insicuro la giusta reazione non è dire – come fanno molti – “Ma sì che ce la fai, dai!” Perché l’individuo da un lato non è affatto convinto di farcela, dall’altro, con questo atteggiamento ottimistico, si ingigantisce la delusione che provocherebbe il fallimento. Bisogna proporre un ostacolo più semplice, e poi invitare l’insicuro a superare un ostacolo un po’ meno semplice, e poi un altro un po’ più difficile, fino a conquistare la disinvoltura. Cosa da fare con sforzo, umiltà e pazienza. La massima ragione di sicurezza la dà la certezza, nata dall’esperienza, di essere in grado di superare l’ostacolo. Il caso peggiore non cambia la regolaUna vecchia vignetta rappresentava uno psichiatra con la mano sulla spalla del suo cliente, mentre gli diceva: “No, lei non ha nessun complesso. Lei è realmente inferiore”. Una diagnosi in questi termini sarebbe controproducente per la sua brutalità ma non per la sua sostanza. Nella realtà, avendo a che fare con un uomo realmente inferiore, bisognerebbe riuscire a rivelargli piano piano che è inferiore, per poi consigliargli di aggrapparsi non ai meriti che non ha, ma a quelli che ha. Per esempio un bel carattere. Chi è pronto alla lode e al riconoscimento degli altrui meriti, chi è gentile e offre amore a tutti, sarà ricambiato da molti. Come dice il proverbio, attira più mosche una goccia di miele che un litro di fiele. La regola dell’accettazione della verità, come rimedio all’insicurezza, non conosce eccezioni: nemmeno nel caso più drammatico. L’insicuro che non vuole rinunciare alle proprie illusioni peggiora la propria situazione. Non deve dire all’avversario che lo ha vinto a scacchi, anche se è vero: “Ho perso solo per una distrazione”. Deve riconoscere la sconfitta (che tale effettivamente è) aggiungendoci una lode: “Non solo giochi bene ma non perdi mai la concentrazione”. I fatti non cambieranno ma il vincitore gli sarà grato della lode che ha effettivamente meritato e magari dirà lui stesso generosamente che l’altro, distrazione a parte, meritava di vincere. La lotta contro l’insicurezza comincia dalla percezione della realtà ogni volta che sia ottenibile. La prima cosa che l’individuo deve conoscere è il proprio vero livello. Le illusioni consolatorie sarebbero smentite dalla realtà. Gli atteggiamenti utiliCi sono tuttavia dei casi in cui è difficile valutare la realtà. Nessuno può essere sicuro di essere promosso. Anche chi ha studiato sufficientemente non può escludere che ci sia un punto importante che gli è sfuggito, che al momento dell’esame dimentichi qualcosa, che il professore chieda una minuzia o che sia un pazzo. Questo genere d’insicurezza è del tutto normale. L’insicurezza diviene patologica solo se il soggetto non ha studiato adeguatamente e intimamente pretende di essere promosso lo stesso. Oppure se ha studiato per la sufficienza ma ha la pretesa d’ottenere il massimo dei voti. Per guarire dall’insicurezza, una volta che si conosce la verità, si può o accettare il proprio limite (“Sì, sono effettivamente un uomo di bassa statura e lo sarò per tutta la vita”) o, quando è possibile, cercare di superarlo: “Sì, sono ignorante in storia, ma da domani mi metterò a studiare”. Per non dire che si potrebbe anche dire: “ “Sì, sono ignorante in storia ma chi se ne frega”. In ogni caso, l’insicurezza non si cura con l’illusione.L’insicurezza dei bambiniI bambini rappresentano un caso particolare e molto importante d’insicurezza: essa infatti è connaturata alla loro età. Gli adulti hanno avuto il tempo di orientarsi nella realtà, di valutare se stessi e gli altri, mentre il bambino arriva nel mondo come tabula rasa: non sa nulla di nulla, né di sé né del mondo. È come un astronauta che giunge su un pianeta di cui non sa nulla. In un caso del genere, chiunque non soffrisse d’insicurezza sarebbe un imbecille. Ma, ancora una volta, la risposta al problema è una corretta informazione. L’adulto, anche di fronte ad una situazione nuova, ha alcuni punti di riferimento. Conosce se stesso e le proprie possibilità. Il bambino non dispone neppure di questi dati. Da un lato è incapace d’essere autonomo, di procurarsi la sussistenza e di difendersi dai pericoli, dall’altro è oggetto dell’affetto e della protezione dei genitori. Da un lato cioè la sua situazione è troppo difficile, dall’altra è troppo facile. Questo gli falsa tutti i parametri. Per un verso è visceralmente spaventato dalla propria debolezza e dipendenza, ed ecco perché piange se appena perde di vista i genitori, per l’altro l’affetto e la condiscendenza dei genitori lo illudono sulle sue possibilità. Il bambino che fa i capricci si trasforma in un tiranno che collauda la propria forza, cosciente del fatto che un vero potere assoluto è tale quando se ne può abusare. I capricci non sono un’assurdità: sono una risposta eccessiva al sentimento d’impotenza.Vivendo lo straziante contrasto tra un eccesso d’insicurezza e un fragile complesso d’onnipotenza, il bambino sente la necessità di raccogliere al più presto le cognizioni necessarie ad un corretto adattamento all’ambiente. È in questo che gli adulti devono aiutarlo. La realtà vorrebbe che si cominciasse spiegando al bambino che egli non ha nessun potere, che è l’omega del gruppo e dipende da tutti, perfino per la propria sopravvivenza fisica: ma questo messaggio è quasi inutile, perché il bambino queste cose le sa già. Ripetergliele potrebbe addirittura creargli angoscia. Per converso, pur mentre gli si assicura soccorso e affetto, è necessario che non gli si permetta di scambiare l’affetto dei genitori per un proprio potere. Non appena accenna a strafare, è necessario rimetterlo al suo posto. Come lottare contro l’insicurezza infantile. Il bambino deve essere aiutato a prendere coscienza della realtà. Per questo devono essere accuratamente evitate tutte, diconsi tutte le informazioni false. Mai dargli ragione quando ha torto. Mai dargli spiegazioni cervellotiche. Mai parlare di “Uomo nero” o “lupo cattivo”. Mai suggerire paure fantastiche e mai fargli credere che il happy end è la conclusione di tutte le vicende umane. Non ci sono fate ma non ci sono neanche streghe. Le favole, naturale alimento dell’immaginazione infantile, vanno sempre accompagnate da una chiara affermazione della loro infondatezza. Mai edulcorare la realtà: il nonno non è partito, il nonno è morto. Mai giocare con l’ignoranza dei bambini, come raccontare ad un piccolo di quattro anni che lo zio è andato dai nonni, a Torino, volando. E come? Ma così, agitando le braccia! Questo genere di scherzi, che può divertire gli adulti sciocchi, è due volte sbagliato: da un lato si ride di chi non può difendersi, dall’altro si corre il rischio che il bambino di tre anni, una volta o l’altra, provi a volare fuori dalla finestra.L’essere bambini non dà nessun diritto, se non il rispetto dovuto ad un essere umano di quell’età. Servire per primi i bambini, a tavola, “perché hanno fame”, è sbagliato: è un messaggio in contrasto col fatto che essi sono l’animale omega del gruppo, non l’animale alfa. Per primo si serve l’ospite, animale alpha pro tempore. Poi mamma e papà. Poi il bambino. Lasciar sedere il bambino sulle ginocchia del padre al volante, “perché vuole guidare come papà”, è sbagliato: il piccolo non ha l’età per guidare e farglielo credere è una stupidaggine. Quando sarà un adulto, guiderà anche lui; prima, è inutile fare la commedia.Sempre in nome dello stesso rispetto, non bisogna aiutare i bambini a fare i compiti. Aiutarli corrisponde a dichiarare che non sono in grado di farli da soli. E questo crea insicurezza. Esattamente la precisa coscienza di “non essere all’altezza del proprio compito (per casa) ”. Non essendo aiutati, o avranno una corretta conoscenza di sé e del fatto che “non sono all’altezza”, o impareranno a cavarsela da soli, eliminando dunque l’insicurezza. Un guadagno in ogni caso.Il bambino ha diritto a vivere come tale. Dunque è sbagliato vietargli di giocare “perché suderebbe e potrebbe raffreddarsi”, o “perché potrebbe cadere e farsi male”. Bisogna dirgli di no solo quando ci sono precise ragioni per dire di no.Tutti questi esempi illustrano un principio generale: l’insicurezza del minore si cura migliorandone il contatto con la realtà. Se un ragazzo ha l’angoscia degli scacchi, perché perde troppo spesso mentre vorrebbe essere un campione, è inutile che gli si dica che è un campione, che gioca benissimo ed ha perduto per sfortuna, per distrazione, per caso. Gli si deve dire la verità: che gioca da settimo od ottavo su dieci; e che, lungi dall’essere un campione sfortunato, è una schiappa normale. Che giochi dunque per divertirsi, non per trionfare. Certo, se studia qualche buon libro e se sta più attento, c’è qualche speranza che migliori. Ma se non dovesse migliorare – e dove sta scritto che debba per forza migliorare? – rimarrà confermato che il suo normale livello è di settimo od ottavo. Ogni volta che si fa una classifica, forse che non c’è un ultimo? Fra l’altro, se si riesce ad essere ultimi col sorriso si sarà anche simpatici.Questo atteggiamento che sembra crudele è l’unico pietoso. Il ragazzino a cui si dice la verità sul suo livello scacchistico o si rassegnerà a giocare per giocare, sapendo che i campioni sono altri, o s’impegnerà per giocare meglio. Con o senza buoni risultati, ma essendo pronto ad accettare la realtà. Se invece lo si loda a sproposito e lo si rassicura sulla sua presunta natura di campione, che nulla prova, lo si esporrà ad un tormento più lungo e sottile: quello delle continue smentite della realtà, quando non a quello dell’irrisione. Mentre il disprezzo ingiustificato è a volte il prologo d’una favola a lieto fine, le lodi ingiustificate sono il prologo di una tragedia.

 

 

La lotta al pensiero superstizioso con convinzioni  e credenza irrazionali

Uno dei motivi che portano alla irragionevolezza è l’esempio. Quando una autorità, un sistema educativo, un gruppo di cultura adopera mezzi irrazionali per avvalorare le proprie tesi, per educare e indirizzare le menti, la massa educata con questi parametri finisce inevitabilmente col confondere  ciò che è irrazionale con il razionale.La religione cristiana ha combattuto le superstizioni, ma è stata essa stessa il terreno più fertile per credenze irrazionali.  Nel Medioevo, quando si trattò di convertire i pagani al cristianesimo, compito dei santi e dei vescovi era quello di entusiasmare le masse con miracoli che trascinavano la gente con entusiasmo al fonte battesimale. San Martino, San  Germano, San Marcello, San Lucio, San Simplicio, San Benigno, Sant’Ilario, Santa Radegonda furono strenui avversari dell’idolatria, ma essi stessi furono portatori di superstizione sotto l’apparenza del culto cristiano. Se da un lato essi combatterono l’adorazione pagana degli alberi, delle acque,dei fiumi, essi d’altro canto affermavano nuove credenze superstiziose. Se vescovi e preti si davano da fare pere estirpare le radici pagane dell’arte dei sortilegi e della magia essi ne “creavano” altri “garantiti” dal cristianesimo.  Essi ritennero ovvia l’influenza del demonio che inganna i cristiani e nuoce alla Chiesa.  Interessante nel Medioevo fu la concezione cristiana riguardante i defunti: la Chiesa disapprovava le tombe sontuose della gente comune, importante era la salvezza dell’anima;  poco interessava il corpo dei morti, eccetto il caso del corpo dei santi che diventavano reliquie.  In questi ultimi casi, si costituiva  attorno ad essi un apparato di credenze e prodigi che ne giustificavano la sacralità.  La Chiesa  combatteva la credenza popolare secondo cui i morti tornavano nel mondo terreno per visitare i parenti, ritenendo queste convinzioni sopravvivenze di paganesimo, ma  avvaloravano le apparizioni di santi perché potevano avvalorare la santità del morto.Tuttavia dopo la seconda metà del XII secolo la credenza negli spiriti suscitò un rinnovato interesse e una accettata credibilità e legittimità: si ammise che i morti che soffrivano nell’aldilà potessero ritornare a supplicare i parenti di pregare per loro, far dire messe, fare offerte per alleggerire le loro sofferenze ed abbreviare la loro permanenza in purgatorio. A partire deal XII secolo si moltiplica la letteratura narrativa che racconta questo genere di apparizioni. Addirittura si raccontava della apparizione di eserciti di morti, avvenute in Italia, ma anche in Germania nella Francia, nel Galles, in Spagna.  La Chiesa avvalorava questa credenza, avvalorando così l’esistenza del purgatorio e delle sofferenze che esso comportava.  Gervasio di Tilbury riferisce di simili apparizioni, e con lui tanti altri tra cui Gualtiero Map, il cistercense Elinardo di Froindmont, Stefano di Bourbon etc. etc.Anche i sogni furono per la Chiesa al centro del problema delle superstizioni, tuttavia i sogni furono un terreno ambiguo. Nelle Scritture,m per esempio, i sogni interpretati da Daniele o da Giuseppe erano considerati strumenti utili  e positivi della rivelazione divina.Insomma secondo il Cristianesimo  medievale bisognava distinguere  i sogni “veri” che vengono direttamente da Dio, quelli che si riscontrano nelle agiografie dei santi, dei monaci, da quelli vani e ingannevoli sollecitati dal diavolo.  In fine c’erano i sogni che si originano dal corpo umano, che spesso sono sogni provocatori di incubi, e di desiderio sessuali, Sogni lussuriosi che rivelano  la fragilità umana nei confronti del peccato.Secondo i chierici, quando uomini rozzi e incolti pretendevano di interpretare i loro sogni senza la mediazione della Chiesa, fuor di dubbio  erano spinti a far questo dal diavolo. Insomma la Chiesa non lasciava nulla alla iniziativa e alla interpretazione personale del singolo, perché riteneva suo dovere prendersi “cura” affinché il singolo potesse procedere col giusto pensiero.Se un soggetto si mostrava “irriducibile” a seguire il pensiero della Chiesa, allora la convinzione clericale medievale era che dopo il parto il neonato fosse stato sostituito dal diavolo e al suo posto si trovasse un piccolo demone.  Secondo la tradizione il futuro S. Stefano fu sostituito dal diavolo mentre era in una culla con un demonietto, e venne salvato dal vescovo che vide il diavolo sorvolare la culla del bambino, e ridato ai suoi genitori.  Quando Santo Stefano ritornò dai genitori, trovò nella sua culla l’essere demoniaco col quale egli era stato sostituito, e lo fece dare alle fiamme. (Martino di Bartolomeo, Vita di Santo Stefano).

Il Medioevo fu anche terreno fertile di miracoli. San Tommaso distingueva tre tipi di miracoli: supra naturam,  contra naturam, praeter naturam. In tutti i casi, bisognava assicurarsi che non c’entrasse il diavolo con le manifestazioni  miracolose. Monaci e vescovi, sebbene combattessero le superstizioni, credevano nell’efficacia del malocchio . Il monaco Guiberto di Nogent, ha scritto nella sua biografia che suo  padre rimase sette anni senza avere  figli  a causa di un malefizio fattogli dalla matrigna invidiosa. Alessandro IV ordinò all’Inquisizione di perseguitare non solo l’eresia, ma anche i sortilegi e le divinazioni. Nel XIII secolo, Etienne Tempier,  vescovo di Parigi, avversò l’introduzione della scienza e della filosofica araba nella cultura cristiana, ritenendole opera del demonio.  Grandi dotti tra cui il catalano Raimondo Lullo,  l’alchimista di Mompelier Arnaldo di Villanova, l’alchimista parigino Jean de Bar, il prete spretato Olivier Pépin e tanto altri, che utilizzavano la scienza araba furono condannati a lunghe pene corporali e detentive e alcuni anche dati alle fiamme.  Vennero perseguitate particolarmente le streghe, che si “univano” carnalmente col Diavolo,  e gli eretici che seguivano il Saba, ritenuto superstizione giudaica. 

 

 

Normalita’ e anormalita’:  un dato geografico e culturale?

La psichiatria transculturale è impegnata nell’individuare cosa s’intende per anormalità e  normalità nei vari contesti culturali. Essa, indagando in varie aree geo-culturali l’origine del disturbo mentale,   ha identificato quasi sempre  una responsabilità nel tipo di insegnamento sociale  impartito la  radice dei conflitti tra il singolo e la sua cultura. Ma se i disturbi psichici sono frequenti in tutte le società umane e in tutte le epoche, tuttavia l’atteggiamento delle varie collettività verso di essi,  la ricerca della loro spiegazione e della loro cura, sono differenziati.

Dal punto di vista linguistico, la parola matto ha tanti sinonimi che indicano vari significati: folle, demente, forsennato, bizzarro, eccentrico, singolare, alienato, stravagante, strambo, strampalato, diverso, estroso, dissennato,  balordo, pazzoide,  etc. etc. Ma è innanzi tutto fondamentale il tipo di cultura in cui avviene il disturbo per  individuare e definire se esiste una  malattia mentale e di che genere è.

Dice il Deveroux, nei suoi Saggi di etnopsichiatria generale,[1] che ogni società incoraggia alcuni comportamenti e ne scoraggia altri, per cui è il gruppo di appartenenza a stabi­lire chi deve essere considerato “matto”e ad indicare quale condotta deve avere un individuo  per non  essere ricono­sciuto “anormale”. 

La convinzione che alcuni atteggiamenti, certi modi di essere, taluni principi  siano i soli validi, fa sì che,  in un contesto sociale, il diverso rientra nel cliché che lo identifica come non uguale agli altri ed egli,  a sua volta, si adegua e si atteggia nel modo in cui la società  lo ha individuato, cioè “fuori dalla norma”.

Tuttavia, se si facesse un’analisi comparativa delle valutazioni psichiatriche si potrebbe mettere in luce che certi presupposti che indicano uno stato di malattia mentale, ritenuti scontati per una cultura, non sono sicuri indici di malattia  per un altro gruppo sociale.

Infatti, poiché in ogni cultura, la gente è portata a credere in valori e in  verità sociali che magari  per un’altra sono prive di certezze, ma alle quali  il gruppo   è attaccato  con una fede incrollabile,  non è possibile definire certe convinzioni culturali come dei vaneggiamenti, in quanto fanno parte della tradizione di un popolo. Altrettanto problematico è considerare alcune manifestazioni mentali “non comuni”,  singole o collettive,  come anormali.  

È probabile che, indagando sull’origine delle une e delle altre, si trovino motivazioni e  ragioni che fanno loro da supporto, e che li rivelano come metafore di una congettura, di una paura, di una credenza occulta.

Il relativismo culturale comporta dunque diverse interpretazioni, e si possono avere per uno stesso comportamento, per una medesima usanza o per una stessa  credenza, a seconda del punto di vista culturale che si esaminano,  una valutazione psichiatrica e una di “normalità”.

Colui che per molti minuti dimena compulsivamente la testa verso un muro, è considerato un individuo religioso se lo fa davanti al muro del pianto; ma  fuori da quel contesto, chi si comportasse in quella maniera sarebbe oggetto di indagine psichiatrica.  

Vi sono sette religiose che hanno credenze, costumi, e propongono esperienze  assai simili a quelli manifestati dai pazienti psichiatrici di tipo paranoie e schizoide. Il limite di demarcazione tra sanità mentale e follia è, in questi casi, assai difficile da tracciare,  anche perché, a volte, quanti si addentrano in simili esperienze ha spesso già una componente mentale che vira verso tendenze psichiatriche.

  1. Spencer[2], esaminando i casi di degenza psichiatrica negli ospedali australiani, ha potuto rilevare che le persone che seguivano la setta dei Testimoni di Geova, erano, in rapporto ad altri pazienti affetti da disturbi psichiatrici, il doppio o il quadruplo. Questo può essere spiegato perché da un lato chi ha dei disturbi psicologici tende a cercare aiuto in primo luogo rivolgendosi all’aiuto di forze soprannaturali o di persone che affermano di fare da intermediarie tra queste e chi soffre, e poi perché, di converso, vi sono confessioni religiose che incoraggiano, più di quanto non facciano le altre, ad avere esperienze inverosimili e impressionanti. 

Del resto, deliri ed allucinazioni, secondo alcune fedi religiose, posso significare una unzione particolare, un singolare stato di grazia, piuttosto che uno stato di disagio psichico. Alcuni individui che presentano particolari manifestazioni psichiche sono considerati, secondo la cultura dove  avvengono tali eventi,  in preda a un maleficio, mentre altri  individui, che presentano identici sintomi, sono indicati come “segnati” dalla benevolenza della divinità.

Così come alcune caratteristiche psicologiche,  in una cultura sono valutate positivamente, mentre in un‘altra cultura sono considerati segni inequivocabili di malattia mentale. Molte  manifestazioni comportamentali e molte convinzioni,  asseconda delle funzioni che rappresentano nei contesti in cui accadono,  possono essere dunque considerate negative o positive.

A tal proposito J. P. Sartre ha  osservato che coloro che sono affetti dal disturbo che   Janet[3] ha raggruppato sotto l’etichetta di psicoastenia hanno sovente, grazie al loro stato, intuizioni metafisiche che l’uomo normale non ha o che fa di tutto per mascherare a sé stesso e agli altri. 

Tuttavia, malgrado tanta finezza di pensiero e tanto coraggio intellettuale, a volte, afferma il filosofo francese, quando  la lucidità dell’autocritica è spietata e senza mezzi termini, avvelena la vita e paralizza  l’azione. Così, in Occidente, chi si rende conto dell’inutilità dell’esistere, e perde la voglia febbrile,  può approdare alla depressione,  malattia dell’anima o atteggiamento di chi non prende più sul serio l’impresa della vita.

Il pacato e ascetico keif, cioè quel senso di assoluta inattività, in cui sprofondano molte persone, che nell’area mussulmana è considerato un comportamento  normale,  e in India è chiamato “distacco dalle cose terrene”, possono essere visti nelle aree occidentali dove è ritenuta unica “virtù” la fretta e l’intensa attività psicomotoria come forme di  “depressione psichica”.     

Da qui il fatto che le persone che vanno contro la tradizione dominante vengono considerate “anormali”. Ma, paradossalmente,  si può anche diventa­re “anormali” quando si sviluppa in modo  eccessivo l’aderenza e la sottomissione al modello culturale. Troppa solerzia e  sottomissione alle regole possono far esplodere nell’Io un conflitto dal quale vengono fuori disagi e frustrazioni. Si pensi a chi si fustiga per qualsiasi piccola sbavatura comportamentale, o a chi, in modo maniacale, è così ligio alle regole che la sua vita quotidiana è scandita da assillanti sensi di colpa.

In questi casi si è di fronte a quella che in natura viene chiamata  ipertelia, cioè lo sviluppo di caratteristiche che, normalmente  utili, se  assumono dimensioni esagerate,  risultano addirittura dannose. Per il cervo, per esempio, le corna sono uno strumento di difesa, ma quando sono esageratamente sviluppate possono diventare un impaccio, o addirittura un pericolo, se, a causa della loro mole, l’animale resta imprigionato in una selva di alberi e,   paralizzato,  diventa facile preda di  animali che lo cacciano. Per quanto riguarda il campo umano, l’ipertelia può indurre un individuo ad un eccesso angoscioso di sottomissione a regole che, se osservate con criterio risultano utili,  ma diventano una camicia di forza se sono seguite con assillante compulsione.

Per curare radicalmente un disturbo nevrotico a volte bisogna rimettere in discussione le strutture sulle quali si è evoluto, cioè l’educazione,  i  cliché, le credenze e i valori che lo hanno “nutrito”. Nevrotico è spesso colui che non è riuscito a far combaciare le proprie necessità con ciò che la società si aspetta  da un individuo ritenuto nella norma, e questo contrasto ha origine non solo nella relazione con la famiglia, ma nel confronto con l’ambiente.

Una società evoluta dovrebbe invece essere in grado di accettare anche le esigenze “diverse” dalla norma che fanno parte del bagaglio psicologico del singolo e trovare un “modus vivendi” che tenga conto anche delle necessità di ogni individuo.    

Un giovane omosessuale tentò il suicidio perché si sentiva rifiutato dalla sua famiglia. Non avrebbe commesso quel gesto se si fosse sentito accettato dall’ambiente sociale e familiare.

Lo psicologo Paolo Inghilleri, membro della Sezio­ne della Psicologia Transculturale dell’Università di Milano, sostiene che ogni individuo riceve una eredità culturale specifica e il suo sviluppo psichico e compor­tamentale deriva dalle caratteristiche della società che lo circonda. Secondo Tobie Nathan[4] ciascuna cultura può sviluppare modelli di disordine psichico che sono spesso il risultato di  una elaborazione culturale complessa.  Dopo  un lungo apprendistato frutto di un continuo insegnamento si forma la struttura che porta al disturbo. Ad essa concorrono le esperienze personali, le suggestioni e i principi informatori di una determinata cultura  che  costituiscono il repertorio emozionale di ogni individuo. 

Alcune forme psicopatologiche sono anche il risultato di una evoluzione del livello culturale,  e variano o si spostano da una regione ad un’altra, da un periodo storico ad un altro, secondo che l’evoluzione sociale  le determina o le fa regredire. 

Afferma Julian Leff[5] che, mentre nel XIX secolo, a causa del tipo di educazione di struttura sociale l’isteria era molto diffusa nei paesi europei,  dalla fine del XX secolo in poi, in paesi come l’Inghilterra, il Galles, la Germania, si è notato un regredire dell’isteria, perché, a causa dell’attenzione posta sugli stati affettivi,  i pazienti hanno progressivamente modificato il loro modo di esprimere il malessere, passando dalle esperienze psicofisiche dell’isteria, a quelle più stremante mentali dell’ansia e della depressione.  L’isteria si trova, invece, ancora di frequente in paesi in via di sviluppo. Elsarrag[6] ha rilevato in Sudan cecità isterica, diplopia monoculare, paralisi isterica, parestesie, e altre forme di conversione,  proprio come succedeva ai tempi di Charcot a Parigi alla fine del XIX secolo. In Libano Katchadourian e Racy[7] hanno appurato che  l’isteria di conversione costituisce un’alta percentuale dei disturbi nevrotici. Anche in Libia,  in Egitto e in India, i casi di isteria sono molto frequenti secondo i rilevamenti di  vari psichiatri transculturali.

