Romanzo siciliano

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ROMANZO SICILIANO,Edito da AGORA’ nel marzo 2013

Romanzo Siciliano, racconta le vicissitudini di una famiglia vissuta in provincia di Catania tra della seconda metà dell’800 e la prima metà dell’900.
Prendendo spunto dalle vicende di questa famiglia di contadini, i Patané, agli inizi, povera, e che grazie alla tempra di Raffaele uno dei suoi componenti, in seguito divenne agiata, nel “Romanzo Siciliano” vivono personaggi che allora si riscontravano nella realtà quotidiana; molte delle vicende narrate sono realmente accadute, anche se hanno subito qualche manipolazione.
I l romanzo illustra come si svolgeva la vita in Sicilia a quel tempo, quali le condizioni sociali e politiche, quali i problemi della gente, quali gli avvenimenti storici. Ho raccontato tutto questo per ravvivare il ricordo di eventi importanti che tuttavia a poco a poco sono stati dimenticati e che non è giusto che passino nell’oblio.
Parlo dell’Esposizione Agricola di Catania del 1907 che l’Europa ci invidiò, e che si tenne in quella che ora si chiama Piazza Verga ma che prima era chiamata Piazza Esposizione, parlo degli archi della marina sotto i quali arrivava il mare, parlo della condizione dei carusi che già a sei anni lavoravano sedici ore al giorno nelle miniere di zolfo, dove, i “carusi” avevano un’esistenza oltraggiosa e squallida, parlo del lavoro nei campi che si svolgeva senza un orario preciso, dall’alba al tramonto, e via dicendo.
Si narra di braccianti e pecorai, di contadini e operai che sgobbavano nelle terre dei padroni e che subivano ogni sorta di soprusi.
Il libro racconta anche il coraggio che i giovani siciliani dimostrarono nelle trincee della Prima Guerra Mondiale, gli abusi dei nazifascisti e, della Seconda Guerra Mondiale, racconta i devastanti bombardamenti in Sicilia e in particolare su Catania, quelli dell’agosto ’41, di giugno 42, e di gennaio, marzo aprile, e luglio ’43.
Romanzo siciliano non tratta dunque solo le vicende dei Patanè, ma quelle di un popolo che sopportò le angherie dei feudatari e dei capi operai. Ciò che descrivo nel romanzo era ciò che realmente accadeva a quel tempo ai braccianti , ai zolfatari, agli operai.
Per trovare lavoro, bisognava essere ingaggiati da campieri o da soprastanti, veri e propri negrieri e sfruttatori.
Tuttavia il popolo veniva spinto a credere che era colpa di Napoli se non poteva essere trattato meglio, perché Napoli chiedeva ai proprietari tante tasse e non potevano trattare meglio i loro lavoranti.
Alla lunga questo fu uno dei motivi delle rivolte delle città siciliani contro i Borbone di Napoli!
Alcuni dei Patané, come accadeva in molte famiglie, emigrarono in Francia, altri Germania, altri negli Stati Uniti.
I personaggi del romanzo mettono in luce il carattere e la tempra dei siciliani, la complessità dei sentimenti e le passioni, la tenacia nelle avversità e il coraggio nel ribellarsi .
Romanzo Siciliano diventa così un caleidoscopio di tipi e vicende, di rapporti familiari a volte anche torbidi, uno spaccato sociale, che rappresenta quasi una metafora della condizione umana. Romanzo Siciliano rivela i valori arcaici, la filosofia, la cultura, la religiosità del siciliano e racconta la vita quotidiana tra l’800 e il ‘900 così come si svolgeva a Catania e provincia.
Nel romanzo sono descritti il coraggio e la paura, l’amore e l’odio, la generosità, la grettezza, la sessualità, l’amicizia, i rapporti di parentela, così com’erano in quel periodo, con le inevitabili ipocrisie, i pregiudizi, e le avarizie ma anche con gli atti di generosità.
Nel Romanzo risalta la operosità del popolo, le sue tradizioni, la tipicità lavorativa, la genialità artistica.
In Sicilia contadini, pescatori, ciabattini, artigiani, pecorai, formavano un’umanità semplice e autentica.
Dalla pastorizia all’apicoltura, dalla vendemmia, dalla lavorazione della terracotta alla tessitura di armoniosi tappeti. Il siciliano è stato protagonista di una dimensione umana tra le più interessanti.
