Teatroterapia

Giuseppe Paradiso

IL TEATRO COME LUOGO TERAPEUTICO

Premessa

Il termine dramma deriva dal greco, significa azione (e per analogia anche “vicenda” e “azione scenica”) e indica qualsiasi componimento destinato alla rappresentazione teatrale.
Ogni forma di recitazione come tragedia, commedia, satira, farsa, melodramma, vaudeville, pochade, operetta, etc. etc., è una manifestazione drammatica. La storia del dramma si identifica dunque con la storia del teatro.
Nel Medioevo forme drammatiche rituali erano i Mystères e i Miracles (Francia); i Misterios (Spagna); i Miracles Plays (Inghilterra), tutte drammatizzazioni rituali di origine religiosa e popolare.
Il teatro profano medievale ha le sue radici nelle feste annuali e stagionali, detti “maggi drammatici” e festa di “Calendimaggio”, che sono, a parere di molti autori, l’origine della Commedia dell’Arte.
Nel ‘500, dall’incontro tra musica e dramma, ebbe origine il Melodramma che, realizzato in seguito sotto varie forme, assunse un significato particolare e indipendente dagli altri modelli drammatici quali la tragedia, la commedia, la farsa etc. etc.
Il dramma italiano, tra Ottocento e Novecento, rappresentò nel palcoscenico soprattutto la vita contemporanea, con i suoi problemi sociali, relazionali e psicologici. Su quest’ultimo punto fu il siciliano Luigi Pirandello a tratteggiare, nelle sue opere di teatro, quasi fino alla esasperazione, il bisogno di analisi interiore e le inquietudini dell’animo umano.
Pirandello ha mostrato quanto capricciosa possa essere la verità, che manipolata può apparire sotto vari aspetti, a volte anche contraddittori.
Il gioco della verità e dell’illusione, lo sfaldarsi della realtà e con essa della personalità sono contraddizioni quotidiane che lo scrittore siciliano ha fatto emergere nelle sue opere teatrali con conturbante meticolosità.
Il dramma, come approfondimento di analisi e di situazioni psicologiche e sociali, si trova anche in Gogol, Turgeniev, Cecov, Anouilh, Eliot, O’Neil, T. Williams, Beckett, Jonesco, Sartre, Osborne e in tanti altri autori.
A partire dal Novecento, scuole altamente innovative come quelle di Grotowski e di Stanislavskij hanno avuto la tendenza a creare sempre più una “intimità” tra attori e spettatori, facendo cadere la barriera tra chi recita e chi guarda, al punto che gli spettatori vengono invitati essi stessi a partecipare alla scena, nella convinzione che l’attività teatrale possa produrre dei “cambiamenti” sia negli attori che negli spettatori.

Drammatizzazione e psicodramma

La drammatizzazione (che significa mettere in scena un componimento letterario) è il trasporre, il recitare sulla scena contenuti mentali, passioni, angosce che vivono “all’interno” del soggetto e che vengono esternati davanti al pubblico.
Lo psicodramma è una particolare forma di drammatizzazione, utilizzata per scopi terapeutici. A differenza della drammatizzazione che, bene o male, ha un canovaccio, lo psicodramma si svolge “senza regole”, ed è lasciato alla spontanea azione e verbalizzazione del malato. A lui il terapeuta chiede di esprimere “quello che sente dentro di sé”, cioè ad esternare le proprie angosce.
Se le emozioni sono portate alla coscienza, rivissute e “capite” (insight) durante la drammatizzazione, il soggetto impara ad accettare aspetti precedentemente temuti della propria realtà psichica, e giunge ad una certa distensione. Ciò comporta un scarico terapeutico della tensione psichica (abreazione).
Afferma Lévi-Strauss che l’attore scopre le qualità dell’anima passando per i segni gestuali e vocali.
L’abitudine fa pensare che il teatro debba instaurarsi in un palcoscenico, con scene, luci, e poltrone. Invece non è così: qualsiasi spazio può diventare palcoscenico, perché il teatro è immaginazione, e questa è tutto quanto di cui si ha bisogno perché s’inizi un atto teatrale.
«Il teatro è il luogo della comunicazione» afferma Eugenio Barba, poliedrico “maestro di teatro”.
La terapia-teatrale ha legami con l’arte della guarigione rituale, che un tempo avveniva fondamentalmente attraverso rappresentazioni mitiche e simboliche.
Barba, Grotowski, Stanislaskij e altri teorici del teatro terapia, come del resto buona parte degli psicoterapeuti freudiani e no, ritengono che l’uomo non debba più essere ingabbiato in un solo “copione”, come purtroppo invece certe strutture sociali ancora richiedono. Egli dovrebbe poter “cambiare copione” in sintonia con la crescita del suo sé. Il che significa che dovrebbe essere libero da strutture che bloccano lo sviluppo della sua personalità.
L’uomo deve dunque poter “crescere” e liberarsi delle proprie schiavitù “giocando” con più copioni, libero d’abbracciare quelli che più gli si confanno. Infatti, la persona sana non dovrebbe cercare la fedeltà “al copione” che gli è stato imposto, ma la fedeltà al proprio sé, afferma Walter Orioli.
D. W. Winnicott “suppose la presenza” di un innato Sé, oscurato da un sovrapposto Sé prodotto dalle esigenze sociali. Il Sé innato sarebbe spesso costretto a seguire linee-guida che magari non gli sono congeniali: da questa ha origine l’alienazione.
La terapia che si svolge tramite la recita, facendo affiorare il Sé innato, riporterebbe ordine nella situazione psichica del soggetto.