Il confronto tra i vari tipi di disturbi psichiatrici che si manifestano in culture differenti porta ad   una serie di informazioni di estremo interesse. Non sono solo le caratteristiche individuali, ma anche quelle culturali che determinano differenziazioni sostanziali nelle risposte ai disturbi psichici. Prendiamo ad esempio le allucinazioni: viste  nel contesto religioso, Sant’Antonio d’Egitto, detto Abate,  che visse per settanta anni nel deserto in preda ad esse,  proprio perché rappresentavano la sua pia fuga dalla sessualità,  sono state considerate come manifestazioni meritorie di santità, laddove, invece, in un  ambito non religioso, fanno passare per malato di mente chi ne è affetto.

Altro dato importante è poter seguire i flussi migratori di determinate popolazioni per stabilire come esse reagiscono ai disturbi mentali ed emozionali nel paese dove sono andate a impiantarsi e se le manifestazioni dei disturbi mentali aumentano o diminuiscono nella gente quando  si stabilisce in un’altra area culturale.

Importante è dunque mettere in luce se il disagio e lo stress dello spostamento da un posto ad un altro e il vivere in un paese diverso da quello d’origine, possa causare, nella popolazione degli emigrati,  un maggior numero di malati psichici rispetto a quelli dello stesso tipo di popolazione che però sono rimasti nella patria d’origine.  

Un  fattore importante,  poco considerato dall’analisi statistica, ma che invece  è molto  utile, è testare, al momento della partenza, la mentalità e la psicologia  dell’emigrante. Conoscere “lo stato mentale di chi emigra”, significa potere definire se alla partenza vi sono contorni caratteriali particolari nell’animus di chi affronta l’emigrazione  rispetto a chi  resta in patria.  Ciò potrebbe esser utile quando si esamina  l’incidenza della malattia psichica tra quanti  si sono  stabiliti  in  un altro paese  e quelli che sono rimasti in patria. 

Da uno studio approfondito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si è anche appurato che molto spesso il destino dello schizofrenico cambia a seconda dello stile culturale della équipe psichiatrica e che secondo il tipo di approccio:  in alcune aree vi è guarigione, in altre la malattia permane in cronicità. Questa constatazione  induce a ritenere che psicologi e psichiatri dovrebbero utilizzare  oltre alla competenza clinica anche un sistema appropriato per decifrare i cliché del contesto sociale che hanno causato la malattia, e  prevedere quali  parametri sociali da  utilizzare per  ricostruire la serenità del malato. 

 

La linea di demarcazione tra follia e normalità.

Pensiamo per esempio a Salvator Dalì, molte delle cui opere sono espressione di una mente dalle impressionanti e inquietanti rassomiglianze con quella di un maniaco omicida: nei suoi disegni ci sono corpi smembrati, segni di violenze, certamente prodotto di una inconscia fantasia malata che fortunatamente per Dalì si è estrinsecata nell’arte piuttosto che nel reale quotidiano.  Nel quadro Lo spettro del sex appeal  emerge un profondo sadismo. Sadismo che Dalì ancora bambino estrinsecò nella realtà in molte occasioni (uccidendo animaletti, spingendo un amichetto giù da un ponte etc etc)  e che poi “convogliò” nella produzione artistica, estrinsecando finalmente il proprio sadismo la propria necrofilia e persino il propri istinto cannibalico solo  in maniera artistica, cioè sublimata nei suoi quadri.  

Le paure sessuali di Grosz e il suo terrore della donna lo portarono a dipingere  corpi femminili deformati, alterati e mostruosi, affinché, diceva egli stesso, “il nudo femminile fosse il meno possibile desiderabile e peccaminoso”. Ma nel contempo egli esercitava il proprio sadismo sul corpo della donna dipingendolo in maniera oltremodo aberrante.  In Omicidio  in Acker Street. Grosz dipinse una donna seminuda distesa sul letto, con la testa mozzata  e le mani tranciate. Uno scempio molto simile alla scena del crimine che si trova quando un maniaco sadico uccide una donna.

La creazione artistica – diceva Grosz – è il modo migliore per rendere innocue le  nostre pulsioni interne.

Se questo può in parte essere accettabilmente vero, resta il fatto  che le sue opere testimoniano pulsioni più o meno consce e  maniacali da omicida seriale.   

Sulla stessa linea, anche il cervello di un altro grande pittore, George Grosz, nei cui quadri sono presenti donne mutilate, squartate, violentate; un cervello, quello di Grosz, il cui il sadismo si rivela nella  produzione artistica, un sadismo però non del tutto dissimile da quello di un serial killer, il quale “mette in pratica” lo stesso immaginario sadico di Grosz.

Stesso discorso si può fare  per il pittore Otto Dix, i cui quadri sono l’espressione ossessiva  della fantasiosa connessione tra eros e morte. Quando qualcuno  gli chiedeva come mai  fossero rappresentate  tante violenze nei suoi quadri, Dix rispondeva che era stato “costretto” a farlo, sennò quelle impressioni orribili sarebbero rimaste “dentro” di lui e lo avrebbero ossessionato.

Insomma, Dix affermava d’avere adottato una psicoterapia nella esternazione visiva delle proprie angosce, che, riversate nella tela, lo dispensavano dal compiere gesti reali in tal senso.  Otto Dix affermava con chiarezza che realizzare un crimine nell’immagine artistica è un escamotage profilattico che serve ad  evita all’autore di compiere gesti reali  inconsulti.  

Il regista americano  John Waters al quale furono contestate certe scene nei suoi film troppo crudeli, rispose che secondo lui la creatività può essere un buon veicolo di scarico grazie al quale l’artista  soddisfa  certe tendenze violente  sublimandole con il simbolismo artistico.

Come si vede la linea di demarcazione tra normalità e follia è un sottile filo, che spesso può spezzarsi. Si veda il caso di tanti artisti che non sono riusciti, malgrado la sublimazione degli impulsi aggressivi tramite l’arte, ad essere immuni dal compiere realmente anche azioni criminose.  

 

La malattia mentale

Alla malattia mentale, nell’antichità, venne dato scarso rilievo. In seguito, quando divenne un problema pressante, per  fronteggiarlo furono riaperti i lebbrosari, in queste  strutture venivano ricoverate le persone che avevano comportamenti strani.

Da quel momento un particolare tipo di umanità venne rinchiusa nei luoghi nei quali per secoli avevano avuto asilo i lebbrosi. A quelle che venivano chiamate “teste pazze”, vennero associati i poveri e i vagabondi, personaggi scomodi che si avviavano ad essere  considerati più o meno folli. Le stranezze dei pensieri dei malati di mente e i loro comportamenti vennero attribuiti a colpe morali o sociali, fatti commessi da loro stessi oppure erano riflesso di colpe dei loro ascendenti, e a causa delle quali,  i matti, espiavano con la loro insanità mentale, le “responsabilità” dei loro parenti.

In molte culture  extraeuropee  coloro che avevano fabulazioni incomprensibili, che parlavano con l’aldilà, che vedevano spiriti, che avevano contatti con forze sconosciute, erano ritenuti dei privilegiati, dei predestinati dagli dei.

In seguito, quando la società occidentale evolse modernamente, l’uscire fuori dall’ordine costituito mise in luce la condizione di devianza e la follia prese la via dell’esclusione e  dell’internamento.

Prima di quel tempo i malati di mente gironzolavano in strada oppressi dai loro fantasmi mentali, farfugliando, biascicando, gridando, camminando nudi, molestando la gente e chiedendo l’elemosina. Nessuno si curò concretamente di loro fino al XV secolo quando le città cominciarono a provare  una forma di  rigetto per quel tipo di umanità la cui sofferenza era spesso incompresa o sottovalutata.

Nel Medio Evo, a poco a poco,  la paura della follia prese il posto del precedente orrore della lebbra, e creò raccapriccio nella “gente per bene”, tant’è  che s’aprì la caccia ai matti, mandati via dalle città così come s’era fatto nei secoli precedenti con i lebbrosi.  Si cominciò a capire  che il fenomeno della malattia mentale era complesso e si ritenne che quel morbo non fosse paragonabile alla lebbra, la quale era una malattia solo fisica;  alla follia si attribuirono anche connotati psicologici ed esistenziali mai prima d’allora riconosciuti per altre malattie. Tuttavia, anche per la follia, come per la lebbra, si operò con rituali di purificazione. Spesso  si andava per le spicce: gli insensati venivano frustati pubblicamente e malmenati persino per divertimento. Ciò scaricava le tensioni della popolazione assillata dai comportamenti dei matti,  “puniti” così per il disturbo arrecato alla quiete pubblica.

Una misura adottata per sbarazzarsi dei folli era quella di  affidarli a marinai che li caricavano nelle stive per poi abbandonarli in isole deserte o in porti lontani. Verso la fine del Medioevo il problema dei malati mentali assunse rilevanza pregnante e  nacque così tutta una letteratura di racconti e di favole in cui erano protagonisti i matti. La follia venne paragonata alla morte, perché essa fatalmente riduce l’individuo al nulla, proprio come fa la morte.

Allo stato mentale alterato, con la sua esperienza tragica e cosmica, non poteva che  essere associata  l’idea della morte, e come la morte la follia era sentita una  minaccia per l’esistenza  perché  rendeva deboli e meschini di fronte alla vita. La follia, mettendo a nudo le debolezze del mondo, mostrava, così come la morte, che anche la vita è un insieme di momenti fatui, di fatti senza senso. Si immaginò allora che i  folli, con la loro assenza d’interesse per quelle cose per cui l’altra umanità, quella “normale” s’accapiglia, lotta forsennatamente, e persino ammazza, in pratica palesavano molto più buon senso di coloro che vengono considerati sani di mente.

La definizione di “follia” è ambigua, inafferrabile. Sia la medicina che la filosofia la interpretano e la spiegano  con vari termini, ma la condizione della insanità mentale è pur sempre oscura. L’enigma della mente resta sempre imperscrutabile, sicché l’espressione “malattia mentale” continua ad essere tenacemente sfuggente. La connessione  tra follia e imprinting sociale è un problema delicato. In qualche caso sono stati considerati matti non solo coloro che presentavano turbe mentali accertabili psichiatricamente,  ma quanti hanno creato scandalo contrastando con il loro comportamenti e le loro idee  i principi sociali del tempo. Talvolta sono stati giudicati come “devianti” persino  i precursori di grandi sconvolgimenti politico-sociali. 

Dal XVIII secolo in poi in Occidente il trattamento della follia  passò dall’immobilizzo del matto, com’era nei secoli passati,  al  recupero psicosociale.  La psichiatria cominciò ad ascoltare il malato di mente e gli riconobbe il “privilegio” di esprimersi anche mediante l’inconscio.

Alla fine del ‘700, Philippe Pinel, medico alla Salpêtrière, ritenne di avere scoperto una relazione tra lo stato maniacale e le alterazioni dei gangli nervosi; ma  andò oltre, e  rivoluzionò il sistema di cura dei malati mentali. Egli col permesso della Convenzione sostituì i mezzi repressivi, fino a quel tempo unica “cura” della  malattia mentale, con la psicoterapia del lavoro.   

Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento un considerevole numero di ricercatori ha affrontato lo studio della malattia mentale. Nel 1862 Lemoirne attribuiva alla follia una predisposizione innata. Alla teoria della ereditarietà delle malattie mentali seguì la ricerca genetica. Rosenthal ritenne che le turbe mentali fossero più frequenti nei gemelli monozigoti che nei dizigoti.   Comte invece era convinto di trovare un legame tra i fatti sociali e le malattie mentali, mentre Morel negò questo legame e attribuì ad alterazioni di carattere fisiologico il disturbo mentale.

Alla Salpêtrière di Parigi, nel 1882 Jean-Martin Charcot istituì una cattedra di clinica delle malattie nervose.  Egli fu tra i  primi studiosi a cercare le cause dell’isteria e ad iniziare lo studio scientifico dell’ipnosi. Charcot considerò il malato di mente come una persona bisognosa di cure e non  un soggetto da  reprimere e imbavagliare.  L’isteria è un termine obsoleto, ma­schilista, ormai dimenticato. Così la pensano oggi la maggior parte degli psichiatri. Eppure c’è chi ha “fotografato” la malattia per la prima volta riportando in auge un morbo in realtà tutt’altro che sparito.Studiosi di Sydney hanno utilizzato stru­menti diagnostici alla avanguardia, la Pet e la Spect, e hanno propriamente visto ciò che accade in un cervello devastato dalla malat­tia. Coinvolte sono le aree emozionali e quel­le legate al coordinamento dei movimenti, a riprova della spiccata “fisicità” della patolo­gia. Tutto da rifare quindi per gii psichiatri? Non proprio. In fin dei conti, spiegano i me­dici, il termine isteria non si usa più (è sparito da decenni dal Dsm, manuale che classifica le malattie psichiatriche) ma i malati di iste­ria (adesso non si chiamano più isterici ma con altri nomi più tecnici e specifici) ci sono ancora. E quel che è importante sottolineare è che il fenomeno non riguarda solo gli ap -partenenti al genere femminile: ci sono an­che maschi, circa il 10 per cento dei malati.Oggi in particolare il termine isteria è stato sostituito da “reazione dissociativa” e “rea­zione di conversione”.Nel primo caso il paziente malato non si riconosce più, può sviluppare una voce di­versa dalla propria, e parlare altri idiomi. Nel­l’altra variante si ha invece a che fare con per­sone che addirittura possono subire paralisi degli arti e soffrire di anoressia. In generale, dicono gli specialisti, la personalità isterica si contraddistingue per l’immaturità e l’infan­tiismo. Si tratta di soggetti che, anche da adulti, non raggiungono un’indipendenza af­fettiva, sono volubili e capricciosi, si espri­mono con teatralità. Gli isterici hanno una certa difficoltà a valutare la realtà, pretendo­no l’immediato soddisfacimento dei loro bi­sogni, sono facilmente distralbili e impres­sionabii.Secondo alcuni scienziati gli attacchi di pa­nico, oggi tanto diffusi, sarebbero la versione moderna della vecchia isteria. Anche qui in­fatti sono strettamente coinvolte emozioni e sintomi fisici. In particolare sono le emozioni vissute in modo abnonne a scatenare crisi ‘fisiche” come tachicardia, respirazione alte­rata, annebbiamento della vista, giramenti di testa, vertigini, sudorazione alterata, tutti sin­tomi accompagnati da una serie di sensazio -ni che non permettono di essere lucidi nelle azioni e nei pensieri.La psicoterapia però può aiutare i pazienti isterici ad avere una visione meno distorta del mondo, ad osservare con maggiore atten­zione gli eventi, a fissarli in memoria, a rico­noscere le proprie emozioni e a controllarle. Sembrano essere utili le terapie di gruppo, dove gli isterici sono ammirati per la loro ca­pacità ad esprimere le emozioni e riescono a conquistare le simpatie degli altri pazienti grazie alla loro naturale abilità nell’instaurare relazioni. In Italia gli isterici rappresentano circa il 2,5 per cento della popolazione. 

La depressione: la causa nel talamo uno studio Usa riscontra eccesso di neuroni in quello dei malati . Il sovraffollamento cellulare nella parte del cervello che controlla le emozioni, nel talamo, sembra sia la causa della depressione. Lo ha scoperto un gruppo dell’universita’ del Texas che ha analizzato tessuto cerebrale da vari cadaveri. E’ stato notato che nelle persone morte durante un grave stato depressivo, il talamo e’ piu’ grande del 16% rispetto alla norma e che la quantita’ di neuroni e’ maggiore del 31% rispetto a quella presente nel talamo di individui sani.
Com’era intesa la follia  nel passato?

Un tempo la follia fu  poco presa in considerazione e non fu mai studiata in maniera  approfondita. Per secoli, prima che la malattia mentale fosse inquadrata come entità nosografica, non si fece distinzione  tra  stupidi, stolti, dissipatori,  sbandati, e coloro che presentavano disturbi psichici di rilievo.

Tutti costoro affollavano quotidianamente le strade e  facevano parte della “gente comune”, senza che venissero identificati con differenze di rilievo. 

Prima di arrivare  ad una disciplina scientifica che avesse come oggetto  la lotta contro la malattia mentale, bisognò sgombrare il campo da pregiudizi sociali e dalla insensibilità con la quale venivano valutati i comportamenti  insensati.

Si dovette attendere che la società si sensibilizzasse alle espressioni patologiche che per molti secoli furono ritenute esclusivamente comportamenti  bislacchi,  e si dovette cancellare la credenza che i disordini della mente fossero dovuti all’opera di  un dio o di una entità punitiva.

L’idea di una disciplina (la psichiatria) che affrontasse i problemi inerenti al disturbo mentale fu a lungo del tutto assente. I morbi che nell’antichità  assillavano maggiormente la popolazione erano la tubercolosi, la  sifilide (le cui prime notizie si hanno a datare dal 7000 a.C.- malattia di cui parla anche la Bibbia “in: Numeri, 25”) e  la lebbra. Quest’ultima apparve in India (nel primo Millennio a.C.), e per secoli si diffuse nel Medioevo.

     Per quanto riguarda le malattie fisiche  in passato vi era la tacita  convinzione che re e imperatori avessero virtù curative.

Il re dell’Epiro, Pirro,  era, secondo Plinio, un buon mani­polatore e curava varie malattie.  Nell’Epiro egli aveva fama di guarire le affezioni gastriche, appoggiando la sua mano sul ventre del malato. In Francia la tradizione dei re guaritori iniziò con Luigi IX il Santo. Secondo qualche storico, addirittura  il primo re con questi poteri fu  il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio.

La leggenda dell’esistenza di tale caratteristica regale durò fino a Luigi XVI. 

Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumatur­ghi,  che, secondo i racconti del tempo, la gente era convinta che il potere regio guariva la scrofola o tubercolosi linfonodulare, chiamata “morbus regius” proprio perché il guarirla era  una esclusiva preroga­tiva regale. Ma anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.

Filippo di Valois ne avesse addirittura “toccato” in una seduta più di 1500. Luigi XIV anche  sul letto di morte  proseguì la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI, che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi.

Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni.

L’etnologo James Frazer sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. In Europa l’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa  Ampol­la”. Ciò conferiva al re la capacità di guaritore.

La capacità di guarire veniva attribuita ai re perché erano ritenuti unti della investitura divina. Dio consacrava il re, e, assieme  allo scettro, gli concedeva facoltà di procedere alla guarigione dei sudditi. L’investitura regia era sacra e di conseguenza comportava  capacità taumaturgiche. I Faraoni erano dei , e come tali avevano facoltà e capacità che i comuni mortali non potevano avere.

Poiché era al dio che gli infermi si rivolgevano per essere guariti, essi  pregavano il dio che li governava chiedendo di essere aiutati. Nelle prerogative taumaturgiche reali c’erano anche delle specializzazioni: una vecchia diceria riteneva che nessuno guarisse meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia e le malattie mentali.

Portavano lustro e prestigio alle dinastie regnanti l’essere terapeuti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings“, cioè gli anelli  “tauma­turgici”.

Formule e cerimoniali si svolgevano nel modo seguente: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pres­sappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce».  Qualche sovrano  non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Carlo V di Francia, per esempio, riteneva che a lui la virtù miracolosa provenisse direttamente dal Padreterno.  D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il Traité du sacre per testimoniare le qualità taumaturgiche di cui si riteneva investito.

Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici è rimasta intatta a causa del  terreno fertile della credulità popolare. Chiunque avesse un po’ di carisma  induceva a credere di essere in grado di guarire malattie creando una sudditanza psicologica  che non si è modificata nei secoli.

Ancora oggi il fascino e lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le antiche credenze. I maghi utilizzano la suggestione creata dalla tecno­logia per conferire credito ai loro poteri. L’occulto e il paranormale, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno presa tra le masse, affascinate dai termini tecnici utilizzati. Si crea così un miscuglio di fantasia e scienza pericolosamente irrazionale e morbosamente rischioso. Il linguaggio dei fantomatici guaritori mutuando  quello tecnico-scientifico induce a credere nell’efficienza degli interventi degli occultisti

Molti esempi di pratiche occulte demenziali e a volte persino crudeli, dimostrano ignoranza dei principi più elementari del buon senso. In questi casi non si può che essere  sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale la gente si sottopone all’operato dei maghi.

 

Terapie transculturali, mistiche e sociali. La suggestione

Afferma Tobia Nathan[8] che si possono rifiutare le divinità di vario genere, si può rifiutare il Cristianesimo, o la razionalità scientifica, ma è difficile che venga rifiutata la magia.  Poiché il fine di ogni psicoterapia è aiutare a vivere serenamente, oltre alle terapie praticate dai terapisti classici, vi sono quelle atipiche,  dei pranoterapeuti e perfino quelle dei maghi. Può accadere così che  interventi terapeutici ritenuti dei placebo, come le pratiche esoteriche, abbiano successo. Il terapeuta  europeo non  sempre può entrare in sintonia con chi è di cultura diversa dalla sua ed è in questi casi che interviene lo sciamano. Gli etologi hanno preso l’abitudine che chiamare sciamani, stregoni, maghi, quegli individui che hanno un certo carisma su un gruppo di persone e che su di esso esercitano una funzione psicoterapeutica. Secondo G. Róheim[9] lo sciamano si comporta, senza saperlo, come uno psicoanalista «selvaggio».

In Africa, per esempio,  calmare l’angoscia  o la depressione, entità cliniche rilevate anche in quel continente, non sempre hanno successo le terapie di cultura  occidentale e necessitano quelle specifiche del luogo. Del resto anche in Occidente, in certe aree culturali non sempre le psicoterapie  sono  accette; sono molte infatti sono le religioni che mostrano diffidenza verso i terapeuti.

Scrisse Freud «A questo proposito vorrei dire che non credo che i nostri successi terapeutici possano competere con quelli di Lourdes; le persone che credono nei miracoli della Santa Vergine sono molto più numerose di quelle che credono nell’esistenza dell’inconscio. Se ci volgiamo a considerare la concor­renza terrena, dobbiamo collocare la terapia analitica accanto ad altri metodi psicoterapeutici, essendovi oggi ben pochi trattamenti fisico‑organici di stati nevrotici, meritevoli di essere menzionati».

La fede in qualche modo può frenare l’angoscia e l’adesione alla religione  può essere un rimedio e persino una profilas­si. A meno che non siano proprio dubbi e angosce  religiose a scatenare il conflitto interiore. Sebbene Freud fosse alquanto scettico a proposito della funzione terapeutica della fede, e sostenesse che il credente  è indotto a sminuire il valore della vita e a deformare l’immagine del mondo reale, tuttavia malgrado questo giudizio non poté fare a meno di notare testualmente che: “la religione riesce a risparmiare a molta gente la nevrosi individuale”. La religione ha il vantaggio di considerare la sofferenza un “riscatto”, e per questo in certi casi  stimola la rassegnazione. In coloro invece che non accettano l’irrazionale  e le contraddizioni dei misteri insiti in ogni fede, il pensiero religioso, creando con­flittualità, può originare situazioni nevrotiche.    Osserva l’antropologo Rogers Bastide[10] che   la valenza reli­giosa è presente in ogni cultura e determina una particolare forma mentis. Gli studi condotti negli Stati Uniti mostrano che sulla gente ha più influenza la fede religiosa di quanto non ne abbiano le tradizioni, i costumi e la cultura etnica di appartenenza. La mentalità tipica di un gruppo etnico cede il passo – secondo alcune ricerche fatte in proposito da Bastide – agli insegnamenti e alla mentalità religiosa! 

Sempre secondo R. Bastide: «Il fatto è che la religione, per quanto dimenticata, ha modellato la cultura di un popolo di generazione in generazione, definendone i costumi secondo regole implicite, specialmente nel modo di alleva­re i figli». 

I principi del culto, anche  se  poco praticati, restano  determinanti e sono radicati nelle strutture sociali, nelle credenze e nei precetti morali. Nelle attese e nelle speranze i credi religiosi permangono a volte anche mistificati e nascosti,  persino sotto forma di superstizione. Molte persone, la cui fede tiepida sembra non dar credito alla religione, si appoggiano all’occultismo e alla magia che ne rappresentano l’alternativa. Questo avviene  non solo nei continenti extraoccidentali ma anche nella cultura europea e occidentale. L’International Cooperative Biodiversity Group,  forse fiutando l’interesse della gente per la magia, forse anche per puro spirito di ricerca, è riuscito a suscitare  e concretizzare l’interesse per “la medicina alternativa” in alcune Università site in territori con significativa presenza di quel tipo di medicina transculturale (Argentina, Camerum, Cile, Costa Rica, Messico, Perù e persino  Stati Uniti) coinvolgendo, pare, anche la Bristol Myers Squibb per finanziare un piano di studi che possa vagliare ciò che v’è di utile nelle antiche conoscenze terapeutiche. Ma al di là di questo tipo di ricerca che, tutto sommato,  potrebbe essere un proficuo stimolo per un studio storico-antropologico che appuri quanto vera sia la cosiddetta saggezza ancestrale, la fragilità emotiva e la suggestionabilità di chi soffre del male oscuro, spingono verso il guaritore atipico (o transculturale). La suggestione  e  l’influenza  dell’occulto sono forti in chi crede e in chi confida nei poteri magico-extrasensoriali.

Racconta l’antropologa Margaret Mead in Sesso e temperamento[11] che gli aborigeni della Siberia conferivano dignità sacerdotale agli individui dal siste­ma nervoso instabile. Essi li eleggevano al rango di sciamani e le loro sentenze, ritenute di ispirazione soprannaturale, erano valide per tutti i membri della tribù. Gli sciamani, presso i popoli primitivi, assumono la figura  di “sacerdoti guaritori”  e il loro intervento suasivo ed ipnotico produce effet­ti rilassanti. Non bisogna meravigliarsi di simili credenze, in quanto in quasi tutte le religioni primitive, anche quelle occidentali, i sacerdoti furono identificanti  come guaritori. Per tradizione in fatto di salute, anche oggi, sono chiamati anche in causa i Santi e molti di essi sono stati nominati protettori di malattie.( S. Ignazio è protettore delle appendiciti, Benedetto da Norcia è chiamato contro gli avvelenamenti, S. Stefano influirebbe contro i calcoli renali, S. Giorgio contro le epidemie, S. Caterina d’Alessandria preserva dall’aborto, S. Bernardo da Chiaravalle è il protettore degli epilettici, S. Biagio eviterebbe le malattie della gola e persino ultimamente è stato nominato, contro la piaga dell’AIDS,  San Luigi Gonzaga  santo famoso per la sua opera di assistenza)    

Osserva Julian Leff4 che i guaritori e gli  esorcisti sono abili nel comprendere quando un malessere con sintomi fisici  dipende da problemi di natura psicologica. In questi casi si comportano come i medici occidentali che praticano la medicina psicosomatica. Lo psichiatra M. Nichter[12] osserva che nel sud dell’India l’angoscia nevrotica è manife­stata con vertigini e capogiri e che i guaritori  a conoscenza della simbologia che rappresenta il Tale tirigutade (espressione indiana per giramento di testa) intervengono  rassicurando i malati che non si tratta di guai fisici. 