Le vicende narrate nel libro hanno riferimenti socio-politici ed economici e sottolineano la crisi della Sicilia post-unitaria, che non ottenne i vantaggi sperati anche per l’insipienza dei deputati e senatori isolani, impegnati solo a mantenere il loro potere locale.
Il disinteresse dei deputati siciliani che erano al parlamento a Roma peggiorò le condizioni dell’agricoltura, del commercio e dei cantieri navali.
Il romanzo racconta come il popolo siciliano visse avvenimenti avversi e fu sottoposto a individui che lo torchiavano e lo prevaricarono;
In Sicilia il popolo, subiva la prepotenze dei “cappelli”, cioè i capi ciurma e dei possidenti oppressori, oltre ché degli sgherri a sevizio dei ricchi, e che imponevano taglie e tangenti, e subiva la politica degli inglesi che avevano in mano l’isola perché serviva loro per proteggere un punto strategico nel mediterraneo.
Si pensi che a Bronte nel 1799 gli abitanti di quel paese erano stati spodestati di parte delle loro terre perché iI Borbone donò a Nelson un feudo denominato poi ducea di Nelson.
Garibald aveva promesso lo smantellamento dei latifondi e la spartizione ai contadini delle terre del feudo di Nelson. Ciò aveva riacceso le speranze dei contadini che attesero la restituzione del feudo Nelson.
Ma questo non avvenne.
A Bronte, non venne nemmeno abolita la tassa sul macinato. A Bronte che il 2 agosto del ‘60 scattò l’insurrezione. Vennero appiccate le fiamme a decine di case, al teatro e all’archivio comunale. Iniziò una caccia ai feudatari, ai nobili e ai cappelli. La rabbia dei cittadini sfociò in un massacro cui seguì un altrettanto efferato giudizio sommario.
Nino Bixio, inviato da Garibaldi a sedare la rivolta per evitare di compromettere i rapporti con il governo inglese, rappresentato dagli eredi di Nelson fu durissimo contro i rivoltosi.
Garibaldi con decreto emanò la pena di morte per i reati di furto, omicidio, saccheggio e devastazione.
Il tribunale di guerra con un processo durato solo quattro ore giudicò 150 persone e condannò alla pena capitale l’avvocato Nicolò Lombardo (acclamato sindaco dopo l’eccidio), insieme ad altre quattro persone.
In seguito, alla luce di ricostruzioni storiche si appurò che Lombardo era estraneo alla rivolta; ma invitato a fuggire si sarebbe rifiutato per difendere il proprio onore. Tra i condannati vi fu un certo Nunzio Ciraldo incapace d’intendere e di volere.
Queste e altre delusioni, questi e altri soprusi che avvennero prima e dopo l’arrivo di Garibaldi in Sicilia fecero sì che il popolo si rivoltò contro i latifondisti, contro il clero locale, contro i nobili, contro il governo Borbonico.
Fu una ribellione sociale e politica una denuncia della insopportabile condizione dei contadini, del degrado del lavoro minorile, degli abusi dei ricchi e del malgoverno borbonico.
Per tacitare il malumore della popolazione Ferdinando I nel 1812 emanò una costituzione che prevedeva un potere legislativo a due camere, dei Comuni (voto censitario) e dei Pari (ecclesiastico e militare,con cariche vitalizie), un esecutivo in mano al re ed un giudiziario composto di togati indipendenti (anche se soltanto formalmente).
Ma la Costituzione che non venne applicata in Sicilia.
La prima a ribellarsi nel 1820 fu Messina poi Palermo e Catania, e cominciarono i primi tentativi di rendersi indipendenti dai Borbone e da Napoli.
Per capire la situazione i Sicilia, andiamo un po’ indietro negli anni:
nel 1816, il congresso di Vienna aveva soppresso il Regno di Napoli e il Regno di Sicilia assegnati a Ferdinando di Borbone, che chiamò il suo reame, Regno delle Due Sicilie. Il sovrano, assumeva in sé la corona napoletana (al di qua del Faro), e quella siciliana (al di là del Faro), come Ferdinando II. Regno delle Due Sicilie aveva come capitale Napoli, ma Palermo, aveva pari dignità, come capitale della Sicilia.
Il Regno delle Due Sicilie durò dal 1816 a 1861.