Tragedia greca e psicopatologia

Secondo Schopenauer il teatro è lo specchio dell’esistenza umana e in particolare la tragedia, il cui termine deriva dal greco (tragicos, cioè spaventoso orribile) mette a fuoco l’inestricabile groviglio in cui l’uomo precipita spinto dalle sue passioni.
Già nell’antica Grecia la funzione del teatro era considerata espressione del dramma interiore dell’individuo e nel contempo ritenuta catartica. Di questo parere era infatti Aristotele il quale affermava nella Poetica che fine della tragedia è la catarsi e gli spettatori, identificandosi negli attori, si purificano di quei sentimenti controversi che sono stati vissuti nello spettacolo e alla fine ritornano più equilibrati.
Questa funzione era stata già compresa da Aristofane che, nella commedia Le Vespe 422 (a. C.), narra di un figlio che volendo guarire il genitore dalla mania di “giudicare ossessivamente gli altri”, organizza, aiutato dai servi alcune finzioni sceniche che fanno convincere il “vecchio” della pericolosità sociale della sua abitudine.
In Grecia i teatri in cui si svolgevano le tragedie erano molto frequentati e ciò che veniva rappresentato aveva un grande fascino sugli spettatori.
Questi spettacoli erano manifestazioni collettive paragonabili alle odierne feste dei santi protettori e servivano a favorire l’aggregazione pubblica[1].
Tanta attenzione era forse dovuta anche al fatto che i greci ritrovavano nel palcoscenico le stesse ossessioni e le stesse situazioni irrazionali e paranoiche nelle quali si imbattevano quotidianamente.
La drammatizzazione greca infatti, con il suo vissuto conturbante, induceva gli spettatori a riflettere su alcuni passaggi psicologici che scavavano nelle tenebre e nelle contraddizioni dell’animo umano.
Questa antica drammatizzazione può essere considerata il paradigma dell’angoscia esistenziale: Medea, Edipo, Aiace, Elettra, Antigone, Oreste sono emblematici esempi di psicopatologie.
Le recite non erano considerate, come intendiamo noi moderni, un fatto puramente artistico e letterario. Il loro fascino era dovuto alla penetrante universalità del pathos che esse riproducevano e alla efficace descrizione dello stato di sofferenza psichica.
Le tragedie, dando sfogo alle emozioni che la gente provava nella vita quotidiana e che talvolta era costretta a reprimere per motivi personali o sociali, esprimevano tutto ciò che era difficile portare alla coscienza, verbalizzare o esternare, ma che gli spettatori avevano presente nel loro animo[2].
In queste drammatizzazioni si trattavano argomenti e fatti che accadono di frequente tra la gente. E così gli spettatori si riconoscevano nelle “maschere” e nelle vicende rappresentate, il che crea una abreazione benefica.
Platone da principio fu del parere che le tragedie potevano nuocere alla sanità mentale della popolazione. Egli infatti era convinto che la personalità si fondasse su tre capisaldi: la ragione, le passioni e l’impulsività, indicando nelle ultime due il lato violento e folle del comportamento. Per tale motivo, le stranezze e le incongruenze narrate dai tragici greci indussero il filosofo a temere che quelle vicende avessero un effetto negativo sulla popolazione. Infatti è probabile che gli antichi greci avvertissero in modo drammatico questa miscela esplosiva, che dimostrava la precarietà dell’equilibrio e della sorte individuale.
Un allievo di Platone, Polemone, spinse addirittura la preoccupazione del maestro alle estreme conseguenze e invitò i propri allievi ad assistere alle rappresentazioni tragiche praticando una sorta di autocontrollo, per rimanere distaccati dal pathos che da esse emanava, onde evitare di esserne coinvolti e magari “resi peggiori” dallo spettacolo.
In un secondo tempo Platone ritenne invece che le tragedie avessero un valore “formativo”, perché, mostrando il lato più debole dell’animo umano, potevano avere una valenza educativa.
Gli ateniesi di quel tempo vivevano con uno straordinario senso d’insicurezza, sia teorico che pratico, a causa delle continue guerre che dovevano sostenere e per via dell’ostracismo[3]. Le tragedie erano dunque permeate dal senso di fatalità e di fragilità della condizione umana, dalla sensazione di provvisorietà e dallo sgomento dovuti alla sensazione di smarrimento per la transitorietà della vita.
Ciò spiega il successo di questi lavori teatrali che rappresentavano le ossessioni, le situazioni paranoiche e irrazionali nelle quali si dibattevano gli spettatori .
La finzione scenica, trasformando il dramma della condizione umana da reale in letterario, fungeva da situazione psicoterapica, liberava gli spettatori di quanto di mostruoso essi avevano dentro.
Anche l’influsso irrazionale della fatalità e la suggestione creata dalla follia erano elementi questi presenti nella scena, così come nel profondo dell’inconscio della gente che assiepava le gradinate degli anfiteatri. Ma trattandosi di “finzione scenica” questi drammi non apparivano nocivi agli spettatori, anzi li “purificavano”.

L’attore e il “malato”

Lo sconvolgente conflitto interiore del protagonista della tragedia non è dissimile da quello del paziente psichiatrico. Nel palcoscenico il paradigma dell’ansia esistenziale fa precipitare in un ginepraio inestricabile di orrori e di paure. Malgrado il protagonista sia innocente, egli è preda di un ingranaggio che non può dominare e che lo porterà inevitabilmente alla distruzione della propria esistenza.
E’ la stessa ineluttabilità psicopatologica che la psichiatria moderna riscontra nel percorso esistenziale del malato mentale, anch’egli innocente.
L’insanabile conflitto interiore che si ritrova nelle tragedie non è dissimile dalla condizione del paziente psichiatrico, la cui angoscia appare senza via d’uscita.
Sia il malato, preda dei suoi fantasmi, sia il protagonista della tragedia, invischiato dalla irreparabilità del destino, sono inchiodati alla loro condizione tragica.
Ciò comporta che il protagonista, coinvolto dal dramma, deve commettere atti che, se fosse stato libero d’agire, avrebbe rifiutato di portare a termine. Parimenti, il malato psichico, fatalmente anch’egli privo di libertà, è costretto, dai suoi conflitti interni, a ruminare idee “strane” e talvolta persino a compiere gesti insani.
La drammaticità della vita narrata sul palcoscenico trova un parallelo dunque nel delirio del paziente che la malattia mentale affligge con paure e immaginazioni incontrollabili.
La vera tragedia di Edipo è scoprire che inconsapevolmente egli ha commesso azioni riprovevoli. Così come la vera tragedia del malato di mente è avvertire l’esistenza dei propri fantasmi mentali, e rendersi conto che non sono “reali”, ma immaginari.
Il dramma “rivelato” sul palcoscenico, è quello stesso che nella vita privata opprime molta gente e di cui non si osa parlare. È qualcosa di oscuro e terribile che tuttavia l’individuo non ha il coraggio di confessare a sé stesso.