Anche la superstizione, nell’ambito di una certa cultura, produce effetti  benefici in  chi si affida alla sua forza e riesce a sedare l’angoscia. Salvo poi, alla lunga, a procurare una vera e propria alienazione nei soggetti che si sottomettono ad esorcismi sempre più complessi e fuorvianti.

Chi crede nelle terapie che hanno a che fare col paranormale sostiene di averne  beneficio e non gli interessa che al riguardo non esiste una scientificità dimostrata. Del resto, sostiene qualcuno, nemmeno  i risulta­ti delle psicoterapie sono verificabili  scien­tificamente  e tutta l’operazione terapeutica è lasciata alla valutazione soggettiva del terapeuta e a quella personale del malato. Per questo motivo c’è chi trova persino difficile stabilire una netta demarcazione tra le psicoterapie scientifiche e quelle alterna­tive. La fiducia nel carisma del terapeuta è determinante sia nel caso di terapia occidentale che in quella transculturale.

Secondo lo storico  Gustave Jahoda[13] non è possibile  fare una distinzione tra società affrancate dalla superstizione e popolazioni superstiziose. L’inchiesta di Jahoda mette in luce che l’unica diversificazione possibile è il grado maggiore o minore di influenzabilità  delle  popolazioni e la percentuale di persone che si affidano alla superstizione. In Europa operano con discreto successo e a tempo pieno, medium,  pranoterapeu­ti, guaritori e  veggenti. Secondo i rilevamenti di Jahoda, in Inghilterra una persona su dieci sarebbe superstiziosa e in Germania la percentuale è  ancora più alta. Un’inchiesta del giornale “Le Monde” rileva che metà dei francesi crede nella trasmissione del pensiero e il 40% si è dichiarato convinto che carattere e personalità dipendano dalle congiunzioni astrali. Un’alta percentuale di persone ritiene che i sogni sono rivelazioni e anticipazioni del futuro e che  la preveggenza sia un evento possibile.

L’astrologia ha un fascino irresistibile: giornali e  programmi televisivi danno ampia ospitalità alle previsioni astrologiche. In alcuni Stati esistono servizi telefoni­ci che per una manciata di scatti forniscono oroscopi accreditati dall’essere prodotti da un  servizio pubblico.

Poiché l’umanità  non è uscita ancora dalla sua infanzia e ha bisogno di essere protetta dai genitori o da loro  sostituti, essa si affida al potere rassicurante e protettivo di veggenti e guaritori, figure transferenziali, sostituti dei genitori, che tranquillizzano i più suggestionabili.

Sebbene, ovviamente, i terapeuti classici non ammettano  che la super­stizione e la magia possano  scon­figgere l’angoscia, tuttavia non è possibile negare che si praticano con successo anche in Europa. Nelle culture extraeuropee i malati di psicosi e di nevrosi ricevono, al manifestarsi dei primi sintomi, il primo trattamento terapeutico dai guaritori. Questo genere di intervento  è talvolta richiesto anche dai malati occidentali quando disperano della medicina ufficiale. Quando poi si verifica una remissione spontanea il caso viene esaltato per avvalorare il potere di guarigione delle forze occulte.

Una delle tecniche utilizzate dai guaritori nelle aree transculturali, per combattere il male  è quella   di “estrarre” dal corpo del paziente la “causa” del fastidio. Esempio classico sono i guari­tori delle Filippine, che per anni hanno avuto un grande successo e un business incredibile. Non solo ipocondriaci ma anche malati  gravi e incurabili fecero il viaggio fino  a Manila  ove i  manipolatori “operavano” senza bisturi e senza  tagli, sostenendo di  guari­re qualsiasi male con formule magiche e  toccamen­ti. Gli aeroporti filippini furono testimoni di questo assurdo pellegrinaggio. 

I guaritori attribuiscono alle malattie le origini più strane. C’è chi ritiene che il malessere nevrotico sia causa­to da “vermi” che si installerebbero nel cervello  oppure e che gli spiriti maligni sarebbero entrati nella mente del malato. In ogni caso, secondo i guaritori, il rimedio è  espellere dal malato la causa del malessere. I sintomi dei disturbi isterici sono fatti regredire (temporaneamente) dai guaritori  mediante varie forme di suggestione, dando così l’illusione della avvenuta guarigione.

Ma “ordinare agli spiriti maligni” di andar via dalla mente non è una procedura di esclusiva origine tribale. Nel Vangelo di Luca(8,27-33) si legge che Gesù ordinò agli spiriti maligni di un indemoniato (oggi diremmo uno psicopatico) di abbandonare il corpo dell’individuo posseduto e di entrare in un branco di maiali che, subito dopo, si suicidarono gettandosi nel lago. Anche nelle guarigioni operate al tempo di Gesù è presente l’elemento purificatore dell’acqua, tuttora operante nei riti terapeu­tici dei guaritori del XX secolo.

Gli stati di “possessione” come qualsiasi situazione psichica alterata hanno da secoli, una terapeutica alternativa non solo nei paesi transculturali ma anche in quelli occi­dentali. In ogni tempo è stata forte, ad esempio, la convinzione che   re e imperatori avessero virtù terapeutiche. Tacito riferisce che l’imperatore Vespasiano era molto amato dai suoi sudditi perché donava la vista ai ciechi. Il grande Adriano aveva il potere di ridare la salute agli idropici e Pirro  era secondo Plinio, un buon mani­polatore. Il re dell’Epiro aveva fama di guarire le affezioni gastriche,appoggiando la sua mano sul ventre del malato.

In Francia la tradizione dei re guaritori  secondo alcuni storici iniziò con Luigi IX il Santo, secondo altri studiosi il primo re con questi poteri fu il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio. La credenza in questa caratteristica dei re durò fino a Luigi XVI.  Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumatur­ghi,[14] che secondo i racconti del tempo, il potere regio guariva la scrofola (tubercolosi linfonodulare), allora detta “morbus regius”. E guarire questa malattia era  proprio una esclusiva preroga­tiva reale.  Anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.

Si narra che Carlo X avesse guarito in un giorno 120 persone e che addirittura Filippo di Valois ne avesse “toccato” in una sola seduta più di 1500. Luigi XIV anche sul letto di morte aveva proseguito la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI,che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi.     Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni. L’etnologo James Frazer[15] sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. L’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa  Ampol­la”. Questo conferiva al re la capacità di guaritore. I re inglesi procedevano spesso alla cura “magica” dei loro sudditi mediante toccamenti e lavaggi.

In Inghilterra l’usanza ebbe inizio nella metà dell’anno Mille con Edoardo il Confessore il quale intro­dusse la prerogativa che rendeva sacra l’investitura regia, cioè la capacità taumaturgica. In questo campo c’erano anche delle specializza­zioni: nessuno guariva meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia.

Anche le regine erano guaritrici. Famosa è la consacrazione degli anelli fatta da Maria la Cattolica, figlia di Enrico VIII, che la regina distribuì santificati dal suo tocco reale, ai malati. Quegli anelli miracolosi vennero richiesti anche al di fuori dell’In­ghilterra e  portarono lustro e prestigio alle dinastie regnanti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings”, cioè gli anelli  “tauma­turgici”.

Le formule e i cerimoniali erano questi: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pres­sappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce». Qualche sovrano, però non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Secondo Carlo V di Francia non c’era bisogno di ricorrere a questa formu­la: a lui la virtù miracolosa proveniva direttamente dal Padreterno. D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il “Traité du sacre” per testimoniare le qualità taumaturgiche del re.     Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici  ha  creato un  terreno fertile di credulità. Chiunque avesse un po’ di carisma  induceva gli altri a credere di essere in grado di guarire qualsiasi malattia creando una sudditanza psicologica   che non si è modificata nei secoli. Il fascino, lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le vecchie credenze. Molti “maghi” utilizzano la suggestione della tecno­logia per conferire più credito ai loro poteri. L’occulto e il “paranormale”, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno più presa tra le masse, affascinate da termini tecnici utilizzati, in altro ordine di cultura, dalla scienza ufficiale.

Si crea così un confuso miscuglio di fantascienza che induce ad accettare principi e terapie che sono pericolosamente irrazionali e morbosamente rischiosi. Molti sono gli esempi di pratiche occulte demenziali: alcune sono così crudeli  e dimostrano una tale ignoranza dei principi più elementari del buon senso, che lasciano davvero sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale certa gente le accetta e si sottopone ad esse.

I seguaci dell’astrologia, della medicina parascientifica, dello spiritismo  per far presa sul pubblico e avvalorare i loro fantomatici ed ipotetici poteri, adottano espressioni messianiche. Il linguaggio dei guaritori mutua  talvolta  quello tecnico-scientifico e,  grazie a questa  terminologia usata però impropriamente, la gente è indotta a credere  nell’efficienza degli interventi degli occultisti.

La  fondatezza di un oroscopo  viene inoltre avvalorata se esso è prodotto da un computer. Sono più convincenti e accattivanti i vistosi mar­chingegni elettromagnetici adoperati per la conoscenza del futuro. Talvolta la “fama” conferisce ad un occulti­sta un credito che un luminare della medicina non ha.     Diceva giustamente il presidente americano J. F. Kennedy che il più grande nemico della verità non è la menzogna, ma il mito. La suggestione  ha un effetto dirompente ed  è una trappola alla quale poca gente riesce a sfuggire. La fidu­cia nelle forze “ignote” è imponderabile e rassicura più della medicina classica.

Il filosofo Davide Hume[16] sosteneva che l’uomo è portato a stabilire ragioni sufficienti per razionalizzare l’esistenza di poteri invisibili. L’uomo primitivo “deificava” piante,animali,oggetti inanimati e forze della nature come il fulmine e il tuono. L’uomo moderno, più scaltro e smaliziato,  crede in intelligenze invisibili e sofisticate.

Afferma Hume che alcuni eventi naturali, che al lume della ragione dovrebbero essere di ostacolo per il riconoscimento di una forza suprema “intelligente”,in realtà finiscono per essere  argomenti che sono ritenuti atti a dimostrarne proprio l’esistenza! I disordini, i disastri, le incongruenze della natura e dell’uomo – sostiene Davide Hume -, generano nell’uomo ferree convinzioni riguardo all’esistenza di forze sovrannaturali ignote ed inesplicabili. Quando il panico ha invaso la mente, la fertile fantasia moltiplica sempre più i motivi per avere terrore e sempre più sviluppa  la necessità di votarsi a qualcuno  per essere salvati.

Gli spettri di forze distruttive si presentano sotto le più spaventose sembianze. E l’immaginazione umana cerca la salvezza, a volte, anche là dove c’è la più abietta perversità.

 L’elenco dei folli traghettatori di anime, personaggi cupi, predicatori che sono stati a capo di sette salvifiche, e che hanno promesso la redenzione e  invece hanno condotto il loro popolo alla distruzione è molto vasto. Uno di questi guaritori e redentori psicopatici fu Jim Jones, che portò il suo “popolo”, dopo la fuga dalla California,  ove vennero considerati dei matti, nella terra promessa della Guyana, e che, arrivati nella jungla,  nel 1978  impose ai 911 affiliati la morte come liberazione. L’elenco dei fatti del genere, accaduti nel XX secolo, è lungo ed orribile: nel 1985 vi fu il suicidio collettivo della tribù Ata, che “andò a trovare il dio della luna”; nel 1987 nella Corea del Sud, i seguaci del Park Soon Ja, furono massacrati  dai capi i quali poi si suicidarono. Nel 1990 in Mexico  si diedero la morte gli adepti del tempio di Mezzogiorno; in Texas, a Waco, nel 1993, dopo avere annunziato il suicidio collettivo, ed essere stati circondati per 51 giorni dalla polizia, i seguaci di David Koresh si diedero fuoco e si suicidarono in massa. Episodi del genere sono accaduti nel Vietnam, in Giappone, in Francia, in Svizzera e in Canada.

Nel Medio Evo, per esempio il bagno, soprattutto quello preso ad una certa temperatura, era ritenuto uno stimolo erotico e per questo motivo veniva sconsigliato dalle autorità ecclesiastiche. Secondo alcuni storici a quei tempi di solito le persone facevano un solo bagno in tutta la loro vita: quello battesimale. Pare che molti asceti nell’antichità aborrissero il bagno ritenendolo fonte di pericolose  voluttà. Si racconta che santa Agnese morì giovanissima  senza essere stata “contaminata” dall’acqua e che molti santi, come santa Caterina e san Francesco, non erano soliti fare alcun tipo di abluzione proprio per evitare sollecitazioni erotiche e conseguenti sensi di colpa.         

Se la riluttanza al bagno nel periodo del Medio Evo fu considerata una pia consuetudine per evitare il peccato, oggi  invece l’individuo che vive nello stesso sudiciume in cui molti vivevano allora, può incrementare il sospetto che  la propria carenza di pulizia possa nascondere  qualche devianza mentale. E’ chiaro dunque che colui che entra in conflitto con le idee della comunità viene emarginato e ritenuto “diverso”.   

Tutto ciò è un aspetto della insensatezza umana, non codificato come “malattia”; ma non si può non riflettere seriamente su alcuni percorsi della mente e su certe quotidiane stupide credenze.

Per secoli, anche  nei paesi europei,  si ritenne che vi fossero persone dotate di particolari qualità terapeutiche. A tal proposito bisogna ricordare che in ogni tempo è stata forte la convinzione che re e imperatori avessero virtù curative. e il re dell’Epiro, Pirro,  era, secondo Plinio, un buon mani­polatore. Il re dell’Epiro aveva fama di guarire le affezioni gastriche, appoggiando la sua mano sul ventre del malato. In Francia la tradizione dei re guaritori iniziò con Luigi IX il Santo. Ma  secondo qualche storico, addirittura  il primo re con questi poteri fu  il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio.

La leggenda dell’esistenza di tale caratteristica regale durò fino a Luigi XVI. 

Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumatur­ghi,  che secondo i racconti del tempo, il potere regio guariva la scrofola o tubercolosi linfonodulare, chiamata “morbus regius” proprio perché il guarirla era  una esclusiva preroga­tiva regale,.

Ma anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.

e  Filippo di Valois ne avesse addirittura “toccato” in una seduta più di 1500. Luigi XIV anche  sul letto di morte  proseguì la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI, che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi.

Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni. L’etnologo James Frazer sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. In Europa l’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa  Ampol­la”. Ciò conferiva al re la capacità di guaritore.

La prerogativa che rendeva sacra l’investitura regia era la capacità taumaturgica.

C’erano anche delle specializzazioni: secondo una vecchia diceria nessuno guariva meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia.

e  portavano lustro e prestigio alle dinastie regnanti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings“, cioè gli anelli  “tauma­turgici”.

Formule e cerimoniali si svolgevano nel modo seguente: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pres­sappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce».  Qualche sovrano  non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Carlo V di Francia, per esempio, riteneva che a lui la virtù miracolosa provenisse direttamente dal Padreterno.  D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il Traité du sacre per testimoniare le qualità taumaturgiche di cui si riteneva investito.

Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici è rimasta intatta a causa del  terreno fertile della credulità popolare. Chiunque avesse un po’ di carisma  induceva a credere di essere in grado di guarire malattie creando una sudditanza psicologica  che non si è modificata nei secoli.

Ancora oggi il fascino e lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le antiche credenze. I maghi utilizzano la suggestione creata dalla tecno­logia per conferire credito ai loro poteri. L’occulto e il paranormale, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno presa tra le masse, affascinate dai termini tecnici utilizzati. Si crea così un miscuglio di fantasia e scienza pericolosamente irrazionale e morbosamente rischioso. Il linguaggio dei fantomatici guaritori mutuando  quello tecnico-scientifico induce a credere nell’efficienza degli interventi degli occultisti

Molti esempi di pratiche occulte demenziali e a volte persino crudeli, dimostrano ignoranza dei principi più elementari del buon senso. In questi casi non si può che essere  sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale la gente si sottopone all’operato dei maghi. Emblematico è  il caso dei samurai, i quali si dedicavano al mestiere della armi, con ideali e principi morali rigidi, influenzati dal buddismo zen. Le caratteristiche dei samurai erano la generosità e il coraggio. In caso di sconfitta,  essi dovevano porre fine all’infamia col suicidio (seppuku).  E così se  da un lato in Giappone si cercava di impedire che l’aspirante suicida, sconfitto dalla vita.  compisse il suo gesto,   nel caso di Giappone si cercava di impedire che l’aspirante suicida, sconfitto dalla vita.  compisse il suo gesto,   nel caso di seppuku, chi non si dava la morte dopo una sconfitta, era ritenuto indegno. La follia è dunque un punto di vista culturale. Il famoso re persiano, Dario, chiese ad alcuni Greci  a quale  prezzo  avrebbero accettato di mangiare la carne dei loro padri morti, invece di bruciarne, com’era loro costume, i cadaveri. Gli interpellati risposero che a nessun prezzo avrebbero mai fatto quel sacrilegio. Dopo quella risposta, il re persiano fece introdurre al suo cospetto alcuni Indiani Callari, che avevano l’abitudine di mangiare i cadaveri dei loro padri, e chiese loro a quale prezzo avrebbero rinunziato a quel rituale avrebbero consentito a bruciare i cadaveri dei loro congiunti. Essi dissero che non vi avrebbero mai rinunziatoLa follia ha sempre affascinato ed attorno ad essa si è  sviluppata una nutrita letteratura. Nelle culture  primitive, coloro che si ritenevano in comunicazione con l’aldilà, che “vedevano” gli  spiriti e avevano contatti con forze sconosciute o  presentavano fabulazioni incomprensibili, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei. Con i suoi simboli inquietanti la follia, venne accomunata alle manifestazioni oniriche,  e ricevette nuovo credito,  perché i sogni divennero importanti strumenti  d’analisi. Si intuì  che follia e ragione hanno vari punti di contatto, per cui i contorni sono sfumati: l’insensatezza può includere un’intrinseca ragione e la ragione può fondarsi su un pizzico di follia. Si intuì che la “normalità” non ha una direzione unica, né un cammino sicuro:  essa è incerta, problematica;  possiede  due facce, come la follia. Il connubio tra creatività e follia si è fatto sempre più intrigante. In molti casi, l’arte è diventata un  deterrente contro l’espandersi dell’angoscia e della insensatezza della vita. Molti personaggi illustri hanno attraversato  alcuni periodi della loro vita in gravi crisi esistenziali e questi  esseri eccezionali sono  incappati, come del resto accade a uomini e  donne comuni, in drammatiche difficoltà psichiche. Sebbene non  esistano dati sicuri e incontrovertibili sulla connessione tra psicopatologia e creatività, si può ipotizzare  che la creazione artistica sia un mezzo  per fronteggiare l’afflizione della vita. La creatività non necessita inevitabilmente della  spinta psicopatologica; se ciò non fosse vero, bisognerebbe  dimostrare come mai, molti geni,  la cui vita interiore non è stata toccata dalla psicopatologia, abbiano  raggiunto  eccelse vette creative. Tuttavia poiché un elemento importante della creatività è il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, tutto questo può polarizzare l’attenzione degli individui creativi con pensieri che, se per la maggior parte della gente non hanno importanza,  a causa della loro complessità  possono far credere che  l’artista sia una persona del tutto avulsa dalla realtà quotidiana, svagata,  e persino “fuori di testa”. Il fatto è che il genio, osservando ciò di cui le persone  non si accorgono,  non  sempre è in sintonia con le stesse cose di cui s’interessa la gente comune.  Ed allora la gente non attribuisce all’artista reali qualità pratiche, ma solo un’attitudine a vagare con la fantasia e l’immaginazione, creando così il mito dell’individuo creativo, se non un po’ matto, quanto meno distolto dagli interessi quotidiani.E  ci si chiede se sia possibile  ipotizzabile che genio e follia facciano parte di una struttura mentale similare, in cui la prima, è la facciata  favorevole, e l’altra quella negativa. La pulsione “geniale”,  talvolta è simile alla ossessione e  spinge l’artista alla creatività, alla smisurata ambizione, al tormento intellettivo; tutte  situazioni equivalenti della follia.

La corteccia laterale sinistra, il precuneo sinistro e il cervelletto posteriore destro. Sono queste le tre aree cerebrali che ci consentono di immaginare il futuro. Funzionano come delle sfere di cristallo, rendendo possibile la nostra capacità di creare immagini mentali di eventi che non sono ancora accaduti.

 

La follia, soluzione esistenziale?

Trafiggere l’insipienza della vita, utilizzando la follia può essere un’operazione rischiosa, ma in qualche caso, è proprio la stravaganza  che crea una “protezione” contro le inestricabili  contingenze della quotidianità.  La sregolatezza, nella dimensione artistica, metabolizza il potere nefasto della vita. La follia perde quel senso di pericolosità e di precarietà  che le si attribuisce, ed anzi testimonia  la drammaticità della vita.

La letteratura moderna ha compreso che  nel matto, come in chiunque, convivono menzogna e verità,  sincerità e simulazione, ambiguità e realismo;  e che tutto ciò rende  indistinta e scarsamente individuabile la demarcazione tra pazzia e sanità mentale.

La cultura,  la filosofia, la letteratura,  il teatro, il cinema, le arti figurative, cominciarono a  descrivere la vita tenendo presente anche l’alienazione.

La follia è stata anche tratteggiata da molte  tele di insigni pittori, stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, i quali hanno ritratto l’alienazione con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile, nell’ambiguo, nella diversità.

La musica, dunque, difficilmente si può riferire a fatti o soggetti concreti, perché il linguaggio musicale è svincolato dalla verosimiglianza. Essa di rado e in  casi particolari  può modellarsi alla realtà pratica, evocando  momenti extramusicali  con mezzi musicali,  come le dissonanze di Schönberg,  che sembrano assumere la forma all’angoscia, con un  linguaggio musicale vicino alla tensione catastrofica della follia. Sebbene la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono, può creare un formidabile pathos, così come accade anche con l’accordo di settima diminuita, ci si chiede se  la musica  può esprime stati d’animo e sentimenti “inconsci” e diventare così linguaggio della follia,  comunicando quello che passa nella mente di una persona psichicamente malata. 

È probabile che, essendo un linguaggio astratto, la musica non possa rappresentare mai nulla di concreto, e forse nemmeno stati d’animo particolari.

Nelle maglie della “stranezza” sono incappati  non solo i grandi artisti, il cui genio, per definizione,  si pasce   di sregolatezza, ma anche  le menti   che meditano su teorie di grandissima importanza, e cioè inventori, filosofi della scienza,  ideatori di grandi opere tecniche, scopritori dei grandi segreti della natura;  scienziati che utilizzano come strumenti necessari del loro sapere l’ordine e la ricerca sistematica e che devono essere “mentalmente”  chiari e disciplinati per raccapezzarsi nel caos dell’universo. Arte e scienza, afferma Martin Kemp[17], sono pressoché  indiscernibili nel processo di osservazione, in quanto l’esperienza estetica e quella cognitiva sono un tutt’uno, come ha dimostrato l’attività creativa di  Leonardo da Vinci..  

Sarebbe gratuito e azzardato prospettare una connessione tra lo stress della creatività e il suicidio, anche se, tuttavia, non sfugge come dato di fatto,  documentato  da emblematici  episodi che sono tanti i  geni che si sono tolta la vita, a volte per umiliazione, a volte perché gli è sfuggita la gloria, a volte dopo aver preso atto della insipienza della condizione umana.

Secondo alcuni  la depressione  a volte è il contributo che l’individuo paga per affinare la propria creatività. Come che sia, è innegabile che il suicidio è un fenomeno  comune tra gli artisti e tra i pensatori, per cui bisogna fare qualche puntualizzazione al riguardo. In proposito c’è da sottolineare che in alcune  famiglie di artisti che  si sono suicidati, sono stati riscontrati altri  componenti  che soffrivano di depressione.

Secondo Freud  esistono molti individui  geniali che hanno gravi squilibri psichici  ma  ne esistono anche di quelli che  possono essere definiti assolutamente normali.  In quanto alle prestazioni dei primi, sempre secondo Freud,  possono essere avvantaggiate  dalla parte intatta delle loro personalità, e nonostante  la loro struttura nevrotica o psicotica,  o, al contrario, essi riescono ad essere creativi, proprio grazie  e mediante la parte alienata della loro struttura psichica. E Schopenauer era del parere che il genio vede in mondo diverso da tutti gli altri. A.H. Maslow ritiene che la persona creativa sia un tipo particolare e speciale di essere umano che deve essere considerato nel suo complesso e non frammentariamente.  Molti si sono chiesti  se vi sia una correlazione tra intelligenza e creatività.

Il presidente Schreber ( la cui storia psichica è raccontata da Frued)  e  narratori  dello stampo di Fiedor Dostoievskij, Luigi  Pirandello,  William Shakespeare e  nella pittura, artisti come  Brueghel, Munch, Bouts e  altri.

E difatti, la follia non solo è presente nel teatro, nella letteratura, ma  è anche tratteggiata nelle tele dei pittori, spesso stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, che la presentano con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile e nell’ambiguo.

In quanto alla musica, sebbene la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono, può creare un formidabile pathos, ci si chiede  se  possa assumere l’espressività della follia, in quanto il suo linguaggio è  astratto e dunque svincolato dalla verosimiglianza. La musica, forse, solo raramente configura in modo non ambiguo l’angoscia, e in questi casi viene rappresentata con linguaggi musicali  provvisti di tensione catastrofica.