Perché due Sicilie?
Nel 1130 il normanno Ruggero II d’Altavilla fu nominato, dall’antipapa Anacleto II° re di Sicilia; dopo Federico II e Manfredi, nel 1266 il papa diede il regno di Sicilia a Carlo d’Angiò. Ma il popolo siciliano non era contento di come veniva trattato dai francesi e nel 1282, con la Guerra del Vespro scatenata contro i francesi, Carlo I° d’Angiò, re di Sicilia fu cacciato da Palermo e si ritirò a Napoli. Carlo non volle perdere il titolo, e continuò a chiamarsi “Re di Sicilia” pur governando solo a Napoli.
A Palermo, avendo gli aragonesi vinto gli angioini, rimase Pietro D’Aragona e fu nominato re di Sicilia. Si ebbero così dal XIII secolo al XIX due re di Sicilia uno a Napoli (regno di Sicilia citeriore) e un altro a Palermo ( regno di Sicilia ulteriore).
(Nel Regno delle due Sicilie, vi erano due tipi di monete: l’onza (o oncia) in Sicilia e nel napoletano il ducato)
Con la unificazione del 1816 tuttavia non cessò il dualismo tra regno di Sicilia citeriore( a Napoli) e regno di Sicilia ulteriore ( a Palermo). I siciliani si sentivano trattati male e il malumore cresceva contro i Borbone che stavano a Napoli.
La rivoluzione del 1848 fu sostanzialmente dettata dal bisogno che la Sicilia sentiva di staccarsi da Napoli. Organizzata a Palermo fu di natura popolare e guidata da Rosolino Pilo. I siciliani vollero rispolverare la costituzione del 1812 ( concessa da Ferdinando I morto nel 1825) che includeva i principi della democrazia rappresentativa.
L’insurrezione portò alla creazione dello Stato di Sicilia con Ruggero Settimo come capo del governo. Fu dichiarata decaduta la dinastia borbonica e offerto il trono di Sicilia al Duca di Genova, figlio di Carlo Alberto, Alberto Amedeo di Savoia , ma questi rifiutò.
Continuò, invano, la ricerca di un nuovo regnante. Solo la ben fortificata città di Messina, fu sotto controllo del nuovo governo per pochi mesi, perché riconquistata dai Borboni per riprendere l’isola con la forza.

Prima che arrivasse Garibaldi, nel 1820 e 1848 la Sicilia dunque si ribellò con insurrezioni che furono soffocate nel sangue. Era re a quel tempo Ferdinando II di Borbone ( 1830-1859), re delle Due Sicilie figlio di Francesco I che aveva governato cinque anni, dal 1825 fino al 1830.

Questa gelosia dei siciliani verso Napoli che si sentivano trascurati e il disinteresse dei Borbone che stavano a Napoli verso la Sicilia creò il malcontento nei siciliani che sfociò nelle rivoluzioni del 1820, del 1848 e del 1860.

Tuttavia ad onor de vero il Regno delle due Sicilie non era così arretrato come la storiografia sabaudo-risorgimentale volle far credere
Già Carlo III di Borbone si era adoperato per rendere quel regno all’avanguardia. Ferdinando II i si adoperò nel tentativo di modernizzare il regno,( fece la ferrovia Napoli – Portici; mise il telegrafo, i faro lenticolare, e cercò di utilizzare tutti i ritrovati dell’ingegneria e dell’industria, risanò le paludi, portò l’acqua nelle case. Il regno nella prima metà dell’800 era considerato tra i più importati d’Europa, anche per la flotta che era considerata la III del mondo.)