La malattia psichica rappresentata nel palcoscenico

Uno dei precursori della terapia teatrale fu il marchese De Sade. Rinchiuso alla fine del ‘700 nel manicomio di Charenton, col permesso del direttore amministrativo della struttura manicomiale, F. De Coulmier. De Sade allestì lavori teatrali scritti da lui stesso e recitati dai malati psichici ricoverati in quel luogo. Quelle rappresentazioni suscitarono molto interesse e richiamarono anche spettatori che facevano parte del ben mondo parigino e intellettuali francesi.
Tra la fine del ‘700 e i primi dell’800, l’abate Giovanni Maria Linguiti, dottore in legge, venne nominato, malgrado non fosse medico, direttore della “Casa dei folli”, quello che diverrà l’Ospedale Psichiatrico di Aversa. L’abate nella conduzione di quell’istituto per alienati portò due innovazioni: far lavorare i matti e dare loro degli svaghi, come la danza e la musica.
Tra gli svaghi che immaginò utili ai pazienti, il direttore della Casa dei folli “inventò” le rappresentazioni teatrali con attori ricoverati nella struttura di Aversa, ritenendo che ciò sarebbe stato utile ai pazienti per capire se stessi.
Linguiti faceva rappresentare nel palcoscenico a ciascun malato un personaggio il cui carattere era in opposizione alle idee predominanti dello stesso malato.
Così facendo, il monaco-alienista affermava di aver notato che i folli, avendo l’impegno di recitare la figura psicologica loro affidata, penetravano talmente nella parte che “quasi senza avvedersene a poco a poco si spogliavano delle loro precedenti idee stravaganti”.
In seguito l’attività teatrale fu portata avanti dal frenologo Biagio Miraglia, che la riprese dopo un periodo di interruzione perché non più curata dai vari direttori succeduti al Linguiti.
Il Miraglia arrivò addirittura a rendere famosa la compagnia di matti, che erano ricoverati nel manicomio che egli dirigeva, facendoli recitare nel teatro del Fondo di Napoli.
Un’operazione questa molto apprezzata anche dal famoso alienista Dominique Esquirol il quale scrisse che riteneva uno strumento terapeutico il teatro dei folli che si rappresentava a Napoli.
Nel 1863 Alessandro Dumas (padre), venuto i Sicilia al seguito di Garibaldi, assistette ad una di queste rappresentazioni al Teatro del Fondaco, oggi Teatro Mercadante, nella quale gli attori erano tutti internati nel manicomio.
Lo scrittore francese fu profondamente interessato e turbato da quell’evento, tanto da scrivere un lungo articolo al riguardo, “I folli del dottor Miraglia” in cui sviluppava l’idea che il palcoscenico è un crogiuolo nel quale è possibile analizzare tante realtà, compresa la follia.
Partendo da queste considerazioni e osservando l’importanza che il gruppo ha sull’individuo, è evidente la possibilità che sia più facile “capire assieme” e “crescere assieme” facendo teatro, piuttosto che restare assorti, in solitudine, nelle proprie angosce. Comunicare agli altri tramite l’azione scenica aiuta a combattere l’isolamento e la paura della malattia.
Convinti che la malattia psichica abbia molti risvolti affettivi, alcuni ricercatori hanno osservato che l’individuo “disturbato”, “disadattato” o “sfiduciato” riesce meglio a riacquistare fiducia in se stesso osservando le esperienze degli altri e rivelando in pubblico le proprie.
Così il malato, attraverso “l’improvvisazione teatrale”, esplora il significato dei propri pensieri e dei propri gesti, rappresentandoli in forma narrativa.
Nel teatro-terapia si devono creare le condizioni affinché ciò che accade nel “palcoscenico” sia autentico così come siano autentici i sentimenti.
Tutti i partecipanti all’azione scenica devono essere coinvolti nella situazione, sia da narratori-partecipi, sia da “osservatori- critici”.
Il ridurre a forma narrativa teatrale le proprie afflizioni e riscontrarle negli altri “narranti”, dà la possibilità all’attore-paziente di vedere la propria vita come in uno specchio, e così la propria situazione esistenziale, vista “in proiezione”, è resa più obbiettiva. Ciò consente al malato una più realistica presa di coscienza della propria inadeguatezza.
Ascoltando le narrazioni degli altri il malato scopre che le proprie inquietudini, le proprie angosce e i propri sentimenti sono condivisi da altre persone che le narrano anch’esse sul palcoscenico. Ciò gli fa intendere di non essere l’unico in quella situazione.
Nel palcoscenico i pazienti psichiatrici raggiungono un certo distacco dai propri problemi tanto da poterli ravvisare in prospettiva con sufficiente spirito critico. Molti di essi affermano di essere sorpresi, “recitando” la loro parte, di trovare persone che parlano il loro stesso linguaggio.
Le vicende che si raccontano, la parte che ognuno interpreta al momento della rappresentazione, esprimono ciò che al soggetto più preme nell’inconscio e nella sua quotidianità.
Se le persone che interpretano o che inventano il dramma sono diversificate in vari caratteri, questa varietà di tipi rende più vivace lo svolgersi dell’azione e i confronti sono molto più interessanti.
A mano a mano che il paziente si “cala” nel personaggio, è sempre più in grado di esprimere al meglio ciò che “ha dentro di sé” pigliando così coscienza, con maggior distacco, delle sue “imperfezioni” e dei suoi disagi.
Alcuni psicologi, tra i quali J. L. Moreno, A. Stein, J. W. Klapman, e altri, ritenendo che le terapie di gruppo fossero in qualche caso inadeguate ad obbiettivare le angosce di quei pazienti restii ad aprirsi nelle terapie attuate in comunità, adottarono l’escamotage dell’animazione teatrale per facilitare l’esternazione delle problematiche dei soggetti più riottosi. Nell’animazione teatrale uno dei compiti principali del terapeuta è quello di stimolare l’azione scenica creando un’atmosfera che faciliti l’esternazione in forma di narrazione teatrale.
Il terapeuta, per non “forzare” la spontaneità degli “attori”, deve dare delle indicazioni molto generiche sulla trama e sul tema da trattare nella scena. Saranno i malati a scegliere il percorso narrativo che si confà ai loro bisogni e che può essere accettato dal gruppo.
Se l’atmosfera è aperta, permissiva e comprensiva, l’azione scenica sgorga fluida e gli “attori” possono persino collaborare ad aiutare emotivamente uno dei partecipanti favorendogli la possibilità di esplorare i propri sentimenti, le proprie convinzioni che, fino ad allora, aveva considerato inaccettabili e pericolosi.
Invece, una atmosfera inibente, fatta di reciproca critica, di atteggiamenti ridicolizzanti, non può portare ad una aperta narrazione.
Il compito del terapeuta è dunque quello di spingere ”gli attori” a rivelarsi senza inibizioni e turbamenti. Per far ciò egli deve spiegare che essi sono “sotto la copertura” della narrazione teatrale, il che li “scagiona” dall’indicare come propri i fatti narrati.
Una personalizzazione infatti darebbe loro fastidio.
Se il malato rievoca una scena di vita, o un percorso mentale alterato, e li narra non sotto forma di eventi occorsogli, ma come “interpretazione teatrale” di cui egli è semplice attore, eliminata la preoccupazione e la vergogna che avrebbe se le rappresentasse come “proprie”, può esternare senza timore “di essere scoperto”, pensieri e angosce che lo assillano.
Impersonare “la parte” di un angosciato, infatti non è la stessa cosa che raccontare le proprie afflizioni. La finzione scenica, l’interpretazione di un personaggio, scagiona dalla “vergogna” della malattia e riduce l’ansia della confessione.