Secondo alcuni  la depressione  è il contributo che l’individuo a volte  paga per affinare la propria creatività e infatti,

Nelle culture  primitive  quelli che presentavano fabulazioni incomprensibili, che oggi definiremmo “fuori di testa”, erano ritenuti predestinati dagli dei, perché  si credeva che fossero in comunicazione con l’aldilà e con forze sconosciute. Inoltre la follia era accomunata alle manifestazioni oniriche.

che  il fantasticare è un elemento della creatività, per cui spesso l’artista appare come una persona con la testa tra le nuvole,  e ciò sviluppa il sospetto che sia “fuori di testa”. L

L’esperienza estetica e quella cognitiva , cioè l’arte e la scienza, sono così accomunate  che non solo i grandi artisti , il cui genio si pasce di sregolatezza, ma anche gli scienziati, per raccapezzarsi nel caos dell’universo, e capire meglio le insensatezze di certe particelle subatomiche il cui moto è imprevedibile, devono fare in conti con una certa insensatezza della  materia.

Demenza, squilibrio, delirio, follia, pazzia, confusione mentale, alterazione mentale, esaltazione, agitazione, perdita della ragione  “comune”, diversità,  dissennatezza, stoltaggine, matto, insensato, stravagante, bizzarro,  frenesia,  mentecatto, furioso, maniaco,   vaneggiare, dissennato, delirante, vaneggiamento ammattire,  demenziale, alienato, aberrante, esaltato, invasato,  furioso,  degente, malato, paziente, fissato, “suonato”, frenetico,  stravaganza, bislacco,

 

 

Ansia, paura, attacchi di panico?Ora c’è un ormone sotto accusa

Studio: affetti da eccesso di aldosterone? Più disturbi dell’umore
Questa molecola forse è alla base del meccanismo scatenante Una ricerca dell’università di Padova rivela la fonte potenziale del maggior disturbo della vita moderna: l’ansia, la paura e i tanto temuti attacchi di panico potrebbero, infatti, dipendere dalla presenza eccessiva nel nostro organismo di un ormone, l’aldosterone.
Prendendo in esame un gruppo di pazienti affetti da una malattia causata da un eccesso di aldosterone, ha spiegato Nicoletta Sonino dell’università di Padova nell’articolo pubblicato sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics, è emerso il possibile legame tra la molecola e disturbi dell’umore come ansia e panico. In particolare, nello studio pilota sono stati coinvolti pazienti con iperaldosteronismo primitivo o Sindrome di Conn, una malattia dovuta ad un adenoma delle cellule della zona glomerulare della corteccia surrenale e pazienti affetti da un’altra forma di iperaldosteronismo. I ricercatori hanno esplorato con una serie di test standard, come quelli utilizzati in psichiatria, la presenza eventuale ed il tipo di disturbi della sfera dell’umore di cui i soggetti si trovavano a soffrire.

Il quadro emerso appare piuttosto chiaro: la probabilità statistica con cui i malati di eccesso di aldosterone soffrono di ansia e panico è di gran lunga maggiore rispetto alla media riscontrata nella popolazione in generale. Inoltre, sono emersi tra questi soggetti casi di disturbo ossessivo-compulsivo, irritabilità dell’umore e casi frequenti di demoralizzazione.
In studi precendenti era già stata osservata una possibile connessione tra ansia e la famiglia degli ormoni corticosteroidi, della quale fanno parte sia l’ormone dello stress (il cortisolo) sia lo stesso aldosterone. Quest’ultimo ormone, prodotto dalle ghiandole surrenali, è estremamente importante per la regolazione della pressione sanguigna.
La genesi del disturbo dell’ansia e della paura sarebbe, quindi, con grande probabilità, connessa proprio alla presenza di quest’ormone, conclude la Sonino, anche se sono necessari altri studi su un campione più vasto di pazienti per potersi basare su una copertura statistica maggiore.

Ma questa scoperta apre una strada agli scienziati che studiano il funzionamento dei meccanismi biologici alla base di questi disturbi, indirizzando la cura verso trattamenti più efficaci con un notevole miglioramento per i soggetti che ne sono affetti. Se le sperimentazioni confermeranno questa ipotesi, potrebbero sperare in una migliore qualità della loro vita tutti gli ansiosi eccessivi, troppo spesso limitati nella libertà quotidiana da quel piccolo inferno di panico e paure.  

 

L’incontro antropologico con la persona delirante: apertura e/o scacco.

Bruno Calmieri:  La “presenza” del soggetto delirante ci si ostende in molte e diverse modalità che, per lo più, sembrano precludere radicalmente il coesistere-con-l’altro, quindi vanificare ogni possibilità di incontro, momento costitutivo dell’intersoggettività, sulla quale cala la fitta nebbia dell’isolamento esistenziale. Certamente il delirante, che è lo psicotico per antonomasia, mondanizzato nell’irreale, o nel dis-torto, può ampiamente comunicarci ( ben più dello schizofrenico) la sua situazione, il suo in-der-Welt-sein, il suo esserci-nel-mondo; certamente anche per lui “il linguaggio è la dimora dell’essere” (Heidegger, Brief über del Humanismus, 1947), ma non è più domanda e risposta, non è più dialogo, non è colloquio, ma monologo. In un tal tipo difettivo di co-presenza manca l’apertura al Mit-Welt, al mondo umano comune e l’incontro sembra divenire praticamente irrealizzabile o, comunque, destinato allo scacco e a farci restare interdetti. Come scrive Cargnello (1984) “è proprio in questa prospettiva che la psichiatria può essere intesa come una scienza di distorti, falliti, impossibili incontri”. Viene così tracciato, tramite il delirante, un modello generale per la ricerca psicopatologica, appunto “quello dell’analisi delle specifiche declinazioni difettive delle categorie della coesistentività” (Stanghellini e Ballerini, Ossessione e Rivelazione, p. 79). In verità, in certe situazioni psicotiche, l’alter ci si propone come alcunché di estraneo, come alienus, da fratello a nemico ( A. Schnitzler), cioè muoventesi secondo parametri “altri”, paralogici e paratimici (Trupia, 1992), che sovvertono le “nostre” prospettive mondane e che ci obbligano a salti categoriali del tutto insoliti; è lo “scuotersi delle fondamenta” (il tillichiano shaking of the foundations) che, volentes aut nolentes, ci fa restare interdetti, in quanto sconvolti dall’invasione del significato abnorme (per es. di “fine del mondo” – Callieri) o dalla continua presenza della perplessità e poi, dell’illuminazione delirante.

Nell’esperienza del “restare interdetto” è fortemente implicato l’esser-preso (sorpreso) – da, c’è il sentimento attonito di una contemplazione obbligata, subìta, imposta, c’è la sgradevole sensazione dell’imprevisto, c’è – quasi sconvolgente — la sospensione della donazione di senso (non più ricevuto né dato, nell’arresto di un flusso coesistenziale che invece dovrebbe essere incessante, anche nei momenti di maggior solitudine). Nell’incontro col delirante, che ci comunica (o ci consente di cogliere) il suo mondo dereistico, fantasmatico, immaginario, si verifica – quasi brutalmente – una specie di collisione di categorie, con uno scatenamento infranabile di psichismi di difesa: nessun psichiatra, per quanto esperto, può esserne risparmiato ( a meno che esso non si burocratizzi piattamente e in una specie di burn-out).Atteggiamento di neutralità asettica, unica modalità d’esperienza di incontro, ma rende impossibile ogni tentativo di dialogo e  ostacolato seriamente ogni conato di recupero dell’alienus . Ma il recupero dell’alter  è lo scopo terapeutico autentico dello psichiatra, specifico delle sue capacità professionali e umane, anche avvalendosi del prezioso aiuto farmacologico, sempre criticamente considerato e prescritto, senza riduzionismi semplicistici e senza ideologiche negazioni o preclusioni. L’attività psichiatrica clinica, ospedaliera, e privata, sta  nell’ accettare l’alienus nella sua insopprimibile qualità umana, come compagno di strada, delirante o schizofrenico, malinconico o maniacale, demente o oligogofrenico. Questa possibilità, costituisce la condizione preliminare per ogni incontro effettivo in ambito psichiatrico. Anche l’alienazione più radicale, l’autismo, più chiuso, il paranoidismo più spinto, il delirio più schiodato, la dissociazione più sfacciata, racchiudono in sè anche se inespresso, soffocato o radicalmente camuffato o nascosto un messaggio. Lo psichiatra deve  accostarsi all’alienato anche con una dialettica dell’irrazionale in cui il medico affronta la problematica della propria angoscia. Quest’equilibrio delicato e precario, sul filo del rasoio, col continuo rischio di essere infranto, porta lo psichiatra ad una posizione essenzialmente ambigua, sempre problematica D’altro canto, pur di fronte all’emergenza dei sintomi psicotici di primo ordine, all’invasione dell’automatismo mentale e del pensiero xenopatico, al colpo di frusta della rivelazione delirante, dell’intuizione folgorante (Tua res agitur, di Hagen), permane, inconfondibile, lo stile della presenza paranoide, polimorfo ed equivoco, investente con i suoi perentori significati la realtà o tendente al nascondimento, al ritiro, comunque sempre con un’inequivocabile valenza di messaggio. Nella presenza paranoide l’alterazione psicopatologica più rilevante riguarda i significati logico-categoriali, che sottendono una donazione di senso, a volte data ab initio una volta per tutte, a volte lentamente ma inesorabilmente costruitasi (lo “sviluppo”, di jasperiana memoria), come nel “lavoro delirante” (Wahnarbeit) paranoicale, per es. di gelosia. Qui i recenti rilievi di Stanghellini e Ballerini (“Ossessione e Rivelazione” – 1992) mi sembrano fondamentali, anche perché mostrano limpidamente che il nostro tentativo di incontrare il mondo del delirante cozza contro la difficoltà massiccia di ricostruire proprio geneticamente i momenti costituenti di questo suo mondo, la sua è più narratologia che storia. Ad es. i rilievi che possiamo trarre dall’analisi della spazializzazione del paranoide sono solo indiretti, solo desumibili dal suo modo di incontrare o evitare gli altri, di fronteggiare determinate situazioni, di retrocedere di fronte a circostanze percepite come pericolo, tranello, trabocchetto. Ci imbattiamo dunque in una spazializzazione nettamente orientata, addirittura polarizzata. Qui non c’è posto per l’altro come socius; esso è il persecutore, da cui bisogna mantenersi a debita distanza, distanza che molto sovente è incolmabile.

A tal punto la polarizzazione della spazialità vissuta assorbe e cattura l’esperire del delirante da rendere impossibile il costituirsi e muoversi su altri parametri spaziali: basti pensare all’esperienza di “stato d’assedio”, al timore di quel che si cela dietro l’angolo o in quella sala cinematografica, per vedere come forse l’origine di tutto ciò non risieda tanto nella preesistenza della tematica persecutoria (come facilmente si ammette) quanto in una primariamente alterata progettazione spaziale. Vorrei ulteriormente sottolineare che quello che nel non-psicotico viene vissuto come avvertimento e messa in guardia, nel delirante paranoide e paranoico viene vissuto (cfr. anche M. Rossi Monti, nonché Clara Muscatello e paolo Scutellari ?) come un irrigidimento ulteriore in una direzione spaziale che è già pregiudizialmente tutta precostituita e scontata.

In altri termini, come si parla di overinclusion per l’assetto cognitivo del pensiero schizofrenico, così, partendo dal concetto di “mondo orientato” (tipico attributo dell’husserliana Lebenwelt), parlerei per il mondo delirante (paranoide e paranoico) di “sovraorientato”: nulla è lasciato alla possibilità del plurivoco, all’imprevidibile e al caso, e la pregnanza oggettuale è scontata nel suo significato, significato che avoca a sè ogni altra prospettiva (avvicinandosi così in modo davvero singolare al mondo del rupofobico; cfr. il fine apporto fenomenologico di L. Calvi).

Qui è opportuno ricordare anche il concetto di orizzonte (C.A. van Peursen, 1954) che convoglia ogni limite spazio-temporale delle situazioni, l’orizzonte che si situa sempre nella distanza davanti a noi, oltre ogni indicazione, che è riferito al corpo e al suo sguardo. Senza l’orizzonte l’esperienza del mondo è inimmaginabile, l’orizzonte è sempre oltre e non può essere ignorato, come invece può esserlo un oggetto nel mondo. E se, come dice suasivamente van Peurse, l’orizzonte è anzitutto distinzione fra interiorità ed esteriorità, ben si comprende come la Lebenswelt paranoide debba mostrare una profonda carenza di orizzonte, là dove tanto spesso i limiti dell’interiore vengono superati e cancellati (si pensi all’esperienza di influenzamento, alle voci interiori, al furto del pensiero, alla lettura del pensiero, all’onnipresenza dell’enigma), per cui vedere e essere visto, toccare ed essere toccato non vi sono più polarità distintive: le prospettive di dissolvono, la coerenza significativa si perde; in fondo, il paranoide non abita più, perché perde le prospettive a partire dalle quali ognuno ottiene il suo preciso “campo di visone”. In tal senso, proprio attraverso l’analisi della sua Lebenwelt (come hanno ben visto Ballerini e Rossi Monti, 1990, La vergogna e il delirio), ci è dato cogliere il pieno significato antropologico dello “sradicamento” (Entwurzelung, di J. Zutt), che si allinea alla perdita del limite (Entgrenzung) e alla perdita del sentirsi radicato e piazzato (Entbergung); quindi alla perdita della propria intimità, della propria dimora, del proprio nido nascondente. Qui, a mio parere, il dramma antropologico del delirante paranoide si svela appieno (una vera antropofania); egli ha perduto il “mondo comune” (il Mit-sein), per lui è svanito l’appello di un altrui nell’orizzonte: l‘autre, c’est l’enfer“. Il serrarsi del suo campo co-umano, il coartarsi del suo orizzonte, ne svela l’angoscia di base, quando ogni circostanza sembra estrometterlo da ogni progetto rassicurante di vita. le prospettive del mondo oggettuale vengono sempre spiazzate (dis-placed) e respinte oppure divengono invasive…e allora bisogna difendersi, magari attaccando fra sè e il mondo, nel delirante, viene a frapporsi una distanza che non è colmabile e ce, lungi dall’offrirsi come una spazialità di autentica salvazione, costituisce un radicale affossamento, rendendo la persona inaccessibile all’istanza alter-egoica. Alla mente di ogni psichiatra clinico si affollano innumeri esempi di ciò. E ancora: nell’ostendersi della Lebenswelt del delirante ci si imbatte in una modificazione significativa delle dimensioni temporali della sua presenza. Anche qui, temporalità over-orientata, con obiettivi fissi da perseguire, con nodi incombenti, in un’inserzione non-dialettica e non storica del mondo, che incombe o si estrania radicalmente (come nelle depersonalizzazioni allopsichiche, di cui mi occupai molti anni fa con Semerari e poi Felici).

Si può assistere persino ad una condizione peculiare di contaminazione spaziale della temporalità, vissuta come catastrofe incombente oppure come perdita dei limiti del proprio divenire (come accade nelle esperienze deliranti di eternità, spesso impregnate dal senso di colpa). Qui, nel processo di futurizzazione i l passato grava massicciamente e assume un incoercibile segno di indicazione di come il futuro debba delinearsi perché sia possibile evitare l’inatteso e l’imprevisto,denaturandolo così dei suoi connotati essenziali e consentendo, come ha detto Minkowski, memoria del futuro.

Nota: nel vecchio delirante domina la dimensione “nostalgica” dell’esistenza e non solo come semplice “ricordo delirante” (la Wahnerinnerung, di Hans Gruhle).

Questo peculiare modo di esperire la temporalità, proprio del delirante, informa la sua Lebenwelt in un modo che è da noi cognibile non tanto nel suo rapporto con le cose quanto nel suo rapporto con il mondo dei socii, degli “autrui”. Nell’incontro con la dimensione alter-egoica la situazione delirante produce diaframmi insormontabili per la dimensione dialogica per il Mit-einander-sein: l’altro ad es. lo psichiatra, è lo specchio del suo monologo, pura figura proiettata verso un futuro già scontato. La situazione del delirante è astorica; il suo è uno pseudodiscorso verso uno pseudo-altro.

Del pari va sottolineato, in questo mio tentativo di antropofania della “presenza” delirante, che la sua corporeità (Callieri, 1992) ci si mostra come divenuta radicalmente trasparente al senso di ostilità di cui si percepisce caricato sia il mondo che, in particolare, la configurazione mondana dei socci; fino a sentir ridotta la propria autonomia alla mercè degli altri, alla loro manipolazione (Butler, 1991): basti pensare a certi deliri di influenzamento, xenopatici, alle psicosi allucinatorie croniche, alle somatoparafrenie, alle dismorfofobie indotte (Phillips). I gradi di concretizzazione di tale intrudere dell’”altro” sono molto diversi, fino al delirio di possessione (Callieri, 1992, Yap, 1960), con annullamento totale della dimensione coesistentiva.

Nella tensione dialettica dei due poli dell’esser-corpo e dell’avere-un-corpo, si assiste qui ad un prevalente irrigidimento verso il polo dell’avere, fino a sfuggire alla propria disponibilità fungente, a sentirsene spossessati, divenuti “preda” o “bersaglio”:”mi fanno le onde, mi tormentano il petto con i raggi, mi “fanno le radiazioni alla testa, mi trafiggono col laser, etc.” con un’incredibile multiformità di sensazioni, aptiche, ottiche, uditive, cenestesiche. In tali condizioni (acerbamente sofferte e denunciate) sembra che la soggiacenza del proprio corpo agli altri sia l’unica possibilità di recepire l’”altro”, persecutore malvagio, carnefice raffinato e crudele. Allora la dimensione coesistentiva scade ad un mero e inane contrapporsi all’altro, al nemico, che viene vissuto orridamente come sempre più forte e invasivo, cui è impossibile sottrarsi e sfuggire. Al delirante (specie paranoide persecutorio) finisce per diventare impossibile anche il rifugio nell’anonimato: tutti sanno di lui, lo controllano, lo segnano a dito, lo spiano, locomandano, lo robotizzano, gli succhiano via la personalità ne invadono gli spazi più privati, in una vera “despazializzazione” (forse Zutt e kulenKampf avrebbero parlato di Enträumlichung). Qui la crisi dell’intersoggettività è kafkianamente radicale, non offre scampo, ed è impietosamente connessa alla crisi del “senso comune”, di quel tessuto, anche banale e scontato, anche deteriore che noi finiamo per accettare nella nostra pirandelliana “pena di vivere così”, nel nostro grigiore di riferimento all’esperire altrui.

In altri termini (il discorso è qui veramente inesauribile, come sono inesauribili gli accadimenti e gli avvenimenti), nel mondo vissuto (Lebenswelt) come è espresso e testimoniato dal delirante, anche tacitamente o mutacicamente, l’altro non può essere interiorizzato, come lo è invece in alcune esperienze sensitive (Kretschme) ma viene forzatamente e ineluttabilmente allontanato in una distanza (anche metrica) incolmabile; da tale distanza l’altro però, persecutore, costantemente torna a riproporsi come realtà ostacolante tanto più massiccia in quanto non può più essere ripreso nella sua interlocutorietà. Ogni volta che se ne ripropone la presenza, anche come aiuto ( si pensi a “Fuga nelle tenebre” di A. Schnitzler), si erge nel delirante il massiccio e implacabile impedimento di ogni riconfigurazione come “socio” (qui le spiegazioni psicoanalitiche sono divenute, in questi ultimi decenni, fecondissime – come ci ha fatta magistralmente intravvedere più volte Romolo Rossi).

Forse l’analisi ora abbozzata del delirante ci può far in parte comprendere (non certo “spiegare” – anche se oggi i due termini tendono epistemologicamente a convergere) la più intima ragione, direi la “ragione categoriale”, cui lo volge e lo consegna il suo Wahn-Sinn (Lenz), il suo esser-nel-delirio, questa smisurata (anzi proprio s-misurata) donazione di senso.

Per concludere, non vi è dubbio che queste massicce limitazioni dell’”incontro” con delirante ci fanno toccare con mano l’ambiguità fondamentale dell’essere-psichiatra (cfr. Cargnello, 1980), medico e human scietist, in un’ambivalenza che mi pare ineludibile e che mostra come sia difficile e forse proprio mistificatorio sostenere di poter uscire radicalmente dall’equivoco. Attualmente, malgrado l’affermarsi sempre più vigoroso dei progressi della psichiatria biologica, a me e a tanti cari amici sembra sempre più necessario coltivare nella formazione dello psichiatra, accanto al binomio mente-cervello, la passione per l’esistenza (come già dicevo in altro contesto): è una vera “paideia”, una formazione, una Bildun, che esige l’affinamento delle dimensioni coesistentive, la “svolta” antropologica, svolta che si concretizza nella disponibilità, nel bisogno di empatia, in un certo grado di oblatività, in un atteggiamento di tolleranza e di accettazione dell’”anormale” nell’altro e di riconoscimento in esso della qualità di “presenza”, superando,a nche solo in piccola parte, il proprio narcisismo. 

 

Uno Nessuno Centomila

 

 “L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E’ forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, nè voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.

Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà  per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto”, [Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, , ed. Mondadori, 1969, pp.59/60] L’estremo relativismo riguardo la costruzione, la comunicazione e l’immagine di sè per sè e per gli altri, è di Vitangelo Moscarda, protagonista di uno delle più celebri opere di Luigi Pirandello, scritta nel 1925 (ma il suo inizio data 1909) e pubblicata a puntate sul settimanale “La Fiera letteraria” nel 1926, “Uno, nessuno e centomila”; ultimo romanzo del grande scrittore siciliano, esso è anche uno degli esiti più rivoluzionari della narrativa del ‘900.
Nessuno per sé, in quanto l’io è fondamentalmente essere-per-l’altro, il protagonista è contemporaneamente uno per quanti sono coloro che si mettono in relazione con lui e costruiscono la sua immagine, e dunque altri centomila. Costruire se stessi e la propria immagine, questa sara’ ricevuta per quanti sono coloro che si metteranno in relazione con quell’immagine: cio’ dimostra si’ la relativita’ della relazione, ma l’assolutezza della comunicazione: e’ impossibile non solo non comunicare (Watzlavick), ma e’ impossibile non comunicare la propria immagine (forma) seppure questa possa non coincidere con l’io vero della propria personalita’ (sostanza) [vedi dialettica io/me e il concetto di role-taking (Io Psicologico) di G.H.Mead]  Eppure Pirandello parte da un altro assunto filosofico: è impossibile comunicare, l’uomo è destinato alla solitudine: “Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.”
L’unica strada per superare la chiusura della soggettività è essere consapevoli della relatività dei giudizi; ma, appunto, la solitudine e la chiusura in sé, assolutizzati, porterebbero ad occludersi ogni via di conoscenza, seppure costituirebbero la vera libertà. Il che sposta l’assunto pirandelliano, dall’incomunicabilità alla comunicazione e relatività comunicativa come via alla conoscenza.
D’altra parte lo stesso protagonista, Vitangelo Moscarda, attua la salvezza dalla razionalità attraverso il suo pieno inveramento (decidere di essere l’uno/nessuno di se stessi senza curarsi delle centomila immagini diverse, distrugge le relazioni così come esse si erano maturate nel corso dell’esperienza esistenziale, porta alla libertà ma lo conduce al mendicio). E, in definitiva, anche la riconquistata riappropriazione del proprio essere, a seguire Pirandello, porterebbe ad un’altra immagine per gli altri, mai concidente con la propria vera. “ ‘Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo, che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no’, E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.” [pag.21/22]

 

             Le Psicoterapie

Si potrebbe dire che la psicoanalisi e le psicoterapie in genere consentono di acquistare la consapevolezza di parti di noi che in primis ignoriamo, successivamente nel riconoscimento/ riscoperta di queste parti comprendiamo che sono illusorie e questo ci consente di abbandonarle, ma in pratica sono loro che abbandonano noi perchè ormai svuotate di energia.

Le parti di noi non riconosciute posseggono un’energia che staziona lì per consentirle di continuare ad esistere, di restare in  piedi; quando le riconosciamo e ne prendiamo coscienza, nella loro riscoperta,  ritorna in noi quell’energia che le sosteneva, una volta riconosciuta l’illusione di un’idea, di uno status, l’energia che le sosteneva le abbandona e loro vengono meno.

Il termine psicoterapia mette spesso fuori strada, perché questo vocabolo lascia intendere un intervento rivolto a tutte le alterazioni psichiche.  Infatti dal punto di vista linguistico psicoterapia, o terapia della psiche, allude a interventi per ogni genere di  malattia psichica, compresa la schizofrenia, l’autismo, etc. 

Questo equivoco comporta due malintesi:  il primo è  ritenere la psicoterapia, nel senso di terapia con la parola, sia valida per ogni  forma di alterazione mentale (una superficialità nella quale sono caduti illustri clinici);  il secondo,  di conseguenza,  è l’essere rifiutata da  persone che, avendo disturbi di carattere esistenziale, non si affidano ad essa perché  impaurite di vedersi appioppare il marchio di malati mentali.         

Per focalizzare meglio le opportunità connaturali alla terapia psicologica,  bisognerebbe utilizzare un  vocabolo che renda chiaro di che intervento si tratti. Tale termine potrebbe essere proprio terapia della parola cioè  trattamento terapeutico per mezzo della  parola.

In realtà è proprio di questo che si tratta: lo specialista  ascolta ciò che il paziente dice e grazie a queste “confessioni” riesce a ricostruire l’eziologia dello “stravolgimento” che opera nelle credenze, negli stati d’animo, nelle  preferenze e nei comportamenti del paziente.   

La terapia della parola è adoperata  nei casi in cui le alterazioni  e le distorsioni nel ragionamento del paziente sono dovute ad uno scorretto stile di vita, a traumi emotivi subiti, a pressioni socio culturali,a una educazione sbagliata,   che lo hanno allontanato dalla realistica e  corretta interpretazione della sua consistenza psichica interna  e della  realtà esterna.  

In questi casi, e solo con  queste condizioni, la psicoterapia clinica, se ben trattata,  riesce a trasformare la disperazione in serenità.

Ogni individuo ha una rappresentazione del mondo che deriva da una messa a fuoco con modelli appresi nell’infanzia, o, in seguito, in occasione dei vari avvenimenti della sua vita.  Questa rappresentazione del mondo determina in larga misura le scelte, i sentimenti, gli stati d’animo, le convinzioni e i comportamenti del soggetto.