Di questo benessere però poco ne usufruivano i siciliani e così con l’ondata rivoluzionaria che travolse l’Europa nel ’48, anche la Sicilia insorse, e le insurrezioni furono soffocate nel sangue dall’esercito borbonico.
Ferdinando II° fu soprannominato Re Bomba perché nel settembre del 1848 fece bombardare dalla flotta regia la città di Palermo e di Messina insorte contro il malgoverno. A Messina, dopo il bombardamento navale, da Reggio sbarcarono a Messina le truppe borboniche e in 4 giorni di combattimenti per le strade s’impossessarono nuovamente della città ribelle. Il Borbone contro i movimenti democratici scatenò pesanti repressioni. Ferdinando II morirà a 49 anni nel 1859 a Caserta, a causa di una pugnalata di attentatore, ferita che non venne ben curata e che gli fece setticemia.
Il regno passò a Francesco II° detto Franceschiello perché timido, idealista, poco avvezzo alle faccende di Stato. Sposò Maria Sofia di Baviera, sorella di Sissi, donna energica che lo aiutò nelle faccende dello Stato non poté evitare altre insurrezioni che si ebbero in seguito.

Romanzo Siciliano sottolinea il mancato rinnovamento sociale dell’Isola che non si ebbe, come s’era sperato, dopo l’Unità, lo sviluppo delle zone arretrate. Infatti, grandi erano state le aspettative peima dell’arrivo dei garibaldini in Sicilia.
Prima che arrivassero i Garibaldini, l’8 aprile del 1860, Catania fece eco alle rivolte di Palermo e di Messina. I catanesi scesero armati nel piano del Duomo. Tra gli insorti e le truppe borboniche vi furono scontri violenti. L’11 maggio Giuseppe Garibaldi con le “camicie rosse” sbarca a Marsala e la Sicilia si infiamma. Una curiosità: i Mille, in partenza da Quarto, erano in realtà 1162, ma in Sicilia, dopo la fermata a Talamone, ne arrivarono solo 1.089. A indossare la camicia rossa erano solo 150, gli altri avevano abiti i più disparati. Quando passarono in Calabria i “garibaldini” erano 20.000, e 30.000 erano in Campania.
Catania segue con entusiasmo le notizie dell’avanzata dei garibaldini, e alza barricate sulla via del Corso, nella piazza San Francesco nella piazza San Placido, e nelle piazze del Duomo e dell’Università. A piazza Università attorno alle barricate si accende una lotta accanita.
L’intrepida popolana Peppa (Giuseppa) Bolognara, di Barcellona Pozzo di Gotto guida un gruppo di insorti e conquista un cannone. Mentre lo stanno portando in piazza Ogninella due squadroni di lancieri si scagliano contro i popolani insorti, i quali temendo di essere presi, abbandonando l’arma già carica. Peppa restò impavida; sparse della polvere sul cannone e attese che i lancieri si avvicinassero. Appena gli squadroni dei Borbone si mossero, essa diede fuoco alla polvere e i cavalieri borbonici credettero che il cannone avesse fatto cilecca e si slanciarono alla carica per riguadagnare il pezzo perduto; quando si avvicinarono, la coraggiosa donna diede fuoco alla carica vera e il cannone sparò con grave danno degli assalitori. La popolana, scarica una cannonata contro i borbonici, i quali, colti di sorpresa, si riparano in piazza degli Studi e nel palazzo degli Elefanti. Peppa rimase il simbolo della rivolta: una popolana coraggiosa, che vestiva con abiti maschili, frequentava le bettole, fumava la pipa, giocava a carte e beveva vino. Il Governo italiano a riconoscimento del suo eroismo le assegnò 216 ducati e una medaglia d’argento .
I borbonici si allontanano da Catania il 3 giugno e su tutte le torri, dal castello Ursino al castello di Aci, dal campanile del Duomo ai balconi del palazzo di città sventolarono le bandiere tricolori.