Psicodramma e terapia di gruppo

La teatro-terapia è una particolare forma di improvvisazione basata sulla rappresentazione di momenti di vita, fantasie, ricordi e desideri che favoriscono il contatto fra le persone.
La libera espressione, la schiettezza degli attori, il gioco spontaneo, l’interazione verbale e corporea aiutano ad esprimere e a dare forma alle proprie emozioni.
Durante la narrazione il movimento, l’uso dello spazio e della voce, la coordinazione, l’interazione e l’affidamento agli altri hanno una importanza basilare.
Vengono inoltre “affrontate” le emozioni, mediante l’effettuazione di cori e giochi di ruolo.
Secondo J. Grotowskj, regista e teorico teatrale, il teatro è un mezzo utile per esplorare se stessi, perché porta a un lavoro di “scavo” interiore che fa cadere le maschere. Per Grotowskj, l’attore, affrontando gli interrogativi angosciosi che alienano la vita quotidiana, arriva ad una maturazione psichica.
Chi fa teatro e soprattutto chi interpreta se stesso come personaggio teatrale, raggiunge gli strati nascosti della propria personalità. Ciò gli consente di “capirsi meglio” e di “disfarsi” di quanto lo assilla. La cura attraverso l’azione simulata rappresenta un mezzo di comunicazione con l’inconscio proprio là dove il paziente ha difficoltà di insight e di comunicazione.
A volte lo psicodramma viene recitato dalle stesse persone che sono coinvolte nel vicenda che si discute nella scena.
Se per esempio marito e moglie, che hanno problemi di comunicazione, recitano fianco a fianco, è possibile che arrivino a rendersi conto di ciò che ha in mente il partner e trarne un insight proficuo.
«Non avrei mai capito cosa provasse e cosa volesse mia moglie, se non avessimo entrambi recitato in palcoscenico la parte di due coniugi e se non avessimo verbalizzato ciò che avevamo “dentro” e che si era accumulato in anni di silenzi» affermò un soggetto che ha voluto seguire la terapia della drammatizzazione per risolvere i problemi di coppia.
Una signora quarantenne, dopo avere rivisto nello schermo televisivo la sua drammatizzazione che era stata incisa su cassetta video osservò soprappensiero: «Non avrei mai saputo, senza questa esperienza, che gesticolo, parlo e tengo atteggiamenti eguali a quelli che da anni critico in mia madre. Guardandomi “recitare” trovo che la mia realtà interiore ha tratti altrettanto sgradevoli di quelli che rimprovero a mamma».
La sensazione che si ha durante la recita, ciò che si vede nel volto di chi ci osserva e in fine, anche la tecnica della videoregistrazione, la quale serve a meglio “incastrare” atteggiamenti e modi di esprimersi che altrimenti sfuggirebbero alla nostra presa di coscienza, sono utili presupposti per una più efficace presa di coscienza.
Non che siano in ogni caso una panacea, ma simili interventi possono apportare un piccolo contributo alla decifrazione di segni simbolici e fisici, di episodi emotivi che forse non potrebbero essere compresi con lo stesso spessore che può dare la rappresentazione teatrale, in cui messaggi fisici e comunicazioni psichiche, atti e parole fanno conoscere, come diceva Pirandello, “ciò che c’è dentro di noi”.
“Conoscere” non significa però “guarire” e ciò soprattutto nei casi gravi.
Non basta far recitare un paziente psicotico – afferma Marco Alessandrini – nella convinzione che il teatro sia in assoluto uno strumento curativo. L’attività teatrale è però, quanto meno, un “tentativo” di comprendere le difficoltà in cui vive il paziente.
A volte nell’attività teatrale svolta da pazienti si hanno strane e curiose sorprese, come quella che riferisce Alessandro Dumas ne “I folli del dottor Miraglia”.
Lo scrittore francese narra che uno psicotico, tale Felice Persio, dopo avere recitato nel dramma “Il cittadino di Grand” un personaggio ucciso nell’azione scenica, si rifiutò in seguito di tornare sul palcoscenico per recitare dell’altro.
«Come volete che torni in scena se sono già morto?»
Il Perseo aveva preso tanto sul serio la parte che aveva recitato al punto che rifiutò tassativamente di comparire sul palcoscenico da vivo. «Solo a Gesù Cristo è stato concesso il privilegio di resuscitare» sentenziò.