Se questi filtri con i quali il soggetto vede  il mondo sono poco realistici, si costituiscono convinzioni e stati d’animo che cozzano quotidianamente con la realtà e determinano angosce e incapacità di “manovrare”  correttamente la propria vita.

Così come un capitano di nave che ha la bussola inesatta,  non potrà mai raggiungere il porto desiderato, così il soggetto la cui “bussola psicologica” è starata non  potrà mai raggiungere il programma di vita più utile.  

Ognuno di noi sviluppa dentro di sé in base alle vicende della propria  storia personale rappresentazioni mentali della realtà che creano  mappe e modelli di vita con valore orientativo; ma  se queste rappresentazioni del reale sono state distorte da esperienze traumatiche,  le opzioni, le scelte, i comportamenti del soggetto saranno in conseguenza limitate e incapaci ad adeguare l’individuo alla vita quotidiana.

Se le mappe di orientamento della realtà, se i modelli d’interpretazione della vita, non hanno una base realistica, la messa a fuoco della realtà sarà limitata e, di conseguenza,  inopportune saranno  le scelte che farà l’individuo la cui “vista psicologica” è carente.

Spesso il soggetto ha una immagine del mondo che deriva da una  miope e  limitata visione della realtà, e di conseguenza egli si “muove” nella vita con molta difficoltà a causa della sua miopia psicologica.

Questa situazione riduce di molto le scelte e le opzioni psicologiche del soggetto, e se le sue aspettative e le sue realizzazioni sono limitate da filtri  e da modelli  errati, gli cerano, di conseguenza,  disagio e sofferenze.  

L’intervento del terapeuta in questi casi è utile perché introduce nei modelli e negli schemi mentali dei pazienti  cambiamenti che servono a migliorare il tipo di argomentazioni psichiche,  a dare una visione più realistica della vita, ad ampliare e ad arricchire i modelli  tanto da rendere la rappresentazione della vita più ricca e più degna di essere vissuta.         

 

 

La sofferenza esistenziale

Quando, a causa di esperienze negative,  si impiantano nel soggetto modelli e mappe sbagliare della realtà, la sua vita è inevitabilmente preda della sofferenza psichica

La qualità della vita di un individuo dipende da vari fattori: dalla  configurazione genetica, dalla costituzione fisica, dalla educazione ricevuta, dalla personalità di chi ha educato il soggetto nella infanzia e nell’adolescenza, dagli eventi che hanno solcato l’esistenza dell’individuo e dal modo che egli ha  di porsi nei confronti del mondo e di se stesso.

Chi non riesce a fronteggiare  i problemi quotidiani, chi si sente disadattato,  indeciso,  fallito; chi è devastato da istinti asociali e violenti, e  non riesce ad amare e a farsi amare, il più delle volte ha disturbi comportamentali dovuti agli imprinting educativi e culturali ricevuti. «Nevrotico, afferma Anaïs Nin, è colui che interpreta tutti i fatti come se congiurassero contro se stesso».

La nevrosi infatti si manifesta con una scarsa adattabilità a vivere una esistenza equilibrata, e  ciò senza che motivi esterni evidenti possano indurre il soggetto a crucciarsi di qualcosa in particolare.

Il disadattamento alla vita quotidiana e l’incapacità di viverla serenamente  si può manifestare in varie forme che possono però essere sintetizzate in tre gruppi principali:  

La disfunzione emotiva più infantile, grezza e ingenua è il bisogno inarrestabile e incontenibile di affermazione del proprio Io. Questo atteggiamento, dovuto a precedenti ferite narcisistiche sofferte quasi sempre nell’infanzia o nella prima adolescenza, si concretizza in un continuo bisogno di auto incensamento   e in una persistente insoddisfazione. La necessità continua di “fare bella figura” e di mostrare agli altri le proprie superiori qualità si manifesta con un comportamento  sfrontato, col quale il soggetto pretende sempre di primeggiare e con una grossa dose di improntitudine. Questi atteggiamenti sono caratterizzati da un narcisismo debordante che ha origine sia dalla sproporzionata attenzione che gli  adulti hanno avuto verso di lui quanto il soggetto era bambino, si anche da una serie di frustrazioni che il soggetto ha avuto nell’infanzia.  Nell’uno o nell’altro caso, il narcisismo viene soddisfatto dal soggetto con l’attirare  l’attenzione degli altri e piegarli al proprio volere.

La  seconda disorganizzazione psicologica, che impedisce a una persona d’avere una vita serena, è la cavillosa e persistente ripetitività con la quale il soggetto sente il bisogno di reiterare atteggiamenti e comportamenti e di richiamare continuamente alla memoria idee e convincimenti per appurare se li ha utilizzati “alla perfezione”. Il soggetto affetto da questa ansia di puntualizzazione, a differenza dal precedente, il quale non ritiene mai di sbagliare, è sempre preoccupato di avere commesso degli errori e nel contempo è anche tormentato dall’idea che possano commetterli gli altri. Questo continuo bisogno di perfezionismo e di controllo deriva al soggetto da un’esperienza infantile trascorsa con  educatori che gli hanno imposto continue e assillanti pignolerie. Tuttavia questo secondo tipo d’atteggiamento è il prodotto di una organizzazione psichica più avanzata della precedente, nella quale il soggetto ricerca solo la stima degli altri senza curarsi che sia o meno meritata.

In fine, l’ultima incapacità a vivere una vita serena si manifesta con una sopravvenuta impossibilità di accettare la quotidianità, anche se essa non è del obbiettivamente  invivibile, e con la conseguente, cronica insoddisfazione che non dipende da fattori obbiettivi esterni, ma  da una incoercibile incapacità di adattamento ai fatti della vita assieme a una perdita progressiva di ogni interesse per qualsivoglia avvenimento, idea, affetto. Questo atteggiamento mentale manifesta tuttavia una organizzazione psichica meglio articolata delle due esaminate in precedenza, ed è frutto di una visione meno elementare della vita.

Infatti, è frutto di maggiore consapevolezza  di quanto ne abbia la prima struttura ed ha un atteggiamento meno ostinato di “perfezione” di quanto non ne sia portatrice la seconda. Questa terza struttura psichica è soprattutto dovuta alla perdita d’interesse per la vita, in un soggetto che, nella prima parte della sua esistenza ha ritenuto, a torto o a ragione,  poter raggiungere mete molto elevate.    

Questi tre tipi di “atteggiamenti mentali” derivano quasi sempre da una inadeguata e imperfetta “iniziazione” alla vita che familiari ed educatori incapaci hanno trasmesso al soggetto quand’era in gioventù.  

L’individuo educato in maniera difettosa nell’infanzia, da adulto si mostra quasi sempre incapace di ponderare le cose con buon senso e di agire in maniera  adeguata e ragionevole. Soprattutto chi non è abituato ad accettare razionali innovazioni sia nel proprio pensiero che nel proprio stile di vita, non può ottimizzare la propria esistenza, perché è spesso aggrappato a convinzioni che lo inducono a comportarsi e a pensare in maniera irrazionale e priva di perspicacia realista.  L’affermazione di sé può essere un fatto positivo ma le relative distorsioni sono un fattore di rischio. Ogni essere vivente cerca di affermarsi sugli altri. Dal gradino più basso a quello più alto della scala naturale, si tratta di un atteggiamento utile per la sopravvivenza. Chi non cerca almeno in minima parte di affermarsi, rinunzia alla propria individualità e talvolta viene  travolto ed annullato dalla massa. In quanto agli esseri umani, l’affermazione di sé è imprescindibile ed  ha ormai raggiunto un carattere particolare, sofisticato, culturale. Il genio artistico  afferma il suo sé tramite le proprie opere, il politico lo afferma tramite l’agone e nell’espletamento della ragion di stato, il religioso afferma il proprio sé nell’orgoglioso rapporto col proprio dio, il dittatore  si afferma  imponendo ai sudditi il culto della propria persona.  L’innamorato afferma il suo sé, facendosi amare dalla persona amata. Ma, a seconda della strada che s’intraprende per l’affermazione di sé, questo tentativo può essere inoffensivo o estremamente pericoloso.

Spesso chi segue pregiudizi duri da eliminare, non può avere  cambiamenti nella propria  prospettiva mentale, sociale e culturale, anche se queste innovazioni  potrebbero essere utili per sollevarlo dalle  reazioni d’ansia. Infatti una situazione di stallo psicologico impedisce al soggetto il miglioramento della qualità della sua quotidianità.

Per far fronte a questo genere di  difficoltà  psicologiche bisogna fare coraggiosamente  luce sulle origini della incapacità a modellare la propria vita in modo tale da raggiungere un certo  benessere psichico quotidiano.

L’eterno indeciso, il timido, l’angosciato, il portatore di ferite narcisistiche,  l’ossessionato da paure e dilemmi, colui che ha paura della gente, lo sfiduciato, l’insicuro, chi è incerto nell’approccio con l’altro sesso,  devono comprendere  l’origine delle loro disfunzioni per fronteggiarle.

Ovviamente, non è facile rendersi conto che idee e comportamenti aberranti sono dovuti al modo come vediamo le cose e gli altri, e che questo dipende  dal filtro del pregiudizio, dai luoghi comuni  e dai  tabù che  formano un corazza di manie, di rituali, di  prevenzioni e inibiscono l’obbiettività.  Con simili handicap è facile intuire che è poco probabile  una visione serena e meno complicata della vita.

L’handicap più grave è l’immaturità psicologica. L’adulto con personalità acerba s’indispettisce, s’affanna, si dispera;  incapace di venire fuori dal ginepraio dei suoi problemi  come il pulcino quando è impigliato nella stoppa.

Solo la personalità matura  interpreta e affronta la realtà  in maniera  corretta e con una certa  flessibilità.  Altrimenti è difficile  l’inserirsi nella quotidianità, e si è preda di indecisioni, insicurezze, sospettosità fur di luogo, frustrazioni.

Allora per migliorare il rapporto col mondo e con se stesso bisogna cambiare atteggiamento mentale. E tuttavia il cambiamento è tanto più difficile quanto più l’Io è fragile e insicuro.

In questi casi il cambiare  consuetudini e  percorsi mentali consueti  è avvertito come  una minaccia per  l’instabile struttura dell’Io faticosamente puntellato  da tabù e luoghi comuni.

Chi  vive del beneplacito sociale è  vulnerabile. Sottomesso alle convinzioni  e non riesce ad essere critico verso di esse, perché teme che così facendo  mettere in gioco la propria stabilità emotiva.

Per venir fuori dalle angosce della quotidianità, bisogna intervenire sull’educazione ricevuta nell’infanzia e nell’adolescenza. Infatti, l’acquisizione di norme non adeguate ad una serena visione della realtà,  causa  disagi psicologici.  Ma abbandonare ciò che si è ricevuto del passato causa  difficoltà  di adattamento al nuovo panorama di vita.

Nel corso della terapia imperniata sul dialogo possono insorgere delle resistenze a cambiare mentalità. Chi malgrado l’età adulta è  ancora psichicamente dipendente dai genitori o quanti, durante l’infanzia,  hanno indebolito le sue capacità di autonomia psicologica,  malgrado “stia male col suo  modo di fare” si sente sicuro solo se mantiene lo status mentale appreso nel passato;   ogni cambiarlo gli da la sensazione di un pericolo maggiore della stessa angoscia provata con i suoi disturbi dell’umore.

Solo dopo un  lasso di tempo in cui il soggetto confronta le proprie idee con quelle più  ponderate del terapeuta, e  quando subentrano in lui riflessioni, confronti e nuove istanze. Solo chi ha indebolite o cancellate le resistenze, ed è cosciente che si sta opponendo alla cura, raggiunge un miglioramento. A quel punto si rende conto che i disturbi che lo assillano sono dovuti ad atteggiamenti e scelte  irrazionali.  Ciò gli permette di modificare e cambiare prospettiva mentale, adeguandola il più possibile alla realtà.

Quando il soggetto capirà che  alla base della propria cultura esistenziale stava una valutazione dei fatti della vita dovuta al filtro dell’umore e non con quello della ragione, si renderà conto che la propria mentalità si è basata su credenze irrazionali, su principi e convinzioni prodotti da emozioni e da sentimenti distorti, piuttosto che dalla ragionevolezza. Comprendere finalmente di avere accettato e ritenuto alcune verità  come fondamentali e  indiscutibili  mentre erano solo dovute all’emotività, ai bisogni emozionali e alla suggestione, fa conseguire  una visione più serena della vita.

Non sempre purtroppo le opinioni sono sottoposte al vaglio della ragionevolezza, sfuggono ad essa soprattutto quelle influenzate dalla perturbabilità affettiva e dalle passioni, sicché vengono  accettate come logiche  conclusioni  guidate solo dai sentimenti,  da giudizi irrazionali e da pregiudizi.

L’intelletto infatti non è indifferente alle ragioni del cuore e alla ipersensibilità alle emozioni.

 

Quando il ragionamento  non è obbiettivo.

Stabilire come e quanto i percorsi del ragionamento del paziente dipendano da alterate strutture neurologiche o dall’influenza di condizionamenti e pregiudizi è la sfida fondamentale della psichiatria e anche di molte altre branche della ricerca:  dalla biochimica alla neurologia alla sociologia.  Intervenendo con rimedi farmacologici sempre più appropriati e lavorando in modo che  il paziente modifichi il suo copione di convinzioni e di credenze fuorvianti,  è possibile  aiutarlo a cambiare le strategie del suo modo di ragionare  e a migliorare  la qualità della sua esistenza quotidiana. 

Nella valutazione dei fatti e delle condizioni quotidiane della vita,  vengono utilizzate a volte procedure non obbiettive.

Ecco alcune che falsano la visione imparziale:

La proiezione. Con essa il soggetto attribuisce agli altri sentimenti, propensioni che invece  gli sono propri.

La  razionalizzazione  fa ritenere valida una opinione o una conclusione che non è frutto di un percorso obbiettivo ma di un desiderio, di una paura, di un sentimento. Con essa il soggetto dà per vero ciò che invece è solo desiderato come vero.

La  identificazione è una modalità di pensiero con  la quale si crede di avere capacità che  invece si riscontrano negli altri.

Il narcisismo è una pulsione che fa aspirare alla super valutazione del proprio Io. Una persona narcisista non ammetterà imperfezioni nel proprio comportamento, nelle proprie scelte, nella propria persona,; il tutto a discapito della obiettività del suo modo di ragionare.

L’idealizzazione è una modalità mediante la quale una persona, un oggetto, un comportamento sono ritenuti senza difetti,  indipendentemente che lo siano obbiettivamente.

Inoltre alcune considerazioni sulla vita non sempre sono obbiettive perché tabù, proibizioni, pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni ne condizionano la veridicità.

Spesso il terapeuta scopre che il cliente ha “cancellato” buona parte delle opzioni che la vita  riserva, ed è rimasto chiuso in un ambito molto limitato.  In questi casi il modello di vita  che il soggetto ha in mente è povero, senza sbocchi, senza scelte sufficienti. La strategia del terapeuta in questi case deve spingere il soggetto a capire meglio la realtà e a tendere a  creare un più vasto orizzonte che arricchisca  il suo modus vivendi . Per far questo il terapeuta spinge il paziente  a cercare  i motivi che lo  hanno indotto a impoverire la sua visione del mondo, a cancellarli, arricchendo così la sua vita di altre opzioni. Il recupero di più vaste esperienze di vita serve  a sbloccare comportamenti che si erano arenati  in strettoie che rendevano la quotidianità del soggetto soffocante e dolorosa.

Poiché il paziente spesso si rifiuta di operare questo allargamento della visuale del mondo, sia perché è impaurito sia perché non riesce a vedere quali vantaggi può avere ampliando il suo orizzonte, il terapeuta deve influire con  parole e ragionamenti appropriati  a sboccare la paralisi psichica che condanna il cliente alla insoddisfazione di sé. 

La terapia  riesce quando  porta  nella mente del cliente un cambiamento del modello del mondo, una più realistica visione della realtà, un migliore apprezzamento di opzioni psichiche prima rifiutate dal soggetto.  Per arrivare a questo il paziente deve     rendersi conto che le sue scelte sono limitate e riduttive, il suo punto di vista è parziale, e che la sua vita può migliorare se egli si spinge in un  terreno psicologico  più modulare  e con più scelte.  Aiutare il cliente a comprendere che ha cancellato buona parte delle proprie possibilità, che si è  autocastrato, che ha ridotto il proprio modello di vita ai minimi termini, significa rimettere in lui  in moto la speranza che la propria vita, con i nuovi parametri,  sarà  più degna di essere vissuta.  

Spesso il disagio psichico è prodotto da una serie di traumi che inducono il soggetto a generalizzare troppo gli eventi negativi, oppure la marcata generalizzazione serve a nascondere ben più profonde angosce.

Una donna afferma che alcune esperienze negative l’hanno indotta a farle  ritenere che “tutti gli uomini” sono inaffidabili, e, di conseguenza, a  rifiutare l’approccio con l’altro sesso.   Questa dilatazione e generalizzazione  di  eventi negativi può essere anche un sintomo di una più profonda e nascosta paura: la persona che dice di  ritenere tutti gli uomini inaffidabili,  può nascondere (coperta da questa giustificazione più “accettabile”) un più profondo disagio, e  rifiuta di mettere a fuoco, perché per lei più angoscioso, il vero problema del rigetto del maschio. Il  compito del terapeuta è aprire la strada alla comprensione di questo secondo e più profondo disagio, al quale la donna sfugge per paura di rimanerne destabilizzata. Alla donna in questione  fa più comodo, infatti, comportarsi in conseguenza delle proprie congetture e non affrontare il livello più profondo della comprensione di sé. 

 

 

 

 

I sogni

 

 Pare che sia la parte meno evoluta del cervello che ci fa fare i sogni più strani   con  creature bizzarre ed  eventi improbabili. Come spiegare ciò che accade nel nostro cervello quando dormiamo? Un tema, questo, sul quale si sono concentrati gli scienziati del Centro ricerche di Neuropsicologla della Fondazione Santa Lucia di Roma, guidati da Fabrizio Doricchi, docente di Psicologia dell’università La Sapien­za, e del Laboratorio europeo di neuro­scienze dell’azione diretto da Alain  Berthoz del College de France di Parigi. Fra i tanti misteri che ancora awol­gono il processo onirico ci sono le in­congruenze spazio-temporali, le biz­zarrie e i movimenti degli occhi, defini­ti Rems (Rapid Eye Movements), che compaiono nelle fasi di sonno con i so­gni più vividi.

Gli studiosi si chiedono da tempo se questi movimenti degli occhi nel son­no sono uguali a quelli effettuati du­rante la veglia e se corrispondono a ciò che vediamo nel sogno.

Le risposte arrivano proprio dallo studio italo-francese, che ha dimostra­to l,esistenza di tipi diversi di Rems, la corrispondenza tra la direzione di que­sti movimenti e quella degli eventi visi­vi nel sogno e la coincidenza di alcuni tipi di Rems con i movimenti oculari della veglia. Non solo. Alcune stranez­ze dei sogni umani troverebbero una spiegazione nel fatto che durante il sonno si attivano in modo ordinato so­lo le parti più antiche del nostro cervel­lo, ma non i settori che si sono evoluti più recentemente, quelli che nella ve­glia consentono alle nostre facoltà mentali un corretto orientamento nel­lo spazio e nel tempo.

Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato il caso di un paziente con una lesione cerebrale dell’emisfero destro che aveva perso la capacità di seguire con gli occhi gli sti­moli che si muovevano lentamente da sinistra a destra, mantenendo intatta quella di seguire gli stimoli in direzione opposta.

 

 

Il disagio di vivere  e il rimedio   farmacologico

Non sempre esistono condizioni per un obbiettivo percorso mentale razionale. Certe evidenze, sono inquinate da motivi emozionali, e per ciò non sono sempre esaurienti. L’autodiagnosi di un disturbo nevrotico è soggetta ad interpretazione  personale arbitraria e ritenuto magari una malattia corporale. Parenti e  amici avvalorando l’ipotesi che il disturbo  psicologico, che non è altro se non una  modalità di fuga, sia invece un malanno fisico.

A influenzare in modo decisivo la medicalizzazione in qualche caso contribuisce anche il medico di base, il quale,  per mancanza di tempo da dedicare al paziente, gli fornisce per sedare i disturbi psichici  la terapia farmacologia la quale  riduce ulteriormente la capacità del malato di ammettere che il suo malessere ha origini esistenziali e non fisiologiche. La medicalizzazione consente al malato di eludere la etiologia del disturbo e la terapia farmacologia può apparire sulle prime  come  una panacea.  

L’azione del farmaco, controllando e regolando il tono dell’umore, frena l’ansia e consente di ridurre l’angoscia. Ma la temporanea attenuazione della sintomatologia impedisce un intervento profondo che metta in discussione la situazione esistenziale del soggetto.

L’assuefazione al prodotto farmacologico ne sollecita la prescrizione di un nuovo, si allontana sempre più la possibilità che il paziente  rifletta sui suoi casi “senza la rete farmacologia” e vagli il suo cammino esistenziale.

Dopo avere eliminato le convinzioni e i tabù che hanno condizionato il mondo di pensare, e dopo avere cambiato in conseguenza  stile di vita, il disagio esistenziale espresso in termini di mali fisici o  di  depressione e/o di angoscia si attenua in maniera consistente.

Se la prospettiva farmacologia impedisce che disagio e sofferenza psichica vengano presi in esame anche sotto l’aspetto esistenziale, la sofferenza  psichica interpretata solo come   malessere “corporale” ha difficoltà a cessare.  

Infatti se l’intervento terapeutico rimane  al solo livello farmacologico, le lacerazioni interiori che assillano non vengono prese in considerazioni e si radicalizza sempre più l’idea della organicità del malessere. Una spirale questa che non ha sbocco se non sopravviene una interpretazione sociologica dell’eziologia del malessere.     

 

Il contatto con i  problemi del paziente

 

Pur non essendo l’unico modo di trattare i disagi emotivi,  la terapia psicologica  è una strategia che rende possibile l’approccio col disagio esistenziale nella maniera più esauriente.

Con una serie di colloqui franchi e senza pregiudizi, che mettono a poco a poco  il soggetto a suo agio e facilitano l’esposizione della sua sofferenza psicologica, egli stesso  può, in un  lasso di tempo ragionevole, mettere a fuoco le insoddisfazioni fondamentali e le difficoltà che sommergono la sua esistenza quotidiana.

Scopo dei colloqui e dell’interscambio di riflessioni tra il terapeuta e il paziente non è tanto quello di risolvere un problema particolare, quanto di aiutare chi è in crisi a “crescere” affinché possa risolvere non solo quel problema ma gli altri che si presenteranno nel suo cammino. Il dialogo terapeutico  non deve convincere il paziente a fare o a pensare qualcosa: deve suggerire come pensare, non a  cosa pensare. Con la psicoterapia  si prende coscienza della radice dei propri dilemmi, si impara a capirsi e a compiere in maniera autonoma le scelte di vita.

Poiché  il malessere psicologico  è   problema che non  ha solamente radici  nella personalità del singolo,  ma anche nel complesso delle relazioni con l’ambiente, non è possibile isolare i disturbi psicologici e non prendere in esame il contesto in cui sono sorti.  La psicoterapia studia dunque anche i processi che coinvolgono il singolo nelle relazioni interpersonali. 

 

 

Valutazione e interpretazione del disagio psicologico

Non è semplice distinguere lo stato di  normalità da quello di disturbo psichico,  il disturbo lieve da quello in cui le anormalità producono angoscia nel malato. Sentimenti di dolore, paure, frustrazioni, ostilità e autorimproveri fanno parte del bagaglio quotidiano della persona “normale”. Spesso  i punti di riferimento del malessere psichico si individuano in alcune manifestazioni infantili che si riscontrano nell’adulto. La insistente paura della perdita dell’oggetto d’amore o la rabbia dovuta alla frustrazione del sentimento di onnipotenza infantile mettono in evidenza un adulto debole e incapace di tollerare frustrazioni.  

Una “diagnosi differenziale” tra  disagio psichico e temporanea perturbazione emotiva si può stabilire con sufficiente adeguatezza.  Se le crisi psicologiche che il soggetto incontra  sono il  risultato di una temporanea difficoltà, cambiate le condizioni di vita e di pensiero, il soggetto rientra nella normalità. Se questo passo è difficile o impossibile da attuare, ciò qualifica e quantifica  la gravità delle perturbazioni emotive alla base dei disturbi del paziente.

A parte qualsiasi discorso sui fattori “predisponenti”,  c’è una sostanziale difformità tra la paura che assale il soldato durante una azione di guerra e un improvviso attacco di panico che affligge un soggetto seduto comodamente al cinema. C’è  differenza tra lo sgomento che assale chi si trova in un aereo in difficoltà di atterraggio e un individuo che viene  colto dal terrore ogni qualvolta  entra in ascensore. C’è evidente sproporzione tra la paura di chi si trova improvvisamente davanti a un leone e di chi è terrorizzato dalla presenza di un ragnetto o di uno scarafaggio nel muro della propria casa.

A volte il disagio psicologico  si manifesta sotto mentite spoglie, e può essere equivocato.

Una meticolosità incessante, un’eccessiva cura del proprio corpo, l’attenzione  smodata alla pulizia, l’apprensione sproporzionata, un tipo di bontà che rasenta la tendenza alla sottomissione, la leziosa accondiscendenza, una debordante socializzazione, l’esagerato controllo della parte sana  della propria aggressività, la pudicizia strabocchevole, e l’essere benefattore  sono considerate qualità sociali apprezzabili.

In realtà nascondono una illibertà  comportamentale dovuta ad  angosce e difficoltà emotive. La meticolosità può nascondere paura di decidere, controllo ossessivo, l’eccessiva cura del corpo sentimenti di “immoralità” e di peccaminosità, lo stesso dicasi per  il bisogno eccessivo  di pulizia e la pudicizia strabocchevole sono tipiche di chi “si sente sporco moralmente” ed ha paura della propria sessualità debordante, l’accondiscendenza eccessiva può nascondere un complesso d’inferiorità, dietro la bontà indiscriminata può esservi la paura degli altri o della propria aggressività, la socializzazione eccessiva può nascondere un bisogno di essere accettati esigenza che deriva da sentimenti di insufficienza e dalla paura della solitudine, l’esagerato controllo della aggressività il timore che,  se non è carcerata l’aggressività, possa assumere un ruolo  preminente e fare allontanare gli altri. Infine, persino il bisogno di fare della beneficenza può in casi estremi nascondere un bisogno, più o meno conscio, di essere perdonati.      