A Catania venne costituita la guardia nazionale guidata dal marchese di Casalotto, Domenico Bonaccorsi. Garibaldi dopo aver conquistato la Sicilia passò in Calabria e poi nel napoletano e al Volturno sconfisse definitivamente le truppe borboniche.
Queste truppe borboniche pochi sanno che, dopo la sconfitta, erano in un numero imprecisato, tra 17.000 e a trentamila, e furono arrestate e portate in Piemonte, dove rimasero rinchiuse per la maggior parte nel carcere di massima sicurezza delle Fenestrelle.
Qui i soldati borbonici che non si vollero arruolare nell’esercito piemontese furono sottoposti al carcere duro, molti morirono di tubercolosi, altri di stenti. I generali borbonici invece passarono quasi tutti nell’esercito del Piemonte e sebbene fossero quasi tutti settantenni, furono poi incorporati nell’esercito italiano.

La trama del romanzo si svolge dagli anni settanta dell’800 alla prima metà del 900 e mette in luce gli avvenimenti più salienti di quel periodo.

Dopo la cacciata dei Borboni dalla Sicilia, malgrado le promesse dei Piemontesi fallì l’attesa ripresa sociale e fallirono gli ideali tanto propagandati. Un pantano di scandali, di corruzione e di malgoverno affossarono il Meridione.
Ma c’era di più: il Governo, agli inizi, non si schierò dalla parte dei deboli.
Con i FATTI DI BRONTE
Dopo le battaglie sostenute contro i soldati borbonici, la Sicilia subì la repressione dei Piemontesi.

Il GENERALE GOVONE (1863)
Altro grave episodio lo riscontriamo nel comportamento del Generale Govone inviato dal Governo per sedare le rivolte e di debellare il brigantaggio nelle province del Mezzogiorno.
Anche in questo caso la popolazione meridionale subì soprusi e prevaricazioni.
Nel 1863 Govone, ritenendo necessaria la crudeltà per governare, infierì sulla Sicilia con sei mesi di operazioni militari su vasta scala. Famiglie e villaggi vennero trattenuti in ostaggio e subirono violenze d’ogni tipo. Il generale tagliò l’erogazione dell’acqua proprio nel pieno della calura siciliana, fece ricorso alla tortura per ottenere informazioni su brigati e addirittura lasciò bruciare per rappresaglia le case dei contadini reticenti.
In seguito egli spiegò a giustificazione della sua crudeltà che i siciliani erano barbari e non si poteva trattarli che duramente!