Tecniche di espressione teatrale

Jacob Moreno, nello psicodramma terapeutico introdusse l’“Io ausiliario”, che impersona un individuo assente nella scena, ma che ha, o che ha avuto, una grande importanza per il soggetto malato e che, per vari motivi, appare sempre nel suo mondo privato, creandogli dei problemi.
Chi recita l’Io ausiliario, deve conoscere gli antefatti della situazione, e sapere come si sono comportate le persone reali quando in passato vennero realmente a contatto col paziente. Compito del terapeuta è di mettere a parte l’attore che impersona l’Io ausiliario delle vicende e delle persone che hanno creato problemi al paziente.
La presenza sulla scena dell’Io ausiliario rende più viva la dinamica degli avvenimenti e aiuta il soggetto a comprendere ciò che accadde in passato.
Se l’Io ausiliario si comporta come il paziente avrebbe voluto che il personaggio reale in passato si fosse comportato, o se si comporta come il paziente vorrebbe che nella realtà attuale si comportasse, ciò può far sortire una benefica influenza e può rendere meno drammatico l’aggrovigliato rapporto che il paziente ha con la persona che è rappresentata dall’Io ausiliario.
Un attore che per esempio impersona nell’Io ausiliario il padre del paziente, un padre che il paziente non ha avuto modo di “capire” e di “accettare”, può instaurare un contatto “intimo e caldo” con l’attore-paziente, quel contatto che tra padre figlio non ha mai avuto luogo.
Ciò può essere di grande vantaggio per eliminare i “grumi emotivi” che il soggetto ha riservato al padre assente.
Tra l’Io ausiliario e il paziente si può anche svolgere nella scena una interazione indispensabile, che mostra i problemi non risolti tra paziente e gli altri.
L’Io ausiliario può essere utilizzato anche come “alter Ego” del paziente, e rappresentare gli atteggiamenti negativi, le frustrazioni di cui il paziente non è ben conscio. Il paziente, vedendoli tratteggiati da un altro soggetto, potrebbe capire qual è in realtà la sua situazione psichica.
Il paziente può accettare o rifiutare l’Io ausiliario e da questo suo atteggiamento il terapeuta può trarre molte conclusioni interessanti.
Oltre al dialogo con i co-attori, è possibile utilizzare la forma del monologo-soliloquio terapeutico. Con esso il soggetto si tuffa in una serie di osservazioni e di confessioni che a poco a poco diventano sempre più lucidamente coscienti.
Parlando di sé nella situazione terapeutica del palcoscenico il paziente ragiona così: «Ciò che dico è una manifestazione teatrale, non una confessione per cui posso dire “tutto”».
Il protagonista, “recitando” la propria vita, tira fuori i propri sentimenti, i propri dubbi, le proprie angosce, ma con l’aria di “fare una cosa artistica”, non una confessione terapeutica. Ciò induce a esternare senza troppe preoccupazioni i grovigli della propria mente.
Moreno utilizzò anche la tecnica dello scambio di ruolo per creare l’insight necessario. Questa operazione consiste nel far impersonare al paziente il ruolo della persona con cui egli è in conflitto. Se il soggetto entra davvero nel ruolo “dell’altro”, può meglio capire i comportamenti e le reazioni che l’altro ha tenuto nei suoi confronti, e può così scaricare una parte della conflittualità, perché, immedesimandosi in quel ruolo, potrà “giustificare” i comportamenti della persona che lo ha frustrato.
Un’altra tecnica usata è far “recitare” al paziente un suo sogno.
In questa sceneggiata potrebbero essere richiesti alcuni Io ausiliari affinché recitino la parte di altri personaggi che si sono presentati nel momento onirico del paziente.

Il folle recita se stesso

Il folle recita se stesso è una messa in scena teatrale di Fabrizio Lazzaretti e Alberto Vendemmiati, presentata dalla Rai nel programma Report. In essa, i due autori, partendo dall’idea che è impossibile scandagliare completamente ed efficacemente la mente del paziente, per conoscere ciò che egli sente e percepisce, hanno utilizzato una pantomima teatrale nella quale un quarantenne che è stato a lungo ricoverato in manicomio fa da primo attore e voce narrante e altri matti recitano con lui da co-attori.
Il paziente, Claudio Misculin, afferma di aver trovato nel teatro realizzato in quella struttura il senso della vita.
«Un teatro informale, quello dell’istituto manicomiale in cui vivo, fatto di un palco, di un infermiere, di tanti compagni malati, di un medico compiacente che ci lasciava fare. Il tutto per poterci salvare dalla noia, dalla stanchezza..» confessa Misculin.
La scena che viene rappresentata nel filmato della Rai tratteggia il caos della vita. C’è il mercato, il gruppo familiare, la angoscia della gente, la solitudine, e persino i simboli della religione.
I protagonisti che recitano nella scena, “tutti matti” (come li definisce l’attore principale dell’opera di Lazzaretti e Vendemmiati), confessano a cuore aperto i loro “percorsi mentali”. In questo caso, le storie che vengono alla ribalta sono quelle personali. I “matti”non si vergognano di raccontarle.
«La normalità – precisa l’attore-paziente – ha una valenza positiva in quanto esiste la follia. E difatti i due termini non si contraddicono; è importante capire quanto la normalità si mescola con la follia, e viceversa. Forse la normalità mista a un po’ di follia permette una crescita in senso umano. La sola normalità, fredda, imbrigliata in schemi, senz’anima, è peggio della stessa follia», conclude paradossalmente la voce narrate.
L’attore afferma che a lui piace “lavorare” in teatro con i matti come lui. «Il matto – sostiene Claudio nell’intervista a Report – dice sempre la verità. È trasparente, perché dà le coordinate della sua vita ed è subito conoscibile. Il normale, per essere considerato tale, deve necessariamente dire spesso bugie, perché non può scoprirsi, temendo che potrebbe mostrare di non essere sempre del tutto “logico”»
La realizzazione dei due registi mostra che, per molti pazienti la soglia di tolleranza della psicoterapia a volte può essere molto bassa. Quando invece essi sono rassicurati dal fatto che, recitando, tutto sommato, la narrazione del loro sé può essere presa come “un gioco”, possono con migliori risultati esternare e rendere meglio l’idea del loro groviglio interno.
A mano a mano che recita se stesso, il malato incontra le sfaccettature della propria personalità ed è messo nelle condizioni di avere l’occasione per una reintegrazione psicodinamica del suo sé.
Un intervento, questo, che deve avvenire senza avere l’aria di una intromissione terapeutica la quale potrebbe essere vista come una intrusione frustrante.
Se il paziente avvertisse di essere “osservato dal punto di vista diagnostico” mentre recita, finirebbe con l’inibirsi e questo fatto impedirebbe al terapeuta di poter conoscere a fondo il paziente.