In qualche altro caso all’inverso, la società frettolosamente etichetta negativamente comportamenti che dipendono da condizioni psicopatologiche catalogandoli e li stigmatizza con una valutazione etica piuttosto che psicologica.

Tra queste condotte negative sono annoverate la  vocazione alla seduzione sessuale, il marcato narcisismo, l’aggressività, la sospettosità indiscriminata, l’egocentrismo ottuso e gretto, l’invidia meschina,  tutti comportamenti adottati da chi è in crisi di autostima, e che ha bisogno di  risposte consolatorie. Infatti, la seduzione esagerata e assillante nasconde un grave senso d’insicurezza: la persona che cerca di sedurre a tutto raggio cerca di testimoniare a sé stessa che, contrariamente alla propria insicurezza,  ha buone capacità per attrarre. Ogni conquista è la prova che la propria immagine non passa sotto silenzio. Il narcisismo è specularmente il segno di una grave insicurezza: più una persona si sente impacciata e inconsistente e più pretende di essere considerata   affascinante e splendida. L’egocentrismo è il sintomo più evidente di un infantilismo psicologico: l’adulto egocentrico si comporta ancora come un bambini viziato e nel suo orizzonte non ha altro che i propri problemi, mentre ignora quelli degli altri, anche se pretende che tutti lo accudiscano.  L’aggressività dissennata sottolinea un disagio e una incapacità del soggetto di sopportare qualche disagio in vista di un traguardo più importante. Infondo anche in questo caso si tratta di una copia delle reazioni tipiche che si riscontrano nel bambino  infuriato  che non riesce a contenere un minimo di disagio. L’invidia è anche il campanello d’allarme di un animo che sta franando, che non ha alcuna fiducia in sé e che riesce a riequilibrare la propria disistima credendosi “furbo” per paura di non esserlo.

I comportamenti del primo tipo come quelli del secondo tipo fronteggiano pertanto gravi forme di autodisistima e sono messi in  atto per scuotere gli altri e far convergere il loro interesse su chi è affetto da disistima.

In passato, chiunque riteneva essere idoneo a individuare  gli stati psichici alterati. Ciò ha creato un tipo di diagnosi “fai da te”. Questo modo di procedere ha lontane radici: un tempo la diagnosi  di alterazione psicologica era messa a punto in primo luogo dai parroci i quali, raccogliendo durante  la confessione  apprensioni, desideri, intenzioni e ossessioni dei parrocchiani,  giudicavano quali di essi fossero affetti da stati morbosi tanto da proporre l’internamento in un istituto per malattie mentali di chi manifestava  idee “patologiche”.

Erano oggetto di valutazione negativa le paure dovute a specifiche tipologie di animali, gli eccessivi scrupoli connessi alle pratiche di culto e i discorsi e le argomentazioni ritenuti contrari all’ortodossia religiosa, il racconto di possessioni, la narrazione di libertinaggi e di particolari fregole sessuali, di pensieri  scandalosi per la morale corrente,  condannavano chi svelava tali tormenti  in  confessione ad essere etichettato “insano di mente” e gli  aprivano la strada al suo ricovero in manicomio.  Ogni particolare società valuta alcuni modi di fare apprezzabili e altri “irregolari”. Per tal motivo vengono considerati aberranti in un contesto sociale modi di fare e di pensare che non sono conformi al segmento “di normalità”  apprezzato in quel determinato ambiente. È il comportamento del gruppo che costituisce  la norma.

Oltre ai parroci, in passato,  la diagnosi di “alienazione” proveniva dai giudizi delle padrone di casa, che le formulavano per le loro domestiche, dai datori di lavoro che le sollecitavano nei confronti di chi era impiegato nella loro azienda. Tutta gente che richiedeva per i sottoposti, da loro considerati “alienati”, misure restrittive le quali in pratica si concretizzavano nell’internamento delle persone che avevano giudicate  psicologicamente alterate. 

In passato, si pensava che i disagi psichici potessero essere attuati mediante il soffocamento delle idee ansiogene del paziente, mediante il dominio che era in grado di esercitare sul malato  il medico o il curato. Lasciando intatte le ideologie che avevano provocato il disturbo, essi si adoperavano, col loro carisma, a cercare di fare cessare la catena delle idee patogene mediante “l’autorevolezza” della loro personalità.

Il nuovo modello di cura dei disturbi del comportamento e dell’umore è incentrato sull’interpretazione e l’etiologia  dei sintomi,  sugli effetti che le relazioni interpersonali hanno avuto su di essi, sulla segnalazione della presenza di tratti patogeni nella società di cui il paziente ne ha assorbito la tossicità, sulla chiarificazione del potere di manipolazione della psiche da parte di coloro che educano e via discorrendo, ed ha messo in discussione l’opportunità di procedere, come accadeva prima, con una terapia che si muova a colpi di scure.  

 

I principi su cui si fonda la terapia della parola.

 

La cura farmacologia dipende dal tipo di sostanze ingerite ed è indifferente chi la prescrive e chi la vende; nella  cura psicologica la psicoterapia si basa su una particolare maniera di dialogare. Con essa  una persona, il terapeuta, cerca di chiarire i motivi del malessere esistenziale e trasformare impressioni, idee, e la maniera di vivere di un’altra persona, il paziente, affinché non soffra più i disturbi psicologici che di cui è afflitto. 

Si tratta di una interrelazione alquanto dissimile dai comuni approcci: le persone  parlando e  si influenzano le une con le altre; nel caso della psicoterapia l’influsso  psicologico che va dal paziente al terapista è poco percettibile;  è più evidente quello che va dal terapeuta al paziente. 

Questo  genere di “cura” si basa sul tentativo di  mutare i punti di vista e di alterare, mediante adeguati ragionamenti, che creano un profondo insight che fa luce sui meccanismi della psiche del soggetto, quella parte della sua condotta  che gli crea angoscia e depressione.

Le psicoterapie pur mostrando alcune diversità, hanno una unica matrice: creare una maggiore consapevolezza e un miglior realismo nel pensiero del soggetto, sviluppare una mentalità diversa da quella che lo ha portato alla stasi psicologica, dare risposte adeguate alle sue angosce, indurre il paziente a cambiare il tenore della propria esperienza, cancellando quei modelli di vita che gli  hanno creato delle paralisi nella quotidianità. Vivere modelli che, ragionevolmente,  hanno il minor numero possibile di vincoli, di strettoie  e di preclusioni, per avere un sereno quotidiano. 

Se il paziente riesce a recuperare quelle parti della propria esistenza che erano state cancellate e che lo privavano di alcune gioie della vita, se riesce a capire la contraddittorietà tra gli asfittici  modelli di vita che aveva  realizzato e quelli che, invece,  più verosimilmente avrebbe potuto accreditare per migliorare la propria esistenza,  egli potrà rendersi conto che i propri sintomi dipendono proprio dall’impoverimento della sua esperienza e dalla cancellazione di buona parte delle opzioni  utili per una vita più serena. Comprendere in che modo ha organizzato la propria mentalità e come questa mentalità lo ha portato a subire tracolli e a utilizzare al peggio la propria vita,   è la via maestra per la guarigione del paziente. Quando il paziente capisce che ha escluso un intero mondo di esperienze, ricavandone una riduzione della propria vita psicologica che lo ha portato alla sofferenza, è il primo passo per la sua guarigione. Capire che il modo come  ci disponiamo verso la vita e le esperienze ci può  far soffrire o imprimere una crescente stimolazione vitale è un  altro passo vanti verso la guarigione.

Una mentalità completamente nuova, con modelli realistici e più ampliati,  da la possibilità al paziente di disporre di scelte e di comportamenti che meglio sfruttano la sua esistenza.     

Poiché difficilmente il terapeuta potrà cambiare il mondo come vorrebbe il cliente, è il cliente che deve cambiare la propria visione del mondo per crearsi  modelli di vita meno incongruenti di quelli che lo avevano portato alla disperazione e più  utili a migliorare la propria esistenza  e impiegare meglio le proprie energie.

Chi ha un modello incongruo del mondo prima o poi verrà in conflitto con la gente e con se stesso, e avrà una vita disagevole e priva di luce.

Spesso questa incongruenza dipende da bislacchi schemi di vita appresi nell’infanzia, e che sono stati indicati – purtroppo-  come “gli unici” per affrontare la vita, mentre invece si sono rivelati ( e non poteva essere che così) solo   fonti di disagio e di incapacità a comprendere la vita.  

Uno dei modi più comuni per non venire in conflitto con la famiglia è assecondare e seguire i modelli familiari, anche se errati; ciò se è utile nell’ambito ristretto della nucleo familiare, a volte però fa entrare in conflittualità col mondo. Mantenere la struttura dei modelli familiari  anche quando sono fonte di angosce è tipico di chi, sentendosi psicologicamente  debole, non riesce a vedere oltre un certo orizzonte, e non ha il coraggio del rischio di cambiare la propria mentalità 

Compito del terapeuta è di riconoscere e di svelare al cliente quali sono le incongruenze nella mentalità della famiglia del paziente che lo hanno portato a impoverire le proprie risorse psichiche gettandolo nella paralisi psichica  e nell’angoscia. Ovviamente occorre che questa demistificazione degli insoddisfacenti schemi di pensiero familiare sia fatta con il dovuto tatto per non far crollare di colpo certezze e affetti che potrebbe essere ancora più nocivo del rimanere legati ai modelli familiari.  Sarà utile che sia lo stesso soggetto a  scoprire incongruenze e mistificazioni nello schema familiare, il che rende più agevole e più solido l’acquisizione di nuovi modelli, più confacenti alla realtà.

Tutto questo può avvenire mediante la terapia della parola.  

Questa forma di presa di persa di coscienza  ha origini remote. Ebbe inizio con Socrate, il quale invitava la gente a conoscere se stessi.

Il sofista Antifone intuì che da decifrazione dei sogni potesse chiarire molte delle preoccupazioni che affollano l’animo umano.

Platone,  sosteneva che la catarsi dell’anima si ha con la parola;  non con una conversazione di qualsiasi tono: ma con parole efficaci, appropriate ed edificanti. Da questo punto di vista, una responsabilità incombe sugli psicoterapeuti, i quali devono trovare il ragionamento più efficace e le parole più giuste ed esprimerle al momento opportuno.

Delicata è anche la strategia del terapeuta, il quale  non deve confondere l’intervento persuasivo con quello suggestivo.

Appare chiaro che il legame tra medico e paziente non è un semplice parlare, ma  qualcosa di più profondo. Il paziente racconta i suoi sintomi, la sua malattia,  ciò che gli accade e gli è accaduto nella vita, e l’altro ne individua le “malformazioni” dovute a idee, comportamenti, emozioni del suo interlocutore. Vengono a galla tutta una serie di “pressioni” più o meno involontarie, che spingono a comportamenti e a  emozioni deleterie.

Per “guarire” da tali malformazioni non è sufficiente individuare la causa dei disturbi emotivi, bisogna cancellare nei meccanismi della psiche le “pressioni” che determinano nel soggetto una vita infelice. 

Individuando certe forme di condotta personale, certe idee, certi impulsi  identificati come cause dei disturbi che assillano il malato si ha il primo passo verso una maggiore consapevolezza. Una volta raggiunto questo stadio i malesseri psichici si attenuano o scompaiono. In ogni caso, possono essere gestiti senza disperazione.

È difficile  giudicare e  classificare se la psicoterapia sia un’arte medica o un dialogo.

Tuttavia, qualunque sia la catalogazione, questo contatto verbale ha anche delle implicazioni somatiche.  Infatti, se il trattamento psicoterapeutico è riuscito,  assieme alla mente, anche il corpo riceve una messa a punto e  i malesseri fisici derivanti dall’emotività cessano o si attenuano con ragionamenti appropriato. Il malato psicosomatico, che soffriva di fenomeni nervosi che si manifestavano anche come malesseri fisici, vedrà attenuarsi o scomparire senza aver fatto uso di farmaci anche le  sofferenze  fisiche.

 

Le strategie  del paziente e  gli interventi del terapeuta

 

Pur andando contro ai propri interessi, a volte il paziente cerca di sviare le tracce che possono condurre il terapeuta a comprendere l’etiologia dei disturbi di cui egli è afflitto. Questo perché nel cliente  assieme al bisogno di guarire vi sono  tendenze più o meno coscienti a mascherare, per vergogna, per autolesionismo, per narcisismo i cadaveri nascosti nel proprio armadio psichico.

A volte non solo il mutismo, ma  persino l’eccessiva loquacità, sono una  strategia per non  dire nulla che possa essere interessante per comprendere la vera etiologia dei malesseri. Il paziente occulta, con  una serie di ingannevoli argomentazioni, i  motivi del proprio disagio psicologico, per evitare che vengano decifrati i temi più angosciosi della sua vita,  è  prassi consueta. Vanificare questa strategia  è compito del terapeuta. 

In qualche caso il paziente  dichiarata  di “capire”le spiegazioni e interpretazioni date dal terapeuta, mostra di volere entrare nel merito, di essere attento alle decifrazioni che dei suoi comportamenti fa il suo interlocutore,  ma anche in questo caso, la docilità con la quale accetta tutto ciò che gli  viene spiegato non è che una strategia per non cambiare lo status quo.

Infatti messo di fronte all’accettazione dei motivi più profondi delle proprie angosce e dei propri comportamenti,  il paziente cerca di  svicolare: troppo crudeli e orribili a volte gli appaiono le cause del suo dissesto emotivo. A quel punto gli viene più “comodo” restare com’era che imbarcarsi in una presa di coscienza che – egli  intuisce – sovvertirà tutta la sua vita. È questo un depistaggio che il paziente articola mediante varie strategie tra cui quelle di mostrandosi arrendevole e  persino seduttivo nei confronti del terapeuta.

Gli atteggiamenti del terapeuta dovrebbero essere sempre improntati a una chiare  neutralità per evitare qualsiasi commistione tra la propria personalità e quella del paziente. Poiché i disturbi del paziente dipendono da angosce causate da una errata visione  della vita, la cura deve consistere nel cancellare  tali distorsioni, ma bisogna evitare di fare ancore altre scelte “per il paziente” e dunque l’intervento non bisogna suggerire cosa pensare, ma  come pensare.

La scuola guida insegna a saper guidare, ma non indica di certo quali strade scegliere per andare in un posto!  È  ovvio che se una persona ha imparato a guidare bene, sceglierà le strade migliori.

In qualche caso il terapeuta può anche cedere alle preoccupazione umanitaria di aiutare il più possibile il cliente; ma facendosi prendere la mano e diventando troppo assistenzialista  finisce  col farsi manipolare del paziente. In altri casi il terapeuta arriva a perdere la neutralità e finisce col suggestionare il paziente il quale cede alla prevaricazione sottile che gli impone di uniformasi a idee e comportamenti che non gli sono congeniali, ma che egli  accetta perché dettati dall’autorità. A volte, ed è il caso più grave,  il terapeuta con un  sovraccarico di narcisismo cerca di imporre al cliente  soluzioni che egli vede come ottimali, ma che non tengono conto delle necessità e dei barriere psichiche del malato.

A volte  un sia pur impercettibile desiderio d’onnipotenza  fa capolino nel comportamento del terapeuta, il quale mostrando la propria competenza con sussiego  finisce con l’influenzare  il paziente che  diventa una parodia dell’altro.

 

Capire le  situazioni problematiche, e far  regredire il disturbo

Sono due operazioni del tutto distinte:  l’una, molto più lineare, è  legge  in maniera dettagliata gli input culturali che convergono sul paziente e che gli condizionano la vita, lo rendono ansioso e  angustiato. Ma una cosa è stabilire i perché dei comportamenti e del modo di pensare del paziente e un’altra è far prendere coscienza al paziente che se vuol vivere meglio deve mutare costumi, abitudini, fisime, modalità di vita.

 

 

 

Paura di cambiare

 

Siamo  affezionati alle nostre convinzioni ed evitiamo ogni ragionevole innovazione. Credenze e pregiudizi sono duri ad essere eliminati, e ogni pur minimo cambiamento nella nostra prospettiva mentale, sociale e culturale può sollecitare una reazione d’ansia. Ciò impedisce persino l’accettazione di novità che migliorano il tenore della nostra “vita mentale” e della nostra quotidianità.

Una delle conquiste della personalità matura è la capacità capire che  in qualche caso  valutiamo avvenimenti e persone tramite i pregiudizi e i luoghi comuni che fanno da filtro alla nostra comprensione del mondo esterno con un  canovaccio culturale, che è come una corazza fatta di particolari manie, di piccoli rituali, di ingiustificate prevenzioni,  che impediscono buone relazioni con se stessi e  sereni rapporti  sociali.

Le riluttanze al cambiamento  sono tanto più salde quando più il l’Io  è insicuro e fragile.  E avverte i  “cambiamenti” come pericoli che mettono in gioco l’instabile equilibrio psicologico.

In tali casi, accettare nuove idee e nuovi punti di vista, è avvertito come un pericolo che minaccia tutta la struttura dell’Io.

Si teme, infatti, che l’impalcatura, che  faticosamente è puntellata, si possa sfaldare e far precipitare l’autostima a livelli molto bassi.

Tale vulnerabilità si manifesta maggiormente nell’individuo che collega la propria autostima esclusivamente a consensi di carattere affettivo e a giudizi di valore che riscuotono il beneplacito sociale. Chi è insicuro  teme che cambiando atteggiamenti e convinzioni  vengano meno i consensi delle persone che  foraggiano la sua autostima e ciò metterebbe in gioco la sua stabilità psicoemotiva.

Durante la cura psicoterapeutica le maggiori difficoltà che si oppongono alla guarigione del soggetto  si devono proprio alla difficoltà di cambiare il proprio  registro mentale e le convinzioni  che si radicarono in tempi lontani.

Pur tuttavia, sebbene molte delle insicurezze e delle angosce dipendano da quel particolare registro mentale, non è insolito che s’incontrino difficoltà di vario genere (tecnicamente chiamate “resistenze”) nell’introdurre elementi di cambiamento, sentiti come un “pericolo maggiore” della stessa situazione d’angoscia in cui il soggetto si dibatte da anni.

Solo dopo un lungo periodo di riflessioni, di riscontri e di confortanti rassicurazioni, che  indeboliscono le credenze fuorvianti, e migliorano le strategie del ragionamento, è possibile modificare il copione delle nostre convinzioni e con esso la qualità della nostra esistenza quotidiana.

Cambiare prospettiva mentale per adeguarla il più possibile alla realtà, evitando facili illusioni, significa assumere  il rischio  di delusioni e sopportale con ragionevolezza.

Ma per far ciò la personalità deve essere diventata parecchio robusta.    

 

Sindromi psichiatriche e arte

Agli inizi del Novecento fece discutere il caso della “pittrice” Aloysia, donna di discreta cultura (la cui condizione mentale andò  deteriorando fino a far diagnosticare per lei una demenza precoce), che visse  quaranta anni in manicomio, ove  realizzò opere che sono state esposte  nei più importanti musei del mondo. Alais Resnais guarì dalla propria malinconia con una serie di sedute analitiche ma, soprattutto,  girando il film L’anno scorso a Mariembad. Ingmar Bergman confessò[18]: «Ero depresso, mi trovavo in una situazione difficile, lontano dal mio paese,  e girando Un mondo di marionette ho trovato un modo, una forma molto precisa per trasformare la mia sofferenza in qualcos’altro».  E anche Federico Fellini raccontò che, allorquando sentiva venire meno l’entusiasmo creativo, e gli si presentava l’uggia della vita, si sottoponeva a sedute analitiche.  Quel genere di “medicina dell’anima” gli giovava a chiarire le proprie angosce, ma più d’ogni cosa, affermava il regista, gli  ridava l’ardore creativo che lo stimolava a produrre nuovi  film. Dalle opere di Edvard  Munch e di  Paul Klee, si possono rilevare la  tensione psichica,  i motivi ossessivi e l’angoscia che sono presenti nella loro vita. Henri Laborit, illustre scienziato e scrittore, è del parere che la “fuga nell’immaginazione” sia il modo  migliore per allontanare l’angoscia. Secondo Laborit l’evasione più efficiente è la creatività. Coloro che meglio degli altri riescono a fronteggiare l’angoscia sono gli artisti e i grandi geni i quali, tuffandosi in un mondo tutto loro,  posso essere indipendenti  dalle convenzioni  e liberarsi dalle afflizioni. Ma anche i fruitori della creazione artistica, detto per inciso, ricevono dei vantaggi terapeutici immergendosi nella contemplazione dell’opera d’arte 

La Sindrome di Stendhal La psichiatra Graziella Magherini descrive in termini scientifici la sofferenza mentale che coglie i turisti in visita alle città d’arte, definendola con un’espressione entrata nel linguaggio comune “sindrome di Stendhal”. Stendhal, nel resoconto del suo viaggio a Firenze, racconta che durante la visita a Santa Croce fu costretto a uscire dalla basilica per riprendersi da un violento malessere. La vista dei capolavori, l’estasi della bellezza, il senso dello scorrere del tempo evocato dalle pietre secolari: emozioni che lo avevano sopraffatto. Proprio a Firenze la Magherini ha assistito centinaia di turisti stranieri ricoverati d’urgenza, spesso in preda a un acuto scompenso psichico.

“Sindrome di Stendhal” è una locuzione divenuta parte del lessico comune per indicare genericamente una sensazione di malessere diffuso avvertita al cospetto di un’opera d’arte. Tale espressione deriva dalla definizione coniata – e poi utilizzata come titolo di un volume sull’argomento (“La Sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte”, Ponte alle Grazie editore) – dalla psicoanalista Graziella Magherini, molto conosciuta anche per i suoi interessi interdisciplinari tra psichiatria, psicoanalisi e scienze umane, che l’hanno fra l’altro condotta ad essere tra i fondatori del gruppo di studio “Arte e psicologia”, formato da eminenti psicologi, psichiatri, psicoanalisti, storici dell’arte e filosofi. Il gruppo è nato allo scopo di offrire una lettura multidisciplinare dell’opera d’arte, integrando le interpretazioni filologiche e storico-sociali con approfondimenti psicologici e psicoanalitici. Attualmente Graziella Magherini ne è la presidente.

In questo volume lei ha descritto per la prima volta in termini scientifici quella sofferenza mentale che a volte coglie i turisti nelle città d’arte. Vuole darci una definizione precisa di quello che si intende per “Sindrome di Stendhal”?
Con “Sindrome di Stendhal” si fa riferimento a una serie di esperienze critiche, di episodi di scompenso psichico acuti, improvvisi e di breve durata, tutti di carattere benigno, ovvero privi di conseguenze (e questo è importante sottolinearlo), e tutti correlati con l’elemento del viaggio in luoghi d’arte.

La definizione di questa sindrome è stata messa a punto per la prima volta dal nostro gruppo fiorentino tra gli anni Ottanta e Novanta, nonostante che di questo fenomeno in molti avessero già parlato senza però rendersene conto. All’epoca svolgevo l’attività di psichiatra responsabile del Servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze, e fui molto colpita, insieme ad altri miei colleghi, dal fenomeno ripetuto di arrivi d’urgenza di persone colpite da disturbi psichici improvvisi. Lo studio di questi casi ci portò ad osservare che vi erano alcuni elementi ricorrenti: erano tutte persone in viaggio, tutte straniere e tutte partite da casa in uno stato di benessere o di compenso psichico. Il fenomeno ci pareva assolutamente degno di approfondimento, così vi abbiamo dedicato uno studio decennale, operando anche un’indagine su un campione di controllo.
Il riferimento a Stendhal non è ovviamente casuale.

Evidentemente no; infatti abbiamo scelto il suo nome facendo riferimento alle emozioni descritte in “Rome, Naples and Florence” del 1817, dove lo scrittore francese riferisce che durante una visita nella basilica di Santa Croce fu colto da una crisi che lo costrinse ad uscire all’aperto per risollevarsi da una vertiginosa reazione psichica. L’importanza dell’episodio è dovuta al fatto che il racconto di quelle emozioni assume un valore simbolico, estensibile a molteplici situazioni analoghe in contesti e tempi diversi, in cui però l’elemento costante è la presenza del soggetto in un luogo d’arte.

Il viaggio d’arte può essere considerato un viaggio dell’anima, capace di risvegliare una trama di emozioni e sentimenti che evidentemente però non tutti sono ugualmente in grado di gestire. Si usa in effetti la definizione di “turismo dell’anima” per indicare quel tipo di viaggio spesso compiuto in solitudine (dalle statistiche risulta che l’87% delle persone che hanno accusato i sintomi della sindrome erano viaggiatori individuali), in luoghi particolarmente carichi di arte e di storia, dove l’individuo si trova ad affrontare una prova importante per la propria identità. La tendenza a viaggiare, infatti, rappresenta un bisogno primitivo dell’uomo: durante il viaggio, però, l’identità è sottoposta ad un’oscillazione tra perdita e ricostruzione, il cui superamento può rappresentare una fonte di arricchimento, ma che spesso comporta il costo di una momentanea disorganizzazione del proprio campo mentale. In circa vent’anni di studi possiamo affermare che i casi di psicopatologia ci hanno, come spesso accade in psicanalisi, condotti a focalizzare tutta la serie di vicende emozionali che anche in condizioni di normalità caratterizzano gli individui che affrontano l’esperienza del viaggio d’arte.
Vogliamo ora indicare quali sono i sintomi più comuni?

La Sindrome di Stendhal si manifesta con tre differenti tipologie di disturbo. La prima è quella identificabile con crisi di panico e ansia somatizzata, dove i soggetti accusano improvvisamente palpitazioni, difficoltà respiratorie, malessere al torace, la sensazione di essere sul punto di svenire e conseguentemente lo sviluppo di un vago senso di irrealtà. Tali condizioni portano ad avvertire un improvviso bisogno “di casa”, di tornare nella propria terra, di parlare la propria lingua. Le altre due tipologie sono invece più serie. Una riguarda prevalentemente i disturbi dell’affettività, e si manifesta con stati di depressione – crisi di pianto, immotivati sensi di colpa, senso di angoscia …- o all’opposto con stati di sovraeccitazione – euforia, esaltazione, assenza di autocritica… -; l’altra riguarda i disturbi del pensiero, con alterata percezione di suoni e colori e senso persecutorio dell’ambiente circostante: a differenza della altre due tipologie, questa si manifesta frequentemente in persone con precedenti di scompenso psicologico, che, tuttavia, si trovavano prima della partenza in uno stato di benessere.
Queste tre tipologie sintomatiche sono comunque riconducibili a quella crisi d’identità a cui faceva riferimento prima?