La verità è che sin dall’inizio dell’operazione dei Mille, le cose non andarono nel giusto verso a favore dei siciliani. Si pensi ad esempio che dopo lo sbarco in Sicilia, Garibaldi sequestrò a Palermo tutti i fondi del Banco di Sicilia. Si trattava vero del denaro del governo Borbone, ma c’erano anche molti soldi dei siciliani, i quali si videro privati delle loro sostanze, e malgrado le assicurazioni di Garibaldi, che disse che il governo Piemontese si sarebbe fatto carico della restituzione ai proprietari del denaro confiscato, quel denaro non fu mai più ritornato ai siciliani
IPPOLITO NIEVO
A proposito del malgoverno nel meridione.
Ippolito Nievo era uno scrittore che propagandava l’unità d’Italia. Laureato i n giurisprudenza aveva scritto molti libri inneggiando al bisogno che l’Italia fosse unita. Aveva partecipato alla II guerra d’Indipendenza ed era molto stimato da Garibaldi che lo volle con sé nell’impresa dei Mille. Dopo la conquista dell’ Isola Garibaldi lo nominò intendente di Finanza dei mille. Anche il governo Torinese si aspettava da Nievo che mettesse ordine nella contabilità dell’intervento dei mille in Sicilia. Bisognava far luce su certi brogli finanziari che sembra avessero come protagonisti generali garibaldini e borbonici. Infatti sembra che dopo il sequestro del Banco di Sicilia palermitano, con quelle somme razziate fossero stati pagati i generali borbonici (Lanza e Landi) perché si arrendessero. Tutta la contabilità dei Mille era una faccenda da tenere segreta: infatti bisognava non far sapere che molti dei fondi che erano servito per lo sbarco in Sicilia, e per le operazioni belliche conseguenti ( affitto di navi da trasporto, vettovaglie per l’esercito, medicine, acquisto di armi, di vestiario etc. erano venuti da finanziamenti esteri e soprattutto dalla Massoneria londinese, ove operava Mazzini. Sembra che gli addetti agli acquisti avessero fatto la cresta sui prezzi, che alcuni generali delle divisioni di Garibaldi percepissero gli stipendi di garibaldini morti op di garibaldini passati in altri reparti, in questo caso, lo stesso soldato veniva pagato in due reparti: quello che aveva lasciato e quello in cui prestava realmente servizio. In tutta questo pasticcio, Ippolito Nievo cercò di far luce, ma pressioni, minacce, occultamento di fatture, e quant’altro si opponevano al suo lavoro di ricerca della verità. Quando i Mille arrivarono a Palermo avevano una cifra pari a 30 milioni di euro, e tanti altri ne vennero dall’Inghilterra(Circoli politici e sottoscrizioni mazziniane).
Tutto questo denaro fu dilapidato o sperperato, come l’acquisto di 60.ooo cappotti che non furono mai utilizzati dalle truppe. Il governo sostenuto da Cavour avrebbe voluto che il Nievo mettesse in luce quelle magagne. Se quelle carte fossero arrivate a un giudice, si diceva, molte testa sarebbero cadute. Per affrettare la fine dell’inchiesta di Nievo, Torino mandò il generale La Farina, il quale apertamente parteggiava per il liberali piemontesi e contro i garibaldini. A quel punto, Garibaldi mandò via dalla Sicilia il La Farina.
Finita la sua inchiesta Ippolito Nievo il 4.03.1861 parte col piroscafo Ercole per Napoli. Ha con se alcune casse di documenti e tutta la contabilità. La stessa note, nelle vicinanze del porto di Napoli, a causa di una tempesta, o per qualche altra causa, come il sabotaggio, il battello Ercole affonda, senza lasciare alcuna traccia. La cosa curiosa fu che solo il 17 03 1861 i giornali danno la notizia della scomparsa dell’Ercole! Nella nave oltre al Nievo c’erano altri garibaldini e 18 membri dell’equipaggio!
A margine di queste notizie c’è da sottolineare che parte del denaro sottratto al Banco di Sicilia andò nelle tasche del generale Lanza per la resa di Palermo. Il generale Landi fu ricompensato per la sua “resa” di Calatafimi con un pagherò di 14.000 ducati che in seguito risultò falso!

I FASCI SICILIANI, (dopo l’Unità) 1891-93
Romanzo Siciliano parla dei Fasci siciliani.
Il malcontento aumentò dopo le disillusioni del 1860.
I fasci furono un movimento di ispirazione democratica e socialista che si sviluppò dal 1891 al 1893 fra il proletariato contadino, minatori ed operai sull’esempio dei fasci operai dell’Italia centro-settentrionale.
Fu un tentativo di riscatto del proletariato urbano, dei braccianti agricoli, dei “zolfatai” dei minatori, e delle maestranze della marineria e degli operai che protestavano contro il latifondo e fu contro lo Stato che appoggiava la classe benestante.
Il feudalesimo in Sicilia se pur abolito agli inizi del XIX secolo condizionava la distribuzione delle terre e delle ricchezze.
I Fasci chiedevano riforme fiscali, la radicale riforma agraria, la revisione dei patti agrari, l’abolizione delle gabelle e la distribuzione delle terre a chi le lavorava.
I Fasci fondati a Catania nel 1891 furono guidati da Giuseppe de Felice Giuffrida. Il movimento si estese a Messina. Ad esso fece seguito il Fascio di Palermo (nel 1892) e la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani (agosto 1892).
Ai questi Fasci se ne aggiunsero altri e a il movimento si era diffuso in tutta l’Isola.
Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo (PA) 500 contadini di ritorno dall’occupazione simbolica di terre di demanio vennero dispersi da soldati e carabinieri i quali spararono sulla folla e molti manifestanti vennero uccisi. Il massacro di Caltavuturo esasperò lo scontro sociale.
A maggio del 1893 si tiene il congresso di Palermo cui parteciparono delegati di 90 Fasci socialisti. Nell’autunno del 1893, il movimento quando organizzò scioperi in tutta l’isola e tentò una insurrezione.
La società siciliana fu sconvolta, ovunque si ebbero violenti scontri sociali per il rinnovo dei contratti.
Il consiglio il siciliano Francesco Crispi, nel tentativo di ristabilire l’ordine adottò la linea dura contro i rivoltosi con un intervento militare.
Il movimento dei Fasci fu sciolto nel 1894 e i capi vennero arrestati. Il tribunale militare di Palermo condannò Giuseppe de Felice Giuffrida a 18 anni, Rosario Bosco, Nicola Barbato e Bernardino Verro a 12 anni.
L’anno dopo un’amnistia fu concessa a tutti i condannati.
Si concludeva così il primo movimento organizzato contro i proprietari fondiari, e di emancipazione delle classi più umili.
I Fasci siciliani furono tragicamente repressi anche dai mafiosi locali oltre che dal governo nazionale.
Si contarono più di cento morti, diverse centinaia i feriti e oltre tremila cinquecento rinchiusi nelle patrie galere.