Controllo della situazione scenica

La situazione di “crisi” narrata nel palcoscenico coinvolge inevitabilmente quanti vi partecipano, creando problemi d’interazione, di controllo delle emozioni e distorsioni d’interpretazione verso gli atteggiamenti degli “altri”.
Se uno dei protagonisti viene frainteso, la tensione emotiva può arrivare a livelli difficili da controllare.
In quel caso gli altri partecipanti si attestano su “manovre difensive”, mostrando atteggiamenti di critica verso chi ha esposto “elucubrazioni” che non vengono accettate.
Tutto ciò può rendere difficile la conduzione dell’azione scenica.
Sta al terapeuta chiarire ai co-protagonisti il significato delle parole dell’attore che sono state equivocate, e chiedere loro di esaminare più attentamente quanto detto dal co-attore, con più obbiettività .
Se l’operazione di “recupero” avviata dal terapeuta ha successo, i partecipanti mostreranno buona capacità di adattamento e le loro “difese” saranno contenute nei limiti accettabili.
Questo è il primo passo per rendere innocua la conflittualità del malato e aprirlo, utilizzando proprio “il confronto” con gli altri, a una modificazione del suo modo di sentire e di vedere.
La teatro-terapia in quanto messa in scena dei vissuti dei singoli attori-pazienti all’interno di un gruppo, richiede una educazione alla sensibilità e alla percezione corporea e vocale. Ciò presuppone un minuzioso lavoro di educazione espressiva indispensabile affinché avvenga una reazione terapeutica.
L’azione del terapeuta del dramma è quella di rendere armonico il rapporto tra corpo, voce, mente e creatività interpretativa.
Il terapeuta teatrale deve pertanto avere competenze artistiche, creative e psicologiche; ed inoltre saper padroneggiare il linguaggio teatrale nei suoi diversi aspetti.
Questo doppia preparazione, in campo teatrale e in campo psicologico, è la base essenziale per questo genere di terapista.
Egli deve insegnare all’attore le tecniche da utilizzare per una disciplina di se stesso, per ottenere una migliore percezione e coscienza di sé e per arrivare a un migliore equilibrio e una integrazione sociale.
Stimolare nella rievocazione scenica ritmi, parole, gesti, costituisce lo strumento che deve utilizzare il dramma-terapeuta.

Il personaggio: realtà o finzione?