Proprio così. In ogni caso sono in gioco vicende interiori complesse e conflittuali, legate alle singole biografie, alle storie infantili, alle angosce e ai meccanismi di difesa che si manifestano nelle singole circostanze. Ma in sintesi possiamo affermare che alla base di tale crisi d’identità vi è sempre la congiunzione di tre elementi: la storia personale del soggetto, e dunque la struttura della sua personalità, l’elemento del viaggio e l’immersione in un ambiente carico di arte e di storia.

Vi sono artisti o  opere d’arte che più generano tale tipo di reazioni?
Non esistono opere o autori particolari che suscitino le reazioni descritte. Questo è un concetto molto importante: non sono le opere in sé, ma piuttosto alcune peculiarità proprie del singolo oggetto estetico che in particolari circostanze scatenano nel fruitore, a seconda anche della sua storia personale, una sostanziale difficoltà di contenimento delle emozioni e dunque una condizione di disagio. Dal punto di vista psicoanalitico, nell’istante dell’incontro tra il fruitore e il creatore, mediato dall’opera d’arte, si verifica in un primo momento il fenomeno dell’incantamento verso la bellezza formale, che richiama il primo incantamento dell’esperienza umana, e cioè quello verso la figura materna; quasi simultaneamente la forza espressiva delle grandi opere d’arte può risvegliare i contenuti più profondi dell’inconscio, rompendo alcune difese caratteriali e facendo emergere aspetti familiari, ma rimossi, e dunque dimenticati, della propria storia interiore. Non si può dire che esista una specifica opera particolarmente pregante per la mente del fruitore, se non in determinate condizioni, sebbene sia intuitivo che le opere più drammatiche, come ad esempio alcuni Nudi di Michelangelo o i giovani efebici rappresentati da Caravaggio, così ambigui e allusivi, possano essere particolarmente forti in questo senso.
Nel libro riportiamo il caso di un giovane turista americano che fu particolarmente colpito dal “Narciso” del Merisi, nel cui ginocchio riconosceva un simbolo fallico; oppure il caso di un maturo signore bavarese, a cui il confronto con il Bacco adolescente ripropose violentemente il conflitto interiore derivante da una non risolta valenza omosessuale. Ma altrettanto significativo è il caso di una ragazza colpita nel profondo dall’incontro con la bellezza passionale delle fanciulle dipinte da Botticelli. E ancora posso citare il caso recentissimo, che risale al luglio scorso, di una ragazza che ha subito in modo traumatico la vista della “Trinità” di Masaccio a Santa Maria Novella.
Tutti i casi studiati sono correlati all’elemento viaggio. Bisogna quindi escludere a priori che una persona possa soffrire di Sindrome di Stendhal al cospetto di un’opera d’arte ammirata nel proprio contenitore ambientale, per esempio durante una mostra nella propria città?

Non lo si può escludere, anche se, solitamente, trovandosi nel proprio habitat risulta molto più semplice contenere le situazioni anche di forte disagio emotivo.
Si possono provare grandi emozioni, quando si è nel deserto o di fronte alla vastità della natura. Qui però si entra nel merito di un altro discorso, che è quello che riguarda la percezione di trovarsi al di là dell’esperienza comune.

 

 

 

Se l’arte può creare almeno temporanee alterazioni mentali, come nel caso della sindrome di Stendhal, a volte, invece , la follia può essere una “guida”  per la produzione artistica.  La Neuroestetica, nuova area di ricerca sul cervello umano. Uno sguardo all’ arte tra lesioni cerebrali e creatività. L’arte ha origine nelle funzioni e nella struttura del cervello umano. Gli artisti possono aiutare tanto a comprendere il cervello che è dentro di noi quanto il mondo che è intorno a noi. Parallelamente, gli effetti cimici di lesioni del sistema nervoso ed i dati ottenuti con tecniche avanzate tra cui la Risonanza Magnetica Funzionale e la Tomografia ad Emissione di Positroni, possono aiutare a chiarire molti quesiti ancora irrisolti sulla natura dell’arte. Recentemente una nuova area di ricerca si è sviluppata nell’ambito delle Neuroscienze: la “Neuroestetica”. Da decenni, presso le sedi di Londra (University College) e di Berkeley, lo “Institute of Neuroesthetics” studia le basi biologiche dell’estetica ed i processi di coscienza e di creatività espressi da meccanismi cerebral (integrazione dei processi visivi, elaborazione del giudizio di bellezza, legato al ruolo di una specifica area cerebrale localizzata nella corteccia orbito-frontale mediale.Alterazioni dell’espressione artistica sono di particolare interesse in Neurologia. Lesioni di regioni cerebrali specializzate nell’elaborazione di suoni possono indurre incapacità selettiva nel percepire ed apprezzare la musica (“amusia”), senza altre disfunzioni concomitanti. L’amusia può riscontrarsi, frequentemente con familiarità, anche un ristretto numero di persone peraltro normali. In diverse forma di Demenza, l’espressione artistica si altera con modalità drammaticamente differenti. Nella malattia di Alzheimer si assiste ad una perdita progressiva dei contenuti espressivi e percettivi, con alterazioni del senso cromatico, alterazioni dell’organizzazione spaziale delle figure, semplificazione dell’immagine a contenuti elementari. L’espressionista Willem de Kooning, affetto da Demenza di Alzheimer, è un esempio di questa trasformazione.Nel diverso tipo di Demenza denominata Frontotemporale in base alla sede frontale e temporale del danno cerebrale, se la patologia prevale nell’emisfero sinistro si ha un’esplosione di raffinata creatività figurativa e musicale; ad esempio, durante tale malattia Ravel ha composto il “Bolero” ed il “Concerto per mano sinistra”. Analogo meccanismo di liberazione èsupposto nell’Autismo infantile, nel corso del quale il 200/o dei bambini, pur non comunicando con l’ambiente, è in grado di produrre disegni di straordinario realismo.L’educazione musicale in età infantile e l’arricchimento delle esperienze, anche visive, attivano meccanismi di plasticità del sistema nervoso attraverso i quali nuove connessioni vengono costruite tra neuroni e tra aree cerebrali.   

Paolo Livrea: Scienze Neurologiche-Psichiatriche Univ. Bari

 

Le varie sindromi

La sindrome del ristorante cinese è un disturbo di tipo farmacologico e si manifesta con una sensazione di bruciore diffusa a tutto il corpo, senso di pressione facciale, cefalea, stato d’ansia, formicolio alla parte superiore del corpo, dolore in regione toracica, alterazioni della sensibilità e dolori del capo e del collo, senso di bruciore alla nuca, nausea, sudorazione e difficoltà respiratoria (broncocostrizione negli asmatici). La sindrome ha questo nome perché si manifesta talvolta dopo aver mangiato cibi cinesi, e da alcuni questo è attribuito alla assunzione di glutammato monosodico, un esaltatore del gusto, tradizionalmente usato in modo massiccio nella cucina cinese. La sua assunzione produce una sindrome direttamente legata alla dose assorbita e la sintomatologia varia considerevolmente da un individuo all’altro. Tuttavia, un test clinico in doppio cieco (esperimento nel quale né lo sperimentatore né il soggetto sanno quale prodotto è stato somministrato al soggetto) effettuato su persone che dichiaravano di soffrire della “sindrome” non confermò che il glutammato monosodico fosse l’agente responsabile . Altri studi hanno dimostrato che le reazioni di tipo allergico che insorgono dopo aver consumato pasti di provenienza asiatica sono solitamente attribuibili ad ingredienti come i gamberetti, le arachidi, le spezie e le erbe aromatiche.

Sindrome di Gerusalemme è simile a quella di Stendhal ma si rapporta all’ambito religioso. Consiste nella la manifestazione improvvisa da parte del visitatore della città di Gerusalemme, di appassionati sentimenti religiosi, e l’impulso a proferire espressioni visionarie.

Sindrome da sovraccarico cognitivo, meglio conosciuto come Information overload(ing), è la sindrome per cui si hanno troppe informazioni per riuscire a prendere una decisione o a rimanere informati su un argomento. Anche se tale patologia è stata riscontrata più volte nel passato, sicuramente lo sviluppo di Internet ha contribuito non poco alla sua diffusione e riconoscibilità, tanto che è stata definita da qualcuno come Inquinamento da Internet. La grande quantità di notizie inutili e scadenti che circolano in rete può infatti inibire la capacità di scremarle, specialmente nel caso connesso della Internet dipendenza presentato dalle persone che passano sempre più tempo in rete alla ricerca di informazioni, facendo web surfing, cioè passando in continuazione da un sito web all’altro senza riuscire a fermarsi.  Inizialmente questo “viaggio” appare eccitante e piacevole ma pian piano il soggetto si trova intrappolato in un meccanismo in cui non c’è più soddisfazione nella ricerca di ciò che interessa, le informazioni non bastano e trovarne altre è percepito come un dovere, un obbligo a cui è difficile sfuggire. I segni clinici che si tengono in considerazione per la diagnosi sono:  necessità di trascorrere molto tempo in rete per reperire notizie, aggiornamenti, o qualsiasi altra informazione; tentativi ripetuti senza successo di controllare, ridurre o interrompere l’attività di ricerca; perdurare di tale attività, nonostante questa provochi o accentui i problemi sociali, familiari ed economici. Occorre distinguere l’incapacità di prendere una decisione per sovraccarico cognitivo da quella legata al Paradosso di Buridano: in quest’ultimo caso, infatti, la sindrome non dipende dalla troppa scelta ma dall’incapacità di fare una valutazione. (M. Marcucci e M. Boscaro, Manuale di Psicologia delle Dipendenze Patologiche, L’Asterisco, Urbino 2004)

Da quando molte delle nuove malattie scoperte sono caratterizzate da questi comportamenti ripetitivi o preoccupazioni, gli aneddoti sostituiscono i dati. Il Prozac “sembra dare sicurezza sociale ai timidi abituali, trasformare i sensibili in esuberanti, conferire agli introversi le abilità sociali del piazzista.” www

La spiegazione più comunemente invocata per spiegare molte forme di comportamento irregolare concerne carenze della serotonina, uno dei naturali componenti chimici del cervello che trasmette il segnale tra le cellule nervose. In “The Broken Mirror,” la Phillips correla il dismorfismo corporeo ad “una anormalità del sistema neurotrasmettitore  serotoninico .” Altri psichiatri hanno attribuito i disordini alimentari e di ginnastica, sindromi ombra e anche il PMDD a bassi livelli di serotonina. Qali sono le loro prove? I pazienti si sentono meglio una volta che i loro livelli di serotonina vengono alzati con la somministrazione di medicine chiamate SSRI, di cui il Prozac è il più comunemente prescritto. Poichè i pazienti con BDD sembrano rispondere a questi farmaci,  la Phillips insiste che “La chimica cerebrale disturbata gioca un ruolo importante” in questa malattia.

In un articolo del New England Journal of Medicine intitolato “Running: An Analog of Anorexia?” Alayne Yates scrive che la ginnastica di routine può essere sintomatica di malattia. Una ginnastica troppo regolarei −o, in termini psichiatrici, compulsiva– indica un “disordine di attività,” scrive Yates. Il problema non è il momento del comportamento(come nel PMDD) o il suo contesto (come nella bulimia nervosa), ma il suo scopo. Nella visone di Yates, l’eccessivo correre per perdere peso o controllarlo diventa patologico. Il comportamento può ben essere incluso nella prossima edizione del DSM: la psichiatria è chiaramente preoccupata dalle piste [podistiche], dai centri di fitness e dalle palestere.

Il dissolvimento della distinzione tra normale e anormale che queste nuove patologie suggeriscono è ancora più evidente nelle cosiddette “Sindromi ombra.” Proposta da John Ratey, uno psichiatra della Harvard Medical School il cui nuovo libro ha preso come titolo il termine, le sindromi rappresentano disordini psicologici “nascosti”. Le persone che sono “un po’” depresse o ansiose o hanno un brutto temperamento soffrono di esse. Benchè Ratey ammetta che i sintomi sono troppo deboli per rientrare in quelli che egli chiama “Il   blocco reale del DSM,” tuttavia argomenta che sentimenti di questo tipo sono un genuino rischio: “La vita della gente può andare in pezzi…a causa di piccoli problemi.” 

Una ginnastica troppo regolare o, in termini psichiatrici, compulsiva indica un “disordine di attività,” scrive Yates. Il problema non è il momento del comportamento(come nel PMDD) o il suo contesto (come nella bulimia nervosa), ma il suo scopo. Nella visone di Yates, l’eccessivo correre per perdere peso o controllarlo diventa patologico. Il comportamento può ben essere incluso nella prossima edizione del DSM: la psichiatria è chiaramente preoccupata dalle piste [podistiche], dai centri di fitness e dalle palestere.

Negli anni recenti, i tipi di comportamenti  etichettati come malattie sono aumentati drammaticamente. La psichiatria moderna è pronta   a trattare  non solo depressione e schizofrenia, ma anche malumore, ansia e bassa autostima, sentimenti che la maggior parte di noi ha provato ogni tanto.

 Sindrome di Notre-Dame

Tutte queste sindromi sono imparentate con la più generale “Sindrome del viaggiatore”: dopo la preparazione dettagliata di un viaggio, nasce un disagio dovuto al trovarsi di fronte alla realtà del momento.

SINDROMI DA LAVORO Mobbing, Burnout

SINDROME DEL BURN OUT

Possiamo sinteticamente definire la Sindrome del Burn Out come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano.

Nel burn out vengono riconosciute due condizioni di stress: soggettiva (o interna) e oggettiva ( o esterna). Fra le condizioni soggettive ci sono quelle legate alle motivazioni ed alle immagini ideali dell’operatore. Fra quelle oggettive ci sono quelle legate alle condizioni materiali di lavoro, alle ambiguità di ruolo, alle strutture di relazione ecc.. La medicina del lavoro ha portato a considerare come cause fondamentali di fatica e del conseguente calo motivazionale e di efficienza, anche le caratteristiche ambientali soggettive come rumore, sostanze tossiche presenti sul posto di lavoro ecc.; ma sembrano avere peso notevole le variabili più prettamente soggettive e sociali come il clima di gruppo, le comunicazioni interpersonali e la soddisfazione individuale. Il sovrappiù di reazione emotiva e mentale che il nostro lavoro richiede, deve essere sempre da noi ascoltato e valutato quando dà un segnale di allarme.

Il burn out, considerato una sindrome per l’insieme dei sintomi che lo contraddistinguono, viene riscontrato soprattutto tra gli operatori che lavorano a stretto contatto con situazioni di sofferenza.

Diversi autori, soprattutto anglo-americani, hanno affrontato il problema. a Maslach, in particolare, definisce il burn out come “una sindrome da esaurimento emotivo, da spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti che per professione si occupano della gente”; e ancora: “una reazione alla tensione emotiva cronica creata dal contatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza”.

Così come nello stress lavorativo, l’individuo non riesce a far fronte adeguatamente alle richieste ambientali, l’operatore sociale sperimenta una situazione di sovraccarico emotivo che si identifica nell’interazione continuata con l’utente, da cui può scaturire una sensazione di esaurimento emotivo e perdita di energia. L’operatore sociale si renderà conto molto presto di non poter essere utile agli altri come avrebbe voluto quando ha intrapreso la sua professione.

Le strategie che l’individuo mette in atto di fronte a situazioni di distress, modificando il proprio ambiente, vanno sotto nome di coping, che in italiano potrebbe tradursi con “cavarsela”. Si evidenzia così il tentativo di non soccombere alle pressioni ambientali. Gli stili di coping sono sostanzialmente dettati dalle caratteristiche dell’individuo e dalle esperienze personali. Per difendersi dal sovraccarico di stress l’individuo potrà sviluppare una risposta cinica e disumanizzata che possiamo definire spersonalizzazione. Le persone, quelle stesse con cui egli aveva condiviso dolore e disagio, diventano “oggetti” da cui è bene prendere distanza.

Crollate le aspettative, cadono anche le convinzioni personali riguardo alle proprie capacità e competenze: “non sono capace di aiutare gli altri”, “non valgo niente!”.

La Maslach ritiene che i lavoratori più a rischio di burn out siano quelli che hanno difficoltà nel definire i limiti tra se e gli altri ed i confini funzionali tra professione e vita privata; in generale individui che, per taluni aspetti della personalità, possiamo sinteticamente definire fragili, con la disposizione a dedicarsi al lavoro in maniera scarsamente discriminante, animati da un forte entusiasmo e da un eccessivo bisogno di aiutare gli altri. A fronte delle caratteristiche di personalità di ciascuno, bisognerebbe prendere in considerazione anche altri parametri: ad esempio gli orari prolungati, il sostegno inadeguato (a volte totalmente mancante) o la struttura rigida nella quale il lavoratore è costretto ad operare in condizioni quindi disumanizzanti.

Migliorare la struttura socio-organizzativa è perciò fondamentale per chi è responsabile delle risorse umane, perché possa prevenire il disagio del lavoratore e dunque migliorare la qualità globale del servizio all’utente. Gli studiosi del campo relativo alla psicologia del lavoro hanno evidenziato che nell’uomo moderno il contesto sociale e lavorativo è quello che risulta essere maggiormente in grado di attivare risposte di stress, sia dal punto di vista comportamentale che dal punto di vista fisiopatologico.

Le condizioni fisiche dell’ambiente lavorativo o la fatica fisica, il ruolo e le relazioni lavorative, la gestione del lavoro, la burocratizzazione, sono tutte variabili capaci di provocare negli operatori i sintomi che caratterizzano la sindrome del burn out: apatia, perdita di entusiasmo, senso di frustrazione. I comportamenti lavorativi messi in atto dagli operatori in fase di burn out (coping) riguardano soprattutto il rapporto interpersonale con l’utenza nel momento in cui tale rapporto perde la proprietà di relazione di aiuto e diviene essenzialmente una relazione tecnica di “servizio”: perdita dei sentimenti positivi verso l’utenza e la professione, perdita della motivazione, dell’entusiasmo e del senso di responsabilità, impoverimento delle relazioni, utilizzo di un modello lavorativo stereotipato con procedure standardizzate e rigide, cinismo verso la sofferenza, difficoltà ad attivare processi di cambiamento.

      IL BURN OUT NELLE CORSIE OSPEDALIERE

      OVVERO QUANDO AIUTARE “BRUCIA”

  Curare gli altri può far male al punto di arrivare, ad esempio, alla depressione, all’abuso di psicofarmaci o, come avviene molto più spesso, al cinismo nei confronti del malato. Ad ammalarsi per primi sono gli operatori sanitari che lavorano in situazioni dette di prima linea: Rianimazione, Pronto soccorso, Chirurgia d’urgenza, Terapia intensiva, Clinica psichiatrica, Reparti di degenza, ecc….. ma anche gli assistenti sociali, gli psicologi, gli assistenti domiciliari e altri.  La loro malattia, sindrome di Burn Out, come abbiamo visto, consiste in un esaurimento delle emozioni ed in una riduzione delle capacità professionali che si esplicano in una costellazione di sintomi: somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, ecc…

Il disagio è così riconosciuto all’interno di queste categorie di lavoratori che due Società scientifiche (quella di Psicologia e Psicoterapia relazionale e quella di Terapia Comportamentale e Cognitiva) chiedono l’approvazione di un disegno di legge per inserire queste professioni fra quelle usuranti. Il primo campanello di allarme di un lavoratore che opera nell’ambito sanitario, bruciato dalla propria professione è quello di un atteggiamento burocratico. Il secondo passo è quello della fuga: aspettativa, malattia, ferie, sono una tecnica per sopravvivere al disagio che cresce. Le donne pagano il prezzo più caro a questa sindrome professionale, soffrendo del doppio peso del lavoro in casa e sul posto di lavoro.

 

DALL’ALTRUISMO AL CINISMO

Perché così spesso ci capita di osservare una sensibilità inadeguata in persone chiamate a compiti psicologicamente delicati ? Una spiegazione può essere data dal fatto che molti di essi sono “bruciati” (burn), vittime cioè della sindrome omonima, che secondo le statistiche più recenti colpisce fino al 60% di chi lavora a stretto contatto con la malattia, soprattutto se essa è cronica o inguaribile.

Vedere i malati soffrire, peggiorare, e spesso morire può logorare molto, con il tempo diventa difficile sostenere l’accumulo di stress e il dolore contamina chi è deputato a lenirlo. Il processo ha un esordio subdolo, ma oramai codificato. “La vittima del burn out fa sempre più fatica ad alzarsi la mattina”, spiega Nada Crotti, psicologa all’istituto dei tumori di Genova. “Va a lavorare contro voglia e con senso di oppressione, diventa progressivamente superficiale, reagisce infuriandosi se non riesce, ad esempio, a prendere subito una vena, non ammette serenamente i propri errori, scarica le colpe sui colleghi da cui tende progressivamente ad isolarsi”. Le collere esagerate, l’irresponsabilità, le accuse immotivate, tradiscono uno stato di frustrazione profonda, quello di chi sente di collezionare  fallimenti e di non servire a nulla. Ovviamente si tratta di fantasie, in realtà queste persone sono state infatti tanto utili e capaci da ammalare per una sorta di esaurimento energetico. Tra tutti gli operatori la cui professione implica costante contatto con la sofferenza, dunque dove il coinvolgimento emotivo intenso può essere ad un certo punto insostenibile, gli infermieri sono i più a rischio di sindrome del burn out, soprattutto quelli che lavorano in aree critiche come Pronto Soccorso, Rianimazione, Terapia intensiva, Unità spinale, Reparti di degenza, in particolare quelli a contatto con malati terminali. Proprio in questi ultimi è stata descritta per la prima volta la sindrome, un decennio fa, un po’ per spiegare i fenomeni di acting out (l’infermiere che urla o maltratta il malato), un po’ per dare ragione del maggior assenteismo e del più rapido turn over nei reparti ad alta densità di decessi. Infatti, anche  se  fra i loro compiti non c’è quello di prendere decisioni determinanti ed anche se hanno il vantaggio di poter cambiare di reparto quando si accorgono dell’eccesso di stress, gli infermieri  sono di fatto gli operatori sanitari che vivono  più a stretto contatto con il malato, sia in termini di tempo, sia in termini di emotività.

L’infermiere, a differenza del medico, ben raramente è coinvolto nella ricerca, per cui non trae alcuna gratificazione scientifica dal proprio lavoro. Anche l’ambiente extralavorativo gli è spesso sfavorevole in quanto la sua professione non è, in genere, socialmente apprezzata come meriterebbe. Paradossalmente, gli infermieri non sono neppure menzionati nel disegno di legge presentato alla fine del 1998 dal senatore Athos De Luca per il riconoscimento degli effetti collaterali di alcune professioni psicologicamente e fisicamente usuranti. Inoltre sono del tutto discutibili i benefici previsti dal disegno di legge menzionato, in quanto invece di paventare strategie di prevenzione o di cura, si propone l’agevolazione del pensionamento anticipato, quando è statisticamente noto che andare in pensione può peggiorare uno stato psicologico già deteriorato.

  Riassumiamo ora le fasi di questa sindrome che è tipica delle professioni di aiuto, caratterizzate da un distacco emotivo rispetto agli assistiti e dalla perdita di interesse per il proprio lavoro. Si distinguono quattro fasi:

A ) La  fase dell’entusiasmo idealistico e delle aspirazioni

  1. B)  La fase dello stress lavorativo, in cui si avverte un progressivo squilibrio tra richieste e risorse
  2. C) La fase di esaurimento, in cui si comincia a pensare di non aiutare realmente nessuno ed in cui compare la tensione emotiva, l’irritabilità, l’ansia

D Fase della conclusione difensiva o alienazione, con totale  disinteressamento emotivo nel lavoro, apatia, rigidità e cinismo.

Inoltre sono stati individuati tratti caratteriali che predispongono al Burn Out:

  1. a) L’ansia nevrotica, propria di quelle persone che si pongono mete eccessive e che si puniscono se non le raggiungono

b)Uno stile di vita caratterizzato da eccessiva attività, competizione, in continua lotta contro il tempo

  1. c)  La rigidità, cioè l’incapacità di adattarsi alle richieste sempre mutevoli dell’ambiente esterno
  2. d) L’introversione

Possibili soluzioni per la gestione dello stress e del burn out nelle professioni di aiuto

Il passo più importante è riconoscere le prime avvisaglie del burn out, in modo da intervenire prima che compaiano i sintomi fisici e prima che il malessere si ripercuota sulla vita familiare e sessuale. Studi recenti hanno individuato alcune strategie di cura individuali ed organizzative. Quelle individuali comprendono le tecniche di rilassamento e la psicoterapia. È utile ricordare che la vita è anche altrove, fuori dall’ambiente lavorativo; a questo scopo è importante praticare e coltivare hobby.

Esistono poi strategie organizzative e di gruppo.

Prevenzione primaria: agire sulle strutture di un sistema per eliminarne le caratteristiche patogene o che comportano peggioramento nella qualità del lavoro e della vita. Individuare fattori stressanti nell’organizzazione del lavoro e quindi risolverli, infatti, come afferma Spaltro, il costo del lavoro diminuisce e la produttività aumenta se si cambiano gli stili di gestione del potere, i modi di incentivare, il clima nell’ambiente di lavoro. Un ambiente lavorativo gratificante dal punto di vista umano allontana il burn out così come la condivisione con i colleghi del senso di angoscia e frustrazione. È importante che ai fini dell’organizzazione del lavoro si eviti di caricare la singola persona, così come di creare conflitti di ruolo.

 

 

 

IL MOBBING

Sintomi più comuni della sindrome in oggetto sono stress psicofisico, disagio profondo, ansia, depressione, difficoltà di digestione, disistima, disperazione, eritemi, impotenza sessuale, infarto, insonnia improvvisa e incubi, irritabilità, mal di testa, panico, paura di affrontare la giornata, pensieri autolesionistici e/o suicidi, perdita dei capelli, perdita identità, spossatezza, vertigini, vuoti di memoria, ecc… I sintomi, se non adeguatamente diagnosticati e curati, si possono cronicizzare e diventare      malattie derivate (psicosomatiche e fisiche): bruciori di stomaco, cefalea, dermatosi, mal di schiena, attacchi di panico, tachicardia, gastrite, ulcera.