LE TERRE DEI FEUDATARI

Sebbene dopo il 1860 i feudi, sulla carta , fossero stati trasformati in proprietà private, non ci fu la formazione di una classe di piccoli e medi proprietari. Le terre vendute dai baroni in dissesto finanziario, ingrandirono i latifondi di altri feudatari più fortunati e di gabelloti arricchiti.
Il sistema del latifondo, quindi, continuava a caratterizzare l’agricoltura e la struttura sociale.
Il latifondo non si smembrò e i terreni, concessi in enfiteusi o venduti, furono accaparrati da grandi proprietari terrieri e dai gabelloti.
I contadini Patané , nel romanzo , lottano a lungo prima di potersi impossessare di terre che sarebbero dovute essere distribuite ai contadini.
Sarà Raffaele Patané a poco a poco ad appropriarsi di vari appezzamenti di terreno sottraendoli alle cosche mafiose e a grossi feudatari senza scrupoli.

A quel tempo molte terre erano gestite mediante l’enfiteusi.

L’enfiteusi è un diritto di godimento su una proprietà altrui, e tra i diritti è quello più esteso, quasi un diritto di proprietà. La proprietà resta al concedente, ma il proprietario si spoglia di ogni suo diritto, o in perpetuo oppure per non meno di 20 anni. L’enfiteuta corrisponde un indennizzo annuale al proprietario e lo gestisce come se fosse lui il proprietario. Egli può anche chiedere al proprietario di affrancare il fondo.

Oltre agli enfiteuti c’erano le GABELLE.
Quando l’aristocrazia siciliana si trasferì nelle città i proprietari cedettero le terre, dietro pagamento di una GABELLA, ad affittuari chiamati gabelloti.
Il mercato delle gabelle, era controllato da organizzazioni mafiose. Molti GABELLOTI, erano affiliati a queste organizzazioni, così come lo erano i “SOPRASTANTI”, uomini di fiducia dei gabelloti, ed i “CAMPIERI”, i quali costituivano una sorta di polizia privata del feudo.
I gabelloti, a loro volta, subaffittavano le terre ai contadini, chiedendo loro un canone di gran lunga superiore alla gabella che pagavano ai proprietari.
Essi speculavano sullo stato di bisogno dei “villani” e spalleggiati dai campieri e dai soprastanti, ricorrevano alla violenza sia per assoggettare i contadini sia anche per far desistere i proprietari da aumenti degli affitti.
Con questi sistemi i gabelloti accumulavano denaro e acquistavano terre dagli ex-feudatari, o partecipando con le intimidazioni alle aste dei beni ecclesiastici. Così impedivano la redistribuzione delle terre ai contadini.
Il gabelloto, divenuto latifondista, si faceva riconoscere dalla monarchia borbonica prima, e sabauda dopo, un titolo nobiliare, di solito quello di barone; chi non vi riusciva si contentava di quello di galantuomo, con diritto al voto.
La popolazione siciliana era così costituita: dai grandi proprietari terrieri; dai gabelloti; dai borghesi; dai contadini e dai giornalieri che lavoravano nell’agricoltura.
I borghesi erano i piccoli e medi proprietari, coloro che, in qualche modo, erano riusciti ad acquistare qualche ettaro di terra, in seguito alla vendita dei beni della Chiesa.
Le condizioni dei borghesi erano difficili per le numerose tasse che li costringevano a ricorrere a prestiti usurari.
I grandi proprietari preferivano cedere la terra ai gabelloti e costoro, come s’è visto, la subaffittavano ai coloni, sottoponendoli a contratti iniqui.
I patti colonici più diffusi, erano la mezzadria ed il terratico.

Con la MEZZADRIA il proprietario o il gabelloto concedeva al colono la terra e anticipava le sementi, mentre il colono era tenuto a fare tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva ripartito con vari sistemi. Nel contratto di mezzadria c’era lo sfruttamento del colono da parte del proprietario o del gabelloto.
Il contadino e il mezzadro che usavano i muli e la attrezzatura per lavorare la terra, era indebitati in permanenza col gabelloto.
Inoltre il contratto era verbale, e dava adito ad abusi da parte del gabelloto. Della sua quota, il mezzadro doveva cederne una parte che il gabelloto distribuiva tra i campieri. Questi donativi erano in realtà tributi che il contadino pagava in cambio di protezione.

Il TERRATICO era, più svantaggioso della mezzadria. Mentre in quest’ultimo contratto il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva corrispondere al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dalla buona riuscita del raccolto; era per ciò un contratto capestro.
Una delle rivendicazioni principali dei Fasci sarà proprio la sostituzione del terratico con la mezzadria.

Nell’800 la più grande industria siciliana erano LE ZOLFARE. In molte province dell’Isola, soprattutto in quelle di Caltanissetta, Enna ed Agrigento, le zolfare rappresentavano l’unica speranza per uscire dall’assoluta indigenza in cui versava la popolazione.
Era una conquista lavorare nelle miniere e, seppur sfruttati e con uno stipendio da fame, era la maniera di sopravvivere tra mille stenti.
Gli zolfai subivano orari di lavoro disumani, e lavoravano tra mille pericoli, col rischio di restare asfissianti nei piccoli cunicoli sotterranei.
Nei cuniculi stavano spogliati delle loro vesti e della loro dignità di uomini, e furono l’esempio più triste dello sfruttamento umano.
Soprattutto i “carusi”, subivano maggiori angherie nelle miniere.
Riguardo agli zolfatari, la loro situazione era simile da quella dei contadini del latifondo, anch’essi sfruttati, per lo più, da gabelloti mafiosi.
I gabelloti delle miniere, al pari dei gabelloti agrari, prendevano in affitto le miniere dai proprietari e si approfittavano il più possibile i “picconieri” e i “carusi”.
I “picconieri” estraevano il minerale di zolfo e venivano pagati a cottimo.
I “carusi” erano ragazzi dagli otto anni in su che avevano il compito di trasportare, a spalla, il carico di minerale estratto fino all’imbocco della miniera. Era lì che il picconiere, per contratto, doveva consegnare lo zolfo al gabelloto.
La vita media era tra 40 e 45 anni. I bambini lavoravano al pari dei grandi: soltanto nel 1886 una legge stabilì l’età minima di 9 anni per il lavoro nelle cave, nelle miniere e nelle fabbriche, per un massimo di 8 ore al giorno. Per quelli che avevano 12 anni non c’era più un limite. La legge non contemplava il lavoro minorile nei campi, dove i bambini erano impiegati sin dai 6 anni. Questa era la Sicilia nella quale si sono svolti gli avvenimenti della famiglia Patanè, raccontati dal mio romanzo.

Giuseppe Paradiso