Il mondo antico non concepiva la distinzione tra l’interprete e il personaggio, perché non ammetteva che una medesima persona fosse contemporaneamente se stesso e un altro[4]. Prova ne sia che la parola ipocrita, in greco, significava attore. E oggi l’ipocrita è colui che si trasforma in attore senza avvertire l’altro.
Nel teatro antico, come anche nei riti magici, nelle funzioni funerarie, era prescritto l’uso della maschera, perché essa privava l’attore della sua identità e gli consentiva di assumere la realtà di un’altra persona o di una forza suprema.
L’uso della maschera si ricollegava a cerimonie propiziatrici. Chi la indossava non era più la persona umana, con le sue caratteristiche originarie, ma “diventava” lo stregone, il sacerdote, il guaritore, lo spirito di un demone, la personificazione di un dio.
L’atto stesso di portare una maschera indicava l’intento di “cancellare” l’individualità del soggetto che la indossava per sostituirla con una individualità diversa.
Nel teatro greco la maschera copriva il capo dell’attore e aveva una grande apertura davanti alla bocca che così serviva anche da megafono.
Le maschere erano marcatamente caratterizzate (erano truci o allegre, bianche per indicare che si trattava di una donna – anche se chi recitava era sempre un uomo – o brune per i maschi). Tutte insomma venivano realizzate in maniera che, abbastanza chiaramente e facilmente, fosse intelligibile individuare il carattere del personaggio che rappresentavano.
In quanto agli antichi romani, essi non amavano molto gli attori, che avessero o meno la maschera, proprio perché ritenevano che costoro, per portare a termine il proprio lavoro, fossero “costretti” a disfarsi della loro identità, cioè del bene più significante per un essere umano, e assumere le “sembianze psicologiche” di un altro.
Dal Rinascimento in poi, fino alla cultura moderna, questa preclusione è venuta meno e a poco a poco si è ammesso che l’attore possa “recitare il personaggio” compiendo una operazione di sdoppiamento artistico per nulla nociva.
L’interprete sul palcoscenico assume in se stesso i modi, le abitudini, le ragioni del personaggio, rimanendo pur sempre nella sua identità. Il personaggio rimane “diverso” dall’interprete e quest’ultimo, senza “divenire” concretamente il personaggio, lo finge illusoriamente per fini scenici con fedeltà e con coerenza.
A ipotizzare la possibilità di giungere ad una identità tra attore e personaggio, è stato invece il teatro naturalista di fine ‘800. Per esso, all’opposto del teatro antico, l’interprete che vuole rappresentare con fedeltà il personaggio, deve “diventare” identico al personaggio che recita. Cosa che si è vista anche recentemente con attori come De Niro, che fanno di tutto per identificarsi con il personaggio, fino a studiarne la vita (se si tratta di un film biografico, come in “Toro scatenato”, vita di Jack La Motta, per esempio), frequentarne gli ambienti, ecc.
Scompare così, per il teatro naturalistico, la maschera che nasconde o annulla la personalità dell’attore: questi deve diventare realmente “il personaggio” che egli recita.
Sia Lévi-Stauss che Brecht ritengono che il primo a non contentarsi di riprodurre o di mimare solo superficialmente certi avvenimenti e di riviverli invece effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza, sia stato lo sciamano.
Walter Orioli dice infatti che lo sciamano è il prototipo dell’attore-terapeuta. Lo sciamano diventa “attore” e “guaritore” dopo avere subito un grave disagio psichico, dopo il superamento (o l’accantonamento- allontanamento) della malattia che gli ha imposto un viaggio interiore fatto di angosce e ossessioni, e che egli ripete nei canti, nelle danze, nel simbolismo mimico. Il suo fascino è certo conturbante e insondabile, ma la sua “recitazione” ha il potere simile a quella di una pratica terapeutica.
Un altro passaggio nella drammaturgia, diverso dal discorso precedente, è quello indicato da autori come Beckett, Jonesco, Tardieu. Questi commediografi sostengono che il personaggio non deve mostrare alcuna complessità psicologia, ma deve essere un emblema, una rigida macchietta, un punto di riferimento caratteriale, del tutto diverso dalla personalità dell’attore, il quale lo interpreta dandogli dimensione e continuità scenica, ma guardandosi bene dal partecipargli un afflato psicologico.
Il personaggio pertanto deve restare “personaggio”.
Questa teoria drammaturgica indicata dagli Autori ora riferiti, ritiene che l’attore non si identifichi con la maschera che rappresenta: egli se ne deve scostare, deve renderla paradossale; “schematizzarla” per consentirne la identificabile caratteriale e farla riconoscere al pubblico. L’attore, in quanto sé, deve rimanere estraneo all’azione scenica.
Dell’uso teatrale della “maschera psicologica” rimangono nel teatro moderno i “tipi fissi”: l’innamorato, il brontolone, lo spaccone, lo sciocco, il ciarliero, l’imbonitore e via dicendo.
Un’operazione di questo genere, se può dare uno stile a un certo teatro, è però assolutamente inopportuna per una rappresentazione che debba avere un effetto terapeutico per gli attori.
Difatti il teatro terapeutico capovolge la logica del teatro imperniato sul personaggio. Nel teatro terapeutico chi recita resta se stesso e caratterizza il personaggio facendolo diventare identico alla propria personalità.
Se invece si maschera dietro un personaggio “inventato” dalla penna di un autore, si sottrae all’autoanalisi e mette in crisi l’impalcatura terapeutica.
Quando invece l’attore-paziente, “fingendo” di raffigurare un tipo inventato, impersona realmente se stesso, allora egli nel palcoscenico mostra non l’“invenzione artistica” ma ciò che è realmente in quanto essere umano.
Rivelarsi personaggio significa caratterizzare il proprio Io. Il carattere indica varie sfaccettature di una persona reale o di una figura teatrale. Il teatro ha a che fare col “carattere” proprio perché nel palcoscenico transitano varie caratterizzazioni. Infatti si parla di attori-caratteristi e di personaggi “caratteristici”, cioè di figure teatrali che riproducono un insieme di tratti che identificano un tipo particolare, esclusivo.
Il carattere è una struttura dovuta al vissuto. È ciò che si forma e resta nell’individuo dopo i traumi dell’infanzia. In teatro, il personaggio-caratteristico mostra col suo stesso esprimersi le ferite, i traumi che lo hanno fatto tale. Per cui il personaggio è ben caratterizzato se sono individuabili le sue “patologie”.
Emblematico è il caso Pirandello. Lo scrittore siciliano manifestò il dramma della sua anima soprattutto mediante il teatro. Scrivendo le sue opere, Pirandello andava delineando gli stati d’animo dei vari personaggi e, contemporaneamente, andava chiarendo i problemi del suo animo tormentato. Il drammaturgo siciliano scrisse che, mentre analizzava e comprendeva i protagonisti delle sue opere, comprendeva anche se stesso. Lo scrittore si era reso conto che era difficile stabilire un’identità distinta tra protagonista e autore, tra finzione e realtà, e persino tra inconscio e conscio.
I “Sei personaggi in cerca d’autore” sono la testimonianza dell’impossibilità di differenziare il teatro dalla quotidianità, la finzione scenica dalla vita reale.
In un certo senso, dunque, più si fa teatro più emergono i lati oscuri del carattere del personaggio, il quale viene ben individuato nelle sue manie, nei suoi tic, nelle sue paure, nelle sue attese.
Il paziente-attore che recita se stesso, mostra, anche se con l’alibi di recitare un tipo immaginario, i suoi conflitti interni e le radici del suo carattere. Ciò gli crea un insight utile. La comprensione di sé è il risultato di dubbi e lacerazioni, non un dono gratuito. Una qualità dell’animo che si conquista dopo un lungo travaglio e che viene pagata a caro prezzo.

Il perché della terapia teatrale.

È bene chiarire che la teatro-terapia non sostituisce le psicoterapie ma le affianca. Tuttavia i partecipanti alle sedute di teatro-terapia spesso affermano che questa esperienza li ha aiutati ed essere più sicuri, più aperti, e meno imbarazzati nel confronti della altre persone.
Un benefico effetto notato dai partecipati è che questa esperienza terapeutica diminuisce la difficoltà di esprimere sentimenti, soprattutto quelli più profondi e meno verbalizzabili.
Inoltre, la teatro-terapia ad alcuni “fa provare sentimenti e ruoli prima sconosciuti”.
E quale via indicò Freud per eliminare l’ansia e i disturbi nevrotici, se non quel metodo che consiste nell’esternare i pensieri «strani, incongruenti e inconfessabili»?
La teatro-terapia essendo un lavoro che si svolge in gruppo, aumenta anche la capacità di ascoltare gli altri e di capirli.
«Fare cose e dire cose che mai avrei fatto e mai detto, mettermi in gioco, superare l’imbarazzo, sperimentare la mia voce e i miei gesti », ha raccontato un paziente-attore, «è stato possibile solo dopo una lunga esperienza di teatro-terapia».
La teatro terapia serve dunque a liberarsi dalle paure (compresa quella di salire su un palco), dalle rigidità muscolari ed emotive, dai comportamenti obbligati e dai condizionamenti. Per imparare a comunicare e ad esprimersi, per imparare a chiedere, per imparare a dire no. Per riscoprire l’energia e la gioia di vivere, per affrontare il mondo con consapevolezza senza disperarsi, per imparare ad amare pienamente. Per gustare la vita nonostante le difficoltà, per aiutarsi ed essere d’aiuto agli altri. Per superare gelosie e cinismo, per scoprire la propria ricchezza interiore e provare piacere nel donarla agli altri. Per uscire dalla gabbia nella quale esperienze dolorose ci tengono imprigionati, per vivere al meglio l’esperienza della vita. Per riuscire ad essere protagonisti, e non solo spettatori.
Bisogna imparare a fare teatro senza necessariamente diventare attori. È utile recitare per migliorare la propria capacità di comunicazione, per superare le proprie insicurezze, le rigidità e i blocchi emotivi, per attenuare la scarsa stima di sé. Fare teatro insegna a esprimersi e a comunicare con più efficacia.
«Il teatro dà un senso alla vita», diceva Eduardo De Filippo. Chi riesce a vedere la vita al di là delle illusorie apparenze, tacita in sé ogni presunzione e ogni arroganza.
Ad alcuni riesce difficile narrare e rivivere esperienze personali davanti ad altri. Più facile è affrontare una situazione immaginaria, mai vissuta, giocando con la fantasia. Anche in questo caso però l’attore esternerà se stesso, le proprie abitudini, i propri drammi, le proprie maniere di vedere le cose, né più né meno che se recitasse un avvenimento capitatogli nella realtà.
Il teatro terapeutico non deve essere programmato nei suoi contenuti: deve essere “inatteso” per condurre alla verità attraverso la “sorpresa”.
Nell’improvvisazione emergono le proprie caratteristiche personali, le proprie impressioni emotive. Ci si apre nei confronti di se stessi e degli altri. La teatro-terapia diventa allora la strada per migliorare la efficienza psico-sociale.
Il lavoro di scavo psicologico, permette di portare alla luce tratti negati dalla “identità ufficiale” del paziente, che gli limita la capacità di vivere situazioni inedite. L’acquisizione di nuovi tratti psicologici consente di aprire i confini del sé e configurarli con nuove caratteristiche. L’elaborazione psicologica di nuovi aspetti del proprio sé porta ad una integrazione, e ciò consente un miglioramento ulteriore della personalità.
Chi recita prende consapevolezza che le sue parole e la sua gestualità permettono di comprendere il senso di ciò che egli, come personaggio teatrale, sta esprimendo.
Quando le parole del personaggio-attore e i suoi gesti si caricano di una tale ricchezza di significati da manifestare il vissuto personale, allora il mondo interiore, i rapporti con gli altri e gli equilibri emozionali del paziente, messi a nudo, vengono esaminati e possono avere uno sbocco positivo. La creatività della scena deve lasciare immutata l’autenticità psicologica affinché la personalità del paziente-attore non si perda in forme espressive astratte ma appaia invece il vissuto dell’attore nella sua integrità.
Le situazioni rappresentate possono essere le più varie.Spesso vengono fuori esperienze emozionali che normalmente le persone tendono a negare: rabbia, odio, frustrazioni, umiliazioni, sconfitte, vergogne, esperienze di ostilità.
L’esplorazione di sé fa sperimentare condizioni emozionali che oltrepassano la gamma di sentimenti che le persone normalmente “si consentono” di avvertire a livello di coscienza.
Cesare Musatti sosteneva che il mestiere di psicoterapeuta e quello di attore hanno una straordinaria somiglianza: per entrambi c’è la necessità di assumere il punto di vista dell’altro.
Il lavoro teatrale ha la prerogativa di assicurare la più ampia libertà di azione e può cessare nel momento in cui il partecipante ritiene opportuno.
Forse ha ragione chi afferma che la teatro-terapia è un allenamento alla vita, una ginnastica dello spirito che prepara alle difficili situazioni che si incontrano nel mondo che sta fuori.

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[1] La tragedia nacque in Grecia come culto di Dionisio,
dio proveniente dalla Tracia. Tragedia significa
“canto dei capri”.
I cantanti, travestiti da caproni o da satiri, intonavano
alla fine delle processioni canti improvvisati e liberatori.
Dopo qualche tempo, dal “coro” si passò al
canto personale
di uno dei corifei. In seguito, al protagonista si aggiunse
un secondo personaggio. Poi un terzo e così via.
Il contenuto della narrazione passò dal significato sacrale
a quello più decisamente umano, in cui il fato conduce
i protagonisti verso la catastrofé (capovolgimento),
cioè verso la soluzione luttuosa del dramma. L’azione tragica rappresentava però il frutto di una consapevolezza razionale.
Nella coscienza della crisi, sta la base della tragedia greca.

[2] Qualcosa del genere, ma meno “impegnativa” nei suoi contenuti è in seguito la sceneggiata popolare (tipiche quella napoletana e quella siciliana, che si svolgono nei cortili, palcoscenici naturali della quotidianità)
3 Provvedimento che faceva paura, perché imponeva, dopo un voto espresso dalla cittadinanza, al cittadino che veniva ritenuto (a torto o a ragione) indegno, di abbandonare la città natia.
[4] Di tale parere fu anche il Diderot il quale a tal proposito
parla di paradoxe du comédien. Il filosofo francese infatti
afferma che gli attori recitano “ a freddo”, perché essi non
provano le passioni che essi esprimono sulla scena, in
quanto tutto è calcolato e nulla è spontaneo sul palcoscenico.