La Medicina del Lavoro ed il Legislatore hanno evidenziato i costi sociali del fenomeno, vediamo ora la genesi della sindrome.  Il termine inglese mobbing è usato dagli studiosi dei comportamenti di gruppo negli animali, e definisce un complesso di tattiche messe in opera dal capobranco e/o dal gruppo per isolare, rendere inoffensivo, sopraffare, annientare un elemento del gruppo che, secondo le leggi della natura, è ritenuto non funzionale alla sopravvivenza del gruppo stesso.

La trasposizione di questo termine dal mondo animale a quello del lavoro, non avviene senza aprire una lunga serie di interrogativi circa i curiosi aspetti di cui si colorano le “leggi della sopravvivenza in natura” in una realtà aziendale, pubblica o privata. 

Per quanto riguarda la tipologia delle vittime non sono state individuate attualmente inclinazioni caratteriali che possano definire una “predisposizione” al mobbing che colpisce lavoratori di qualsiasi livello in tutti gli ambienti di lavoro e in tutte le culture. In particolare, sarebbero più predisposti: distratti, presuntuosi, passivi, buontemponi, paurosi, ecc. (Harald Ege ne elenca ben 18). La tipologia dei persecutori è piuttosto varia, sembrano più predisposti: narcisista perverso, frustrato, istigatore, megalomane, ecc. (Harald Ege ne elenca ben 14).

MOBBING VERTICALE

E’ quello che si attua fra un capo, un dirigente ed uno o più dei suoi sottoposti. In pratica si verifica che il dipendente in oggetto viene privato di incarichi di rilievo, fino a configurare l’assenza di incarichi. Il dipendente è sottoutilizzato, emarginato, non coinvolto nelle decisioni, ignorato. Questa tattica ha lo scopo di logorare psicologicamente il dipendente fino a renderlo oggettivamente inefficiente, passibile di facile eliminazione o autoeliminazione dal gruppo di lavoro. Bisogna dire che talvolta questi comportamenti sono adottati dall’azienda per liberarsi di elementi che effettivamente non sono funzionali al buon funzionamento del gruppo di lavoro, ma più spesso entrano in gioco altri fattori.

 Il mobbing verticale è spesso messo in opera da dirigenti inadatti al ruolo che rivestono, o che comunque nutrono il timore di non essere all’altezza dei compiti da svolgere. Tali dirigenti hanno l’ovvio problema di non palesare questa reale o supposta deficienza e, da sempre, il sistema scelto per raggiungere lo scopo è quello di emarginare, mettere in ombra, in una parola, mobbizzare, il collaboratore capace e intelligente che possa, con la sua sola presenza efficiente, evidenziare l’incapacità a dirigere. 

MOBBING ORIZZONTALE

Viene messo in opera dal gruppo di pari per emarginare, isolare e, in definitiva, per eliminare un appartenente al gruppo stesso. Le tattiche sono vecchie come il mondo: maldicenze, calunnie, pettegolezzi, evitamento. Anche in questi casi si contano ragioni di reale dissonanza dal gruppo, ma più spesso, come vedremo, le motivazioni sono d’altra natura.

LEADERSHIP

Una frequente fonte di mobbing nelle strutture gerarchiche è da ricercare nella effettiva organizzazione della leadership. Pur senza qui approfondire aspetti di Analisi delle Transazioni (vedi  approfondimento), è di comune riscontro la situazione secondo cui nella figura del leader non necessariamente si verifica la coincidenza delle tre figure di riferimento: Leader Istituzionale, Leader Effettivo e Leader Psicologico, dove il Leader Istituzionale è quello ufficialmente incaricato (tale affidamento sappiamo che può avere una base clientelare, indipendente dalle qualità di leader); il Leader Effettivo è quello che per competenze e professionalità costituisce il riferimento per le scelte operative; infine, ma non ultimo, il Leader Psicologico, che per statura umana, etica, intelligenza, sensibilità o altro, costituisce il reale riferimento per il personale subalterno.

SINDROMI AZIENDALI

Nella genesi di tali disturbi un ruolo fondamentale è rivestito dalle caratteristiche sociali ed organizzative del lavoro, le quali possono interagire con gli attributi psicologici e la personalità dei singoli individui.

Il principio di Peter (*) in estrema sintesi curata da Carlo Anibaldi

 Nel nord Europa, negli Stati Uniti e, recentemente, anche in Italia sono molti gli studiosi che si sono occupati di questioni connesse alla qualità dei Servizi e delle problematiche connesse all’ “out-come” aziendale, pubblico e privato. Molte delle dinamiche che spesso riteniamo scontate in quanto “insite nell’ordine delle cose di questo mondo”, in realtà sono spesso frutto di pregiudizi sull’immodificabilità dei comportamenti e causa del basso profilo che troppo spesso incontriamo nell’offerta di servizi, pur ad alto costo per la collettività.

Fra i molti postulati utili a definire il concetto espresso, ho scelto “Il Principio di Peter” (dello psicologo canadese Laurence Peter che, assieme a Raymond Hull, formulava in chiave satirica il meccanismo della carriera aziendale), perché ben si presta alla semplificazione di studi talvolta complessi. 

 Un individuo inserito in una scala gerarchica inizia l’attività con un ruolo preciso, svolgendo compiti precisi.  Se svolge bene i suoi compiti viene “promosso”, passando a compiti diversi. Dopo un certo tempo, se anche questi nuovi compiti vengono svolti bene, scatta una nuova promozione. Tali promozioni portano a posizioni dette apicali che, per definizione, devono essere occupate da persone con una spiccata attitudine a risolvere problemi.

 Il gioco delle promozioni continuerà così fino al momento in cui l’individuo non sarà più in grado di svolgere i compiti assegnatigli. Da quel punto in avanti non avrà più promozioni. Ha raggiunto il massimo della sua carriera. Per cui ecco il principio: In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza. Da questo principio discende che ogni posto chiave tende potenzialmente ad essere occupato da un incompetente, un soggetto cioè in grado di creare più problemi di quanti possa risolverne.  Il che spiega molte cose sul funzionamento di parecchie istituzioni. 

Le società anglosassoni, che pur hanno studiato questi fenomeni assai prima di noi, sembrano impigliate in questo meccanismo in misura meno drammatica, probabilmente a causa della maggior diffusione della dottrina protestante che, come sappiamo, è libera da sentimentalismi ed assai più rigida nelle questioni di principio. Il messaggio sotteso al principio in oggetto anche in Italia comincia finalmente ad essere recepito e nell’affidamento di incarichi apicali emerge la tendenza di confidare non tanto sulle persone-brave e/o brave-persone, quanto su persone qualificate nello specifico compito di risolvere problemi e conseguire obiettivi.

Ovviamente nella categoria delle persone-brave e/o brave-persone possiamo includere anche le persone brave nel farsi raccomandare. Questa pratica non è certo solo italiana, quello che però ci distingue è la curiosa attitudine a vantarcene piuttosto che a vergognarcene; in genere siamo infatti disponibili a concedere ammirazione ad un individuo solo per le sue reali o supposte conoscenze importanti. Tale ammirazione troppo spesso trascende le reali competenze del soggetto e le sue effettive capacità.

In definitiva, se da una parte è indubbiamente premiante promuovere Capostazione un bravo Macchinista, oppure Direttore Sanitario un bravo Primario, dall’altra, come abbiamo visto, non è sempre detto che questo consolidato modo di operare faccia gli effettivi interessi delle rispettive aziende e degli utenti che vi afferiscono.

 SINDROMI FOBICHE

Il sintomo cardine di questa forma è la fobia, timore morboso, riconosciuto come tale dal paziente, di situazioni, oggetti, animali e via dicendo di per sé non pericolosi o solo potenzialmente tali. Se la paura rappresenta la risposta emotiva ad un pericolo o ad una minaccia reali, la fobia al contrario è una paura del tutto immotivata. Le paure più diffuse sono:

agorafobia: paura delle piazze, degli spazi aperti;

claustrofobia: paura degli spazi chiusi;
ereutofobia: timore di arrossire;

rupofobia: timore dello sporco;

nosofobia o patofobia: paura delle malattie o delle infezioni.
Di solito, anche se la maggiore importanza non viene attribuita al contenuto, ma alle modalità con cui quanto è temuto viene vissuto dal paziente, si distinguono:
le fobie di situazione (chiuso, aperto, buio, acqua, temporali eccetera);
le fobie di esseri viventi (cani, gatti, serpenti eccetera);
le fobie di oggetti (coltelli, vetri eccetera).

Nel fobico il senso della realtà rimane intatto
Spesso la fobia, del tutto sproporzionata ed illogica, è talmente invasiva e minacciosa da comportare un vero e proprio stato ansioso e più spesso insorge o si accentua in forma di crisi in occasione di determinate situazioni o in presenza reale o anche solo immaginata di oggetti o condizioni particolari, spesso come ansia anticipatoria.

L’esistenza di generici atteggiamenti fobici, quali un senso di apprensione e timorosità in occasione di malattie somatiche o in condizioni di attesa di avvenimenti tristi, se da una parte può considerarsi normale, dall’altra deve essere giudicata morbosa quanto più venga a mancare la proporzione tra risposta emotiva ed entità dei fatti.
Il fobico è impaurito dalle sue fobie, ne riconosce l’estraneità e l’abnormità e cerca di combatterle; la critica, il giudizio e l’aderenza alla realtà sono “intatti”.
Il fobico presenta spesso anche altri sintomi nevrotici, inserendosi in un quadro con forte componente ansiosa. Comunque la nevrosi fobica o fobico-ansiosa è caratterizzata da uno o più timori fobici, vissuti con gradi di ansietà diversi a seconda delle situazioni, con sintomi di tipo vegetativo (ipersudorazione, tachicardia) e le più varie somatizzazioni.
Il soggetto più che combattere contro i contenuti delle proprie paure, ne è spaventato ed evita le situazioni o gli oggetti temuti, potendo condurre, purché lontano dai motivi delle sue fobie, una vita abbastanza regolare.
Nell’interpretazione psicoanalitica, il fobico fugge dalle rappresentazioni che creano angoscia spostando inconsciamente su oggetti esterni o situazioni le allarmanti relazioni con oggetti interni: vi è cioè un passaggio di angoscia dallo spazio interno allo spazio esterno ed è questo processo a creare il sintomo fobico.

La Sindrome della Madre Malevola

Lo studio, neanche a dirlo viene dagli Stati Uniti. Il titolo è inquietante: Malicious Mother Sindrome, Sindrome della Madre Malevola, descritta in un articolo on line di Ira Daniel Turkat, pubblicato sul sito Fathers’ Right Newsline. L’articolo è quanto mai attuale per le tematiche che la nostra società sembra oggi doversi confrontare.

«Con il crescere del numero dei divorzi che coinvolgono i bambini, è emerso uno schema di comportamento anomalo che ha suscitato scarsa attenzione. Data la mancanza di dati scientifici disponibili sul disturbo, è necessario approfondire i problemi della classificazione, dell’eziologia, della cura, della prevenzione». Così si apre l’articolo, partendo dunque dalla constatazione dell’aumento del numero delle separazioni e dei divorzi ed il sempre più frequente coinvolgimento dei figli.

Il punto è che, se pure il conflitto trova una soluzione per via legale – dettata più da una razionalità giuridica distante dalle concrete esigenze psicologiche e pratiche che lo scioglimento della famiglia comporta – troppo spesso si lascia che il vero conflitto, quello che ha inizio all’uscita del Tribunale, svolga le proprie conseguenze senza l’ausilio di particolari forme di comprensione e controllo.

Se da una parte si è fatto fronte alle problematiche economiche che affliggono molte madri per il mancato o saltuario versamento dell’assegno di mantenimento, dall’altra non si ha piena consapevolezza di quali dinamiche di conflittualità possano scatenarsi nel contesto della rottura dei legami: fino a portare, in alcuni casi, la madre ad avviare una vera e propria “crociata” contro l’ex coniuge, utilizzando qualsiasi mezzo. Turkat fa riferimento ad una “anomalia globale” del comportamento, intendendo che tale anomalia comprende diverse caratteristiche: la manipolazione dei figli utilizzati come arma contro il padre (come accade per la Sindrome da Alienazione Genitoriale); la vessa­zione attraverso accuse gravi, e infondate, per lo più di presunte violenze, spesso di carattere sessuale; la consapevole volontà di violare le leggi pur di raggiungere lo scopo. Questo non vuol dire che non possa esistere una sindrome anche per il “padre malevolo” ma questo fenomeno si innesca nella consuetudine giuridica dell’affidamento della prole alla madre e nel “potere di gestione”, a volte arbitrario, che ne può derivare.

I principali modelli che aiutano a rintracciare il fenomeno della madre malevola nei casi di divorzio – e che Turkat supporta con esempi tratti da casi clinici e giudiziari -sono:

 

  1. I)    La madre, senza alcuna giustificazione razionale , è determinata a punire il marito da cui sta divorziando o ha divorziato:

−    tentando di alienare i figli dal padre;

−    coinvolgendo altri in azioni malevole contro il padre;

−    intraprendendo un contenzioso eccessivo

L’alienazione dei minori si esprime nella varietà di azioni intraprese dalle madri al fine di allontanare fisicamente e psicologicamente il figlio dal padre, coinvolgendo quindi la prole in prima persona nella “guerra” che hanno ingaggiato. Si va dalla calunnia diretta a quella più subdola, arrivando alla richiesta esplicita di adottare un atteggiamento “di parte”. Si tratta, in ogni caso, di un comportamento teso a sminuire la figura paterna; l’obbiettivo, infatti, è la punizione dell’altro genitore attraverso la “privazione”

La “punizione del marito” può essere ottenuta anche attraverso il coinvolgimento e la manipolazione di persone terze in azioni dolose (persone appartenenti al nucleo familiare, conoscenti, ma anche gli stessi professionisti – medici, psicologi, avvocati, ecc. – che si trovino ad avere rapporti con la madre). In questo caso, «è importante rilevare che la persona manipolata dalla madre è stata in qualche modo coinvolta nella rabbia della madre e “alienata” dal marito di questa in procinto di divorziare. La persona “raggirata” assume un tipico atteggiamento di virtuosa indignazione che contribuisce a creare un’atmosfera gratificante per la madre che sì appresta ad intraprendere azioni dolose.

Infine, pur essendo un diritto presentare istanze o avviare azioni legali nel caso se ne rintracci la necessità, l’eccesso di azioni legali intraprese viene spesso utilizzato per inasprire i rapporti e “colpire” l’ex coniuge. In casi estremi, si arriva a lanciare false e gravi accuse: come quella di abuso sessuale. Ma se «non c’è un vero e proprio abuso sessuale, l’abuso diventa la violenza alla quale i minori vengono sottoposti (Montecchi, 1999)».

 

2) La madre tenta semplicemente di impedire:

–                   le visite regolari dei figli al padre;

–                   le libere conversazioni telefoniche tra i figli e il padre;

–                   la partecipazione del padre alla vita scolastica e alle attività extracurricolari dei figli.

Questo secondo corpus di modelli comportamentali probabilmente è quello più utilizzato poiché dà risultati immediati ed è più sotterraneo. D’altronde, in sede legale, è difficile dimostrare che fatti di questo tipo siano realmente avvenuti. Per esempio, in caso di mancato rispetto delle modalità di visita, il genitore non affidatario può avvalersi dell’attuazione coattiva dei provvedimenti emessi dal giudice, ma di certo questa è una soluzione quasi mai praticata, considerando il trauma che riceverebbe il bambino.

I meccanismi descritti si innescano facilmente, soprattutto quando sono coinvolti figli minori, nella fase della separazione e del divorzio, che raramente sono avulsi da almeno un periodo di conflittualità  e rivendicazioni.

L’ostacolo al rapporto padre-figli attraverso la proibizione arbitraria da parte della madre di visite regolari, è sicuramente una delle conseguenze inflitte ai bambini, per i quali la continuità nel rapporto affettivo con il genitore non affidatario rappresenta un elemento fondamentale per il proprio sviluppo psico-fisico e per ritrovare un nuovo equilibrio nella situazione di distacco. Infatti questa alienazione è considerata una forma di violenza sul bambino (Levy, 1992).

Nello stesso contesto si colloca la privazione di libere comunicazioni telefoniche padri-figli, che pure rappresentano un mezzo per mantenere legami di “vicinanza”: «alcuni padri trovano questi tentativi di alienazione così dolorosi che alla fine smettono di telefonare ai figli: semplicemente “mollano”. In uno scenario di sconfitta, l’abbandono del padre (Hodge) raggiunge proprio il risultato che la madre si proponeva».

Un altro livello su cui si svolge il conflitto è quello delle attività extracurriculari; attività sportive o extrascolastiche, riunioni dei genitori, compleanni, ma anche eventi che riguardino la quotidianità di un bimbo, insomma, tutto ciò che si svolgeva prima del divorzio e in cui la presenza del padre rappresentava la normalità. La madre affetta dalla sindrome della “madre malevola” agisce, in pratica, mettendo in atto una sorta di boicottaggio quasi impossibile da contrastare; soprattutto se si considera che il rapporto del genitore affidatario è praticamente quotidiano ed esclusivo.  D’altra parte, non c’è a livello giuridico una risposta di tipo sanzionatorio, a meno che questi avvenimenti non si protraggono nel tempo in maniera recidiva ed eclatante.

3) Lo schema è pervasivo e comprende azioni malevole come:

–                   mentire ai figli;

–                   mentire ad altri;

–                   violare la legge.

Se si pensa che i minori coinvolti in separazioni e divorzi in Italia sono stati, solo nel corso del 2°000, 68.563 (Istat) e che ci si riferisce a soggetti in età evolutiva, ancora emotivamente e psicologicamente vulnerabili, si può immaginare quali possano essere le conseguenze, nel tempo, di un comportamento volto a distorcere completamente la realtà, mentendo e influenzando negativamente i propri figli. Alcuni esempi, riportati sempre da Turkat, possono essere più che esplicativi: «Una madre in fase di divorzio ha detto alla sua giovanissima figlia che il marito non era il suo padre vero, anche se lo era» e ancora: «Una madre ha raccontato ai figli che il padre in passato l’aveva ripetutamente battuta, cosa assolutamente falsa”.

Da un confronto «con le manovre più sottili tipiche della PAS (…) la madre che causa la PAS può insinuare che vi è stata violenza, mentre la madre affetta dalla sindrome della madre malevola afferma falsamente che vi è stata effettivamente violenza». I figli vengono coinvolti anche quando le “menzogne malevole” sono indirizzate ad altre persone. I recenti casi di cronaca che sempre più spesso vedono prosciolti padri ingiustamente accusati di abusi sui propri figli sono l’esempio più lampante di un problema che si intreccia anche con la difficile questione dell’ascolto giudiziario del minore. Un’accusa così grave può essere facilmente utilizzata, dalla madre affetta dalla sindrome, in sede giudiziaria, ed avere effetti devastanti. Basti pensare che in questi casi l’allontana,mento precauzionale del minore dal genitore accusato è immediato.

Anche la violazione sistematica delle leggi e delle regole sociali per ottenere una sorta di vittoria o di risarcirnento sembra rientrare in un’ottica ai limiti della psicosi: «Gli esempi possono richiamare alla mente certi disturbi della personalità (antisociale, borderline, sadica); tuttavia questi comportamenti si possono riscontrare anche in donne affette da sindrome della madre malevola che non sembrano conformarsi ai modelli diagnostici ufficiali del disturbo di tipo AXIS II. Inoltre nessuna delle madri malevole ha subito una condanna dal giudice per il suo comportamento.

Infine, il quarto modello individuato da Turkat descrive la sindrome come un comportamento che non sembra derivare da un altro disturbo mentale in particolare.  Nella maggior parti dei casi, nei soggetto che rispondono ai modelli comportamentali della sindrome, non si riscontrano – come invece sarebbe facile presupporre – disturbi prima di affrontare la separazione o il divorzio. Infatti si tratta di soggetti che non hanno ricevuto una diagnosi o cure precedenti per disturbi mentali

 LE SINDROMI DA SOVRACCARICO NEI MUSICISTI E “L’ATLETA MUSICALE”

di Cristina Franchini

La mano è uno strumento preziosissimo per il musicista, anche se essi raramente ne conoscono l’anatomia e tanto meno la fisiologia.
La mano è parte del corpo, appendice estrema di un organismo che per funzionare nel migliore dei modi richiede il mantenimento di un equilibrio perfetto e di una funzione ottimale.

Quali sono i problemi di natura funzionale che possono interessare un musicista?
Per certi aspetti sono analoghi a quelli che, ben più noti, colpiscono gli atleti: contratture muscolari, traumatismi di vario grado, fratture da durata, tendinopatie, borsiti.
Tutta una serie di problemi nota come “Sindromi da sovraccarico funzionale”, “Overuse Syndrome” per la letteratura internazionale. Ma che cos’è in realtà una sindrome da sovraccarico?È un trauma? È uno sforzo? È una malattia?

Per Sindrome da sovraccarico (SDS) si deve intendere quella condizione derivata dall’eccesso, dall’abuso o dal cattivo uso che una determinata persona fa delle sue possibilità fisiologiche.
Il sovraccarico, che non è da confondersi con lo sforzo acuto ed improvviso, è un evento che compare nel tempo, è determinato da diversi fattori come l’uso prolungato, il carico eccessivo, le posture scorrette, gli strumenti inadeguati.
Tutte queste, ed altre condizioni, possono determinare una sofferenza delle strutture muscolari e legamentose soprattutto agli arti superiori.
Le lesioni da sovraccarico dell’apparato locomotore sono frequenti nei pazienti che esercitano un’attività sportiva o musicale in modo intensivo e continuativo.
Non stupisca il paragone, ma da più parti è entrato nel linguaggio comune parlare di “atleta musicale”, che rende più chiara la necessità che ha anche un musicista di essere in condizioni fisiche adatte alle esigenze della propria attività. Le lesioni sono identificabili come micro traumatrismi, sovraccarico, termine che solitamente traduce quello inglese più usato di “overuse”. L’età, gli sforzi, i fattori meccanici specifici, sono elementi molto importanti nella determinazione di una lesione da sovraccarico. È frequente riscontrarle in soggetti giovani senza precedenti patologici (15 – 25 anni) oppure nei soggetti più adulti (30 -40 anni) con intensa attività.

I fattori favorenti una sindrome da sovraccarico sono molto diversi tra loro, possono essere intrinseci od estrinseci.

I fattori metabolici come un’ipercolesterolemia, l’iperuricemia, alterazioni anatomiche di tipo congenito sono da annoverare tra i fattori intrinseci, mentre i fattori estrinseci possono dipendere da un errore nella pratica, nell’allenamento, nella quantità, nell’aumento improvviso del tempo dedicato al lavoro (necessità di preparare in breve tempo un concerto o un esame), nell’aumento dell’intensità con cui si pratica quel determinato lavoro; nei dilettanti è frequente vedere comparire una sindrome da sovraccarico per un errore di tecnica o per un cattivo adattamento allo strumento usato.

Si possono distinguere sindromi da sovraccarico benigne, per lo più descritte dal musicista come un dolore diffuso che compare durante l’attività strumentale e che scompare al momento della sospensione, e le sindromi da sovraccarico “gravi”, o vere e proprie “Overuse Syndrome” caratterizzate da dolori persistenti che non scompaiono con il riposo.

Altre forme di Sindrome da Sovraccarico sono le compressioni vascolo nervose che comportano pesantezza agli arti superiori, parestesie, rallentamento del gesto musicale, e la Distonia di funzione, che è la patologia più temuta dai musicista perché può essere causa di una interruzione definitiva di ogni attività artistica.
Da pochi anni si è diffusa e consolidata la necessità di istituire speciali servizi a cui i musicisti possano rivolgersi per ricevere assistenza e soprattutto consiglio preventivo. Infatti è nella prevenzione, nella conoscenza della propria anatomia, analogamente alla conoscenza della musica da eseguire, che il musicista può trovare sicurezza e forza per la propria espressione musicale.

SINDROMI DI GUERRA E DEL REDUCE

Psichiatria e  interpretazione degli artisti

 

Nel descrive l’arte degli schizofrenici Karl Jaspers afferma che in essa, espressione particolarmente emblematica della vita psichica, c’è soprattutto la tendenza a dare “la rappresentazione di un insieme del mondo e  dell’essenza delle cose”.  E infatti, conversando con i malati  autori dei disegni, Karl  Jaspers rilevò che è possibile «venire a sapere che spesso le cose più semplici sono piene di significato simbolico e di fantastichi arricchimenti».

Dopo essere stato colpito da una crisi nervosa, o forse psicotica, il più importante pittore norvegese, Edvard  Munch rimase più di un anno  senza più lavorare, poi l’artista, che prima della malattia aveva avuto tendenze simboliste, si presentò con un tipo di pittura del tutto nuova, e profondamente mutata. La conoscenza del poeta Mallarmé , che posò per un ritratto, modificarono ancor più l’arte di Munch. In lui, l’angoscia metafisica trova l’espressione nel torbido arzigogolo delle immagini. Deliri e incubi  ritrasse Edvard Munch, denunciando il proprio animo travagliato, in cui nell’esperienza tragica di un delirio espresso da visi disumani. L’urlo, in cui le forme sono ondulate, irreali, modificate dall’angoscia e Angoscia, entrambe manifestazioni di un’ansia, che ha una valenza metafisica.

Dal 1911 il pittore alleggerì la tensione “nevrotica” e mutò le figure dell’angoscia in un espressionismo quasi realistico, ( frutto forse della sua “guarigione”) con una  tematica sociale, col bisogno di rinnovare la società, motivi che confluirono nell’arte di Munch assieme a un misticismo cosmico, e a un complesso  e torbido  senso dell’esistenza  in sintonia  con la letteratura scandinava, e materia tutta che che troverà una simbiosi  filosofica  nelle esperienze degli esistenzialisti.

 

 

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[2] J. Spencer  The mental health of Jehovah’s Witness, in British Journal of Psychiatry,126-1975, p 556-559

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[8] T. Nathan, op cit.